Con un fatto sanguinoso e due promesse incrociate si apre La collina del vento:[1] la prima è quella che il piccolo Arturo fa alla madre, di non raccontare mai a nessuno e per nessuna ragione dei due corpi «mort’ammazzati» che ha visto riversi sulla collina; la seconda, opposta e speculare, è quella che quasi 100 anni dopo il figlio di Arturo, Michele, ‘estorce’ al proprio figlio:
Mio padre mi ha scrutato negli occhi, come se volesse accertarsi del mio desiderio di ascoltare il seguito della storia: era la storia della nostra famiglia, aveva detto prima di azzittirsi, legata nel bene e nel male alla collina del Rossarco.
Per un po’ le cicale hanno esploso il loro controcanto al silenzio, dilatandolo oltre misura. E a un tratto ho sentito una specie di supplica accorata e spiazzante, quasi una richiesta di complicità, che lasciava presagire chi sa quali rivelazioni: «Ascoltami, figlio mio, so che per te non sarà facile mettere il dito nelle nostre piaghe o riassaporare la felicità di allora senza rimpianti, ma devi conoscere la verità prima che io muoia e questa storia nostra muoia con me. E un giorno sarai tu a raccontarla ai figli tuoi. Me lo prometti?».[2]
É Michele, dunque, a narrare al figlio, incrociando la storia dei nonni, Alberto e Sofia a quella dei genitori, Arturo e Lina, fino alle vicende più recenti vissute da lui, dalla sorella Ninnabella, dalla moglie Marisa. Quasi un secolo di storia attraversa il romanzo, che, come un cerchio, si chiude nel punto in cui si era originato, svelando la ragione del fatto sanguinoso e concludendosi con la presa di coscienza del figlio, cui competerà la scrittura. Vi è, dunque, un’incrociata alternanza di voci narranti (il padre al figlio, il figlio a noi) e una doppia finzione del testo, che conserva, però, tutta la dolcezza e il sapore della voce viva e calda che si tramanda di generazione in generazione, narrando per un’urgenza reale: la necessità di non dimenticare per costruire con coraggio e coscienza il futuro.
Protagonista indiscussa del romanzo è «la collina del vento», questa meravigliosa terra che domina il mare (e che ricorda la Roccalba di Tra due mari) e si cosparge in estate del rosso e del profumo della sulla. La leggenda narra che fu Filottete a edificarvi la mitica città di Krimisa:
Non gli fu difficile scegliere dove costruire la nuova città perché i luoghi ti attraggono come le persone, ti seducono con il loro sguardo luminoso, la lingua di vento, il profumo mai sentito prima. Infatti, quando Filottete salì sulla collina e vide il promontorio che si incuneava in un mare solenne, non ebbe il minimo dubbio: lì, in quel pianoro, avrebbe eletto un tempio in onore di Apollo Aleo, mentre la città sarebbe sorta più in su, sul versante dello Jonio.[3]
Fu, poi, Paolo Orsi a disseppellire le tracce dell’antica Magna Grecia vicino Punta Alice, nel 1924 e in successive campagne di scavi. Abate fa rivivere il grande archeologo sia come personaggio storico sia come trait d’union tra la famiglia Arcuri e la collina del vento: è lui, infatti, a rivelare la ricchezza storica e culturale che si nasconde nella loro proprietà, rinsaldando il rapporto già simbiotico che legava gli uni all’altra. Perché, se la collina è la silente custode dei segreti e della memoria della famiglia Arcuri, essi diverranno i protettori della sua incolumità e della sua rossa bellezza, ostacolando con caparbietà e coraggio le mire dei vari Signori locali e non. Don Lico prima, gli speculatori edilizi poi e i ‘Signori del vento’ alla fine sono tutte facce dell’identico potere malavitoso, pronto a distruggere la propria terra per interessi economici macchiati di sangue.[4] È per salvare il Rossarco che Arturo va al confino, e che Michele rifiuterà prima di iscriversi al ‘Partito’ e poi le ‘offerte generose’ dei vari Signori. E la collina, a suo modo, ricambierà, svelando infine la storia millenaria che nasconde.
La narrazione si attua tra parallelismi di vario genere grazie all’ormai consueta tecnica musiva dell’autore, capace di intarsiare tempi e spazi lontani, sogni e immaginari, mito e storia, lingue e generi letterari diversi. Il romanzo si situa, infatti, al bivio tra il racconto di formazione, il giallo, la storia familiare corale e polifonica (metafora, come ha scritto Consolo, del Meridione e di tutti i Sud del mondo[5]) e l’epopea. Qui, però, al romanzo di fondazione della comunità arbereshe si sostituisce il romanzo storico, che abbraccia quasi cento anni di storia della Calabria: dalla ‘Grande guerra’ al decreto Visocchi, dal fascismo alla seconda guerra mondiale, dalle lotte contadine alla strage della Melissa, dagli scavi di Paolo Orsi all’operato di Umbero Zanotti Bianco:
Malgrado la loro differenza d’età i due si erano capiti a meraviglia fin da subito. Il loro obiettivo tenace era di saldare il passato remoto al presente e svelare al mondo e agli stessi ignari calabresi la grandezza di una terra conosciuta solo per la povertà e l’arretratezza della popolazione e la violenza dei mafiosi.[6]
Un obiettivo tenace che è anche di Abate: archeologo coraggioso delle bellezze di una civiltà caparbia come la terra arida e dura del Rossarco; rondine albina che vola sul mare nostro per raccontarci lo sfavillio non coperto dagli abissi in cui si annida il futuro.
[1] Carmine Abate, La collina del vento, Milano, Mondadori, 2012.
[2] Ivi, pp. 12-13.
[3] Ivi, p. 75.
[4] Ivi, p. 92. «Poi mio padre ha detto: “Queste società mi sembrano peggio di don Lico, hanno tante teste nascoste sotto una caterva di sigle: è difficile combatterle perché non le vedi in faccia. E quelli che mandano in giro sono l’ultimo bottone della vrachètta”».
[5] Vincenzo Consolo, Abate e la metafora del Meridione, «Il quotidiano», 21 settembre 2001: «Libro meridionale e meridionalista, metafora di ogni meridione del mondo, la moto di Scanderbeg è uno dei più felici esiti narrativi di questi anni.E soprattutto un attualissimo romanzo sullo smarrimento della nostra identità e sulla necessità del recupero della memoria.
[6] Abate, La collina del vento, cit., p. 185.