Jarmila Očkayová è una donna, una scrittrice, in bilico tra due culture, che ha saputo "risolvere" la frattura tra due lingue, tra due diversi modi di vivere e "sentire" in modo singolare e personalissimo. È un'autrice sensibilissima, attenta al cuore e ai sentimenti, capace - nei suoi romanzi - di penetrare le emozioni, cercando di arrivare in fondo. E se possibile ancora più giù. E questa stessa curiosa ed energica capacità introspettiva si coglie anche in questa intervista, nelle sue risposte profonde, che "trascendono" quasi le domande e si addentrano nei vasti territori dell'anima.
Irene Claudia Riccardi:
Tutti le chiedono come mai riesce a scrivere in italiano, a scapito
della sua lingua madre. E lei ha già risposto benissimo nelle interviste
che ho letto e che verranno pubblicate su El-Ghibli. Io, invece, vorrei
chiederle se le capita mai di scrivere ancora nella sua lingua madre, e
in che occasioni. Oppure, ormai, fa fatica e pensa in italiano?
Jarmila Očkayova:
Si, penso in italiano, nella stragrande maggioranza del mio tempo. Ma
non sempre. E quando penso in italiano fatico a scrivere in slovacco.
Talvolta persino a parlare. Per ritrovare la scioltezza e la fluidità
della mia lingua d'origine ho bisogno di pensare in slovacco. E
probabilmente di più: di sentire in slovacco. E' un processo curioso,
piuttosto insondabile anche a me stessa - non esistono interruttori da
girare per passare da una lingua all'altra, se non in termini puramente
tecnici, lessicali, e la fluidità della lingua non è una questione di
mera padronanza tecnica.
Ciò premesso, sì, scrivo ancora nella mia
lingua madre: lettere, qualche articolo, qualche poesia. E ho appurato
in mille occasioni che la "porta d'accesso" alla lingua madre è una
sola, per me: le emozioni. E l'approccio emozionale scatta
automaticamente quando sono in Slovacchia, dove la lingua mi circonda,
dove la respiro, letteralmente. In Italia per riavvicinarla uso degli
"espedienti" - tipo l'ascolto di una canzone, la lettura di una poesia.
Mi servono per ricreare certe atmosfere della mia lingua, il resto poi
viene da sé. Ci sono anche momenti di riavvicinamento involontario,
inconscio: i sogni. Quando mi capita di sognare in slovacco, al mattino
la lingua madre mi risuona dentro, proprio come un motivo musicale, e
potrei mettermi a scrivere in slovacco con assoluta tranquillità, senza
amnesie né inciampi.
Ha trovato difficoltà a farsi "riconoscere" come scrittrice in lingua italiana? Ha trovato pregiudizi? La considerano alla stregua degli autori-autrici del panorama letterario o la guardano con curiosità, come un "fenomeno" un po' particolare?
Forse non dovrei essere io a rispondere a questa domanda. Perciò la giro a Lei: la rivista El-Ghibli mi dedica un inserto speciale - perché? Per un riconoscimento, per la qualità o l'incisività della mia scrittura, o perché suscito altre curiosità e sono guardata come un fenomeno un po' particolare?
Ritiene di aver dovuto - e magari ancora di dovere - dimostrare qualcosa di più rispetto a un autore o a un'autrice di qui?
Come persona ho sempre dovuto dimostrare, non qualcosa di più ma
infinitamente di più rispetto ad altre persone - italiane - che vivono e
lavorano nel contesto in cui vivo e lavoro io; e temo che il tour de
force sia tutt'altro che terminato.
Da autrice non riesco a darle
una risposta netta: gli ambienti letterari sono troppo magmatici, pieni
di sfaccettature diverse e attraversati da movimenti sotterranei non
facilmente decifrabili.
Comunque: la mia ultima pubblicazione risale
al 1998, e da allora ho scritto due romanzi e due racconti lunghi, senza
più riuscire a pubblicare nulla. E non credo che dipenda semplicemente
dai tempi editoriali lunghi, o da uno scarso interesse per il mio lavoro
di scrittrice. La mia sensazione è piuttosto quella di aver "dimostrato"
troppo, in questo campo, specialmente con l'ultimo romanzo: una
favoletta fantapolitica che mette alla berlina un fenomeno che in Italia
si sta prendendo in considerazione da pochissimo tempo - il mobbing.
Che cosa trae ancora oggi, dopo quasi trent'anni che vive in Italia, dalle sue radici? E che cosa, invece, trae dall'essere italiana di fatto?
Delle mie radici, linguistiche e culturali, mi rimane l'attenzione
agli spazi interiori della coscienza. L'impulso a scavare. E una certa
luminosità del pensiero: uno slancio gioioso verso la vita e uno sguardo
giocondo e ironico. Una vera àncora di salvezza, che ricompare sempre,
per quanto le varie vicissitudini minaccino di reciderla.
Poi,
l'amore per i simboli, specie quelli archetipici. E per la natura,
intesa non come pura contemplazione estetica o come fuga dalla frenesia
quotidiana, ma come una specie di ponte tra il fuori e il dentro. E tra
il dentro e il trascendentale: quindi non un semplice "strumento"
introspettivo, ma anche, e soprattutto, il luogo - fisico e mentale -
che aiuta a collegarsi a dimensioni spirituali. La natura, per quanto
maltrattata o devastata, riesce ancora a comunicare qualcosa d'altro, ad
aprire le colleganze con quelle energie misteriose che la e ci
attraversano, a far riemergere il senso del sacro. Qualche volta penso
che sia l'unico vero tempio che ci sia rimasto. Il rito quotidiano di
un'alba o di un tramonto, ad esempio, è un altare grandioso - ma chi ci
pensa più? La seconda domanda mi lascia perplessa: non so che cosa
significhi essere "italiana di fatto". Al momento diffido dei "fatti":
se dovessi definirmi in base a questi, il mio "essere italiana"
suonerebbe come un rimbombante "j'accuse".
Amo moltissimo la lingua
italiana e chi la usa per esprimere - o comunicare - qualcosa che va
oltre la lingua e gli esercizi di stile.
Poi, attraverso il mio
"essere italiana in teoria" cerco di afferrare - sentito da sempre - il
senso della bellezza. Quella che può celarsi anche in un piccolo gesto,
una scelta, un sorriso, una luce particolare, un attimo di armonia. E mi
sforzo di adottare una certa lievità - leggerezza calviniana da
affiancare a quell'ironia e giocondità - per padroneggiare la
complessità e l'angoscia del vivere, la sua tragicità.
Uscendo dal
panorama politico e dalle sue faziosità, e ignorando anche le
premeditazioni polemiche di taluni contesti intellettuali, l'Italia
sarebbe (il condizionale diventa d'obbligo) un paese stupendo. In quanto
ibrido, da secoli e secoli, pieno di curiosità e di contaminazioni,
intese nel senso più fecondo. E strapieno di bellezze. Solo che da un
bel po' di tempo soffre di amnesie, recentemente sfociate nelle
omologazioni. Omologazioni paradossali, molteplici, costruite a nido
d'ape, con tanto di pareti e chiusure stagne. Il proverbio "l'erba del
vicino è più verde della mia" si è trasformato in "il mio miele è più
dolce di quello del vicino". Due estremi per una sorta di
autoreferenzialità allargata, che vedo un po' ovunque. Lo sguardo
daltonico o il miele spalmato sugli occhi, e quasi più nessuno che
guardi il tramonto o l'alba - forse perché sarebbe difficile
appropriarsene.
Lei continua a sentire la musica della sua lingua? La aiuta? E sente anche una musica in italiano?
La risposta è sì, per tutte e tre le domande. La musica della lingua è la sua atmosfera, una specie di microcosmo con un suo preciso ecosistema fatto di rimandi, di colleganze, di evocazioni. Ed è anche il senso interno della parola: un richiamo che fa sì che ad una parola si affianchi un'altra parola che risponde al richiamo, fino a formare una frase che diventa QUELLA frase e non un'altra. Nella scrittura la musicalità costruisce il ritmo della pagina, ma non solo. Dietro al ritmo, alle sonorità, alle cadenze, alla stessa cifra narrativa, c'è un senso nascosto, una specie di rete su cui si appoggia il racconto. Rete intrecciata con i nervi dell'inconscio, probabilmente - fili sensibili ma robusti - e annodata con un misto di realtà e fantasia. E, come una rete da pesca, può essere costruita a maglie larghe o strette: è la musica della lingua a stabilire che tipo di pesce si offre al lettore. E' lei quella che amalgama il contenuto alla forma. Quindi, indubbiamente, è utile. Direi di più: indispensabile.
Ho letto in una sua intervista una citazione di Brodskij sugli scrittori in esilio e sull'umiltà... che cosa significa, per lei, essere una scrittrice umile?
Brodskij paragonava lo scrittore in esilio a un granello di sabbia
nel deserto, oppure al proverbiale ago perso nel pagliaio. E non credo
si riferisse tanto alla sensazione di insignificanza, al sentirsi
"piccoli" in riferimento al proprio spessore umano o artistico, quanto
piuttosto alla consapevolezza di essere null'altro che un minuscolo
frammento di un puzzle umano sconfinato. Non a caso parlava dell'esilio
come di una lezione di umiltà, intesa come la necessità di liberarsi
della propria "vanità da scribacchino" e di confrontarsi con i quesiti
esistenziali fondamentali, con l'umanità dentro e attorno a sé, prima
che con gli altri uomini di penna.
Io riconosco profondamente mie
queste riflessioni. Penso che crescere nello stesso contesto di sempre -
umanamente nonché artisticamente - è come stare all'interno di una
riserva indiana (inserita nel "continente" umano e letterario più vasto)
- in qualche modo si è, o ci si sente, protetti. Dalle abitudini
cognitive, dalle tradizioni, dalle appartenenze, dalle scie delle
poetiche e dei canoni estetici lasciati da chi c'era prima. Il
cambiamento del paese e della lingua azzera quel senso di protezione,
scaraventa fuori dalla riserva. Anche lo scrittore straniero ha le
tradizioni della sua terra nella testa e le poetiche nel cuore, ma
agiscono a distanza - di tempo e di spazio. Vicino, nel tempo e nello
spazio, c'è solo la vita, che reclama di essere vissuta. Ma non reclama
lui: ecco il dolente paradosso dell'esilio. Nella vita, come nella
scrittura, lo scrittore straniero è un frammento arrivato da un altro
puzzle - nel puzzle nuovo non è previsto uno spazio suo. E allora,
faticosamente, cerca degli interstizi in cui inserire i piedi e la
penna, i suoi percorsi esistenziali e il suo pensiero creativo, e non
per piantare nuove radici, bensì per tentare di allargare il puzzle.
Allargarlo fino a che non tocca quel puzzle distante da cui si è
staccato. Allargarlo scavando e cercando le ragioni essenziali del
nostro esistere, essenziali e comuni. E' davvero qualcosa di simile a un
gioco enigmatico, che richiede una grande pazienza e, appunto, una
grande umiltà. La vita e la scrittura si fanno sistema dei vasi
comunicanti, e ciò che scorre nel mezzo è puro mistero, davanti al quale
non ci si può che inchinare. Insomma, il talento, piccolo o grande che
sia, si inchina davanti alla vita e al suo mistero. Non ci sono
certezze, paletti, consolazioni, c'è solo quel mistero - imperscrutabile
- che è la vita, i destini umani, il nostro, quello degli altri. E si
cerca di dare forma a quel mistero raccontandolo. Ed è questa l'unica
ambizione che, secondo me, venga concessa ad uno scrittore.
E'
questo che io intendo per umiltà: la consapevolezza del fattore umano,
del suo peso, con le sue infinite sfumature, fragilità, desideri e
dolcezze, crudeltà e drammi, umano "liquido" che si riversa da un vaso
all'altro, da ciò che viviamo a ciò che esprimiamo, con le nostre
rappresentazioni della vita o con pura immaginazione, mentre l'unica
cosa solida - il "recipiente", i vasi comunicanti appunto - è,
paradossalmente, vetro trasparente, metafora dell'invisibile.
Poi
c'è l'umiltà nei confronti della lingua, che per uno scrittore straniero
non è solo uno strumento comunicativo o espressivo, ma anche la
conquista di una nuova dimensione, mentale e psicologica. Conquista
faticosissima; anche qui si può usare una metafora per così dire
acquatica: mentre lo scrittore che usa la madrelingua lo fa da
esploratore, slittando sulle onde del suo oceano/immaginario - giacché
tutto ciò che sta "sotto" a quelle onde lo ha già acquisito, vissuto, da
sempre - lo scrittore che adotta una lingua nuova deve per forza farsi
palombaro - calarsi nelle profondità antropologiche e storiche della
lingua, orientarsi tra anfratti tortuosi di mille barriere coralline,
ossia semantiche. E siccome la "bombola d'ossigeno" che si porta sulle
spalle è la sua cultura d'origine, quelle immersioni diventano
un'avventura affascinante ma anche rischiosissima, in termini di
identità, di possibili smarrimenti.