Già da qualche anno si è potuto riscontrare che in Italia c’è interesse per il Sudafrica. I giornali pubblicano frequenti (anche se non sempre bene informati) articoli sulla sua vita politica e anche sui fatti di cronaca che avvengono laggiù, mentre i periodici che lanciano idee per il turismo sono zeppi di notizie di ogni genere su quel paese di cui si sottolinea la valenza esotica. E gli editori di narrativa non si lasciano sfuggire un libro sudafricano che possa lontanamente far sperare in un successo commerciale, magari tralasciando i più rari ma anche più interessanti romanzi che meriterebbero davvero maggiore attenzione. Il caso più recente è quello de L’impostore che Guanda ha tradotto e ampiamente reclamizzato, quasi si trattasse di un nuovo capolavoro. Invece, ahimé, si tratta di un deplorevole abbaglio.
L’impostore è infatti un tipico prodotto commerciale nel senso deteriore del termine. È cioè un polpettone che combina insieme tutti i classici ingredienti che dovrebbero attirare il lettore (stando ai criteri valutativi dei responsabili commerciali delle case editrici): l’esotico e desolante paesaggio del karoo; la tenuta di un ricco bianco popolata di servitori meticci e neri, ma fornita anche di una grotta con antiche e bellissime incisioni rupestri, e addirittura (udite, udite) di un autentico leone che ruggisce entro un recinto e viene nutrito con carni sanguinolente; un personaggio bianco ex criminale dell’apartheid che si nasconde da ignoti persecutori e alla fine verrà ucciso, benché per errore; un altro personaggio bianco, piuttosto vagotonico, che si propone, anche se controvoglia, come protagonista di quell’avventura temporanea che è il romanzo; uno stuolo di neri servili e/o imbroglioni, arrivisti o meno, tutti infatuati del nuovo Sudafrica e pronti ad approfittarne in ogni modo; un pizzico di sesso che si vorrebbe hard fra il bianco vagotonico e la nera moglie del suo amico d’infanzia.. che altro si può desiderare per avere successo?
Va però detto che le idee di base per questi coloriti ingredienti sono in buona parte di derivazione altrui, anche se Damon Galgut, nell’imitarle, le svuota e le scolorisce. Adam, il bianco vagotonico protagonista è rifatto sullo schema del David di Coetzee, l’ex professore di Disgrace che cerca redenzione nel mondo selvaggio ed è convinto che scriverà un libro sul Romanticismo inglese (e difatti gli assomiglia nella ricerca di soddisfazione sessuale di ripiego, nel fatto che si spaccia per poeta, vive nello squallore e si lascia andare a un abbandono di tipo depressivo). La traccia di sangue, confessioni e timori che avvolge un altro bianco fuggiasco (che si spaccia per un certo Blom, ma è un nome falso) ha indiscutibili punti di contatto con Bitter Fruit di Achmat Dangor. Vi sono inoltre pizzichi di imitazioni da No Man’s Land di Van der Merwe, allusioni alla figura del patriarca amato-odiato, scomparso e però onnipresente, familiare ai romanzi di André Brink, ma già presente in The Heart of the Country di Coetzee… e si potrebbe continuare ad elencare i rottami assemblati in questo libro magmatico legato insieme da una trama di giallo in cui ci scappa il morto finale (perché, come è noto, la detective story oggigiorno tira). Insomma, alla fine della lettura, commentando l’opera, si può a buon diritto concludere che l’impostore del titolo forse è l’autore stesso, Damon Galgut, che ha una penna facile ma è poverissimo di autentica immaginazione narrativa. Quello che più irrita è la presunzione che egli esibisce di descrivere il Sudafrica inserendo ogni sorta di brandelli di elementi cuciti insieme – non manca neppure la truce mafia russa – e collocandoli in paesaggi che sono ben più sfacciatamente e volgarmente esotici di quelli di Ryder Haggard.
Sollevando il capo da queste pagine, viene fatto di
ricordare le sobrie ma sferzanti parole che scagliò Olive Schreiner a chi aveva
criticato Story of an African Farm
come scarsamente ‘autentica’ perché priva di storie di avventure con leoni e
burroni inaccessibili: nella sua breve Prefazione alla seconda edizione del
romanzo,