El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

dalle interviste

Tra le numerose interviste rilasciate da Jarmila Ockayová, segnaliamo quella rilasciata a Davide Bregola nel testo da lui curato e uscito nel 2002. Qui emerge l'aspetto del bilinguismo e della sua scelta di scrivere in italiano, ma anche il senso del suo essere scrittrice e del valore stesso della scrittura

Da "Davide Bregola, Da qui verso casa, edizioni interculturali 2002"

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Quali esigenze ti hanno mossa a scrivere in italiano e a non conservare la lingua delle origini?

E' semplice: per almeno undici mesi all'anno vivo in Italia. Scrivo in italiano per lo stesso motivo per cui non mi porto dalla Slovacchia bombole di ossigeno per respirare. Sono convinta che la lingua ci accompagni sempre, ci avvolga come un grembo comune, come l'aria: la introiettiamo nella quotidianità, la respiriamo nell'atmosfera, negli stati d'animo, nell'approccio con il mondo, nel rapporto con gli altri. E come l'ossigeno entra nei polmoni, la lingua entra negli anfratti affettivi, psicologici, metaforici. E' lo strumento di comunicazione ma anche. l'agente che costruisce o smonta la nostra pienezza esistenziale e quindi fa scoccare la scintilla creativa. Sì, io credo che nel decidere di scrivere in una lingua diversa da quella del paese in cui si vive, uno scrittore si autocondanni a una specie di isolamento interiore, rischia di restare ancorato a qualcosa che non ha, che non c'è. E fuori invece, rischia di essere un disadattato; come se decidesse di andare al Polo Nord in costume da bagno. Poi ovviamente la mia scrittura risente fortemente della mia formazione in Slovacchia, della lingua d'origine e di tutto il retaggio culturale che una lingua contiene. E credo che anche questo sia un'occasione: mescolare due culture, due immaginari, rivisitare la cultura di provenienza attraverso la cultura acquisita e viceversa, decodificare la nuova cultura con il codice di lettura acquisito nel paese d'origine. Mettere i due paesi uno di fronte all'altro, come due specchi che si riflettono l'un l'altro in una bella lezione di reciprocità. E noi sappiamo che in due specchi messi di fronte le immagini si fanno via via più piccole, come nel gioco di scatole cinesi, fino a diventare assolutamente essenziali. Ed è questa la meta principale della mia scrittura: andare in cerca di ciò che è essenziale, libero da ogni particolarismo, comune a tutti, profondamente umano.

A tuo avviso, come può influire la creolizzazione di una nazione come l'Italia sulla scrittura creativa?

Io sono profondamente convinta che le radici etniche siano importantissime: forgiano il nostro senso di appartenenza, la coscienza della nostra identità, il nostro primo alfabeto dei valori, dei. sogni, delle emozioni. Ma non siamo alberi, per cui le nostre radici hanno davvero un senso, soltanto se sappiamo protenderle verso gli altri.
Accetto il prossimo non perché è uguale a me, o lo tollero non perché mi aspetto che possa diventare uguale a me; lo accetto o lo tollero semplicemente come Altro da me perché tutti, a cominciare da un fratello o un amico, sono Altri da me e mi lega a loro non l'uguaglianza ma le ragioni profonde della vita, la nostra comune umanità.

Armando Gnisci, nel suo saggio "il dominio del disumano" ripreso in Una storia diversa (Meltemi), sostiene: dopo essersi sollazzati nei decenni finali del XX secolo con trastulli accademici come il 'pensiero debole', il 'postmodernismo', il 'decostruzionismo' e simili, oggi non hanno più nulla da dire. Al massimo 'rosicano' - o, all'opposto, inneggiano - perché il Papa romano raduna due milioni di giovani per il ferragosto giubilare...". Questa sua idea, che tra l'altro potrebbe essere condivisibile e che sento vicina al tuo approccio alla cultura, come può essere superata nella realtà dagli scrittori e dall'arte occidentali?

Secondo me, gli intellettuali occidentali da un paio di decenni stanno consumando un grande peccato, laico ma mortale: il peccato dell'orgoglio. Dì quella forma particolarmente alta e pericolosa di orgoglio che è l'orgoglio dell'intelligenza. Il modello letterario potrebbe essere Faust di Goethe. La conoscenza accompagnata da un distruttivo o sterile razionalismo.
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Si potrebbero paragonare certi intellettuali a fiammiferi umidi: non riescono ad accendersi, a tirare fuori il loro fuoco interiore, perché continuano a bagnarsi con dissimulazioni o eccessive razionalizzazioni, sacrificando ciò che in noi è più autenticamente umano ai virtualismi dialettici o alla velocità del mondo.
Che fare allora? io non lo so; forse passare dal modello faustiano a quello amletiano, shakespeariano: aprire le porte al dubbio. Smontare un po' di certezze, quelle che Armando Gnisci chiama "trastulli accademici", rinunciare a qualche premeditazione polemica e far posto a qualche interrogativo nuovo, più essenziale, più attento alla realtà delle cose e alle storie umane, anche quelle lontane, o lontanissime. Ma questo io credo che diversi scrittori e artisti e anche diversi saggisti lo stiano già facendo e il compito della letteratura e dell'arte non è quello di fare dei proclami. Quando un libro tocca qualcosa di vero, quando un racconto risveglia qualcosa di latente ma tenuto bloccato dalla frenesia del quotidiano, quando la parola accende la scintilla di un pensiero nuovo o quando è portatrice di emozioni, è già una forza salvifica. A quel punto tocca al lettore decidere se e che uso farne, che libri comprare e come leggerli.
Concludo con una battuta: io credo che non esista il "pensiero debole"; esiste solo l'uso debole del pensiero.

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Da "Mattina Bologna" 30 aprile 1997 a cura di Simona Pari

Lei scrive in italiano, una lingua acquisita, come hanno fatto Nabokov e l'ultimo Kundera, Beckett. Se non sbaglio fu lui che disse che sfruttare una nuova lingua serve anche a modificare le strutture profonde dell'espressività.

Sono rimasta sospesa fra due lingue per anni, nel frattempo ho fatto delle traduzioni che mi hanno aiutato. C'è un rapporto troppo stretto tra la vita e una lingua che ci condanna all'isolamento. Per questo non si può scrivere servendosi di una lingua lontana, anche se si sente dentro. Brodskji diceva che l'esilio è una condizione metafisica, si è come sospesi.

Eppure Agata[ protagonista del romanzo "l'essenziale è invisibile agli occhi"] accetta questa doppia appartenenza che le serve anche a realizzare la diversità come punto di partenza per la comprensione

....Uno dei fili rossi che percorrono i miei due romanzi è cercare di colmare il divario tra pensare e sentire. Perché noi ci teniamo sempre a debita distanza dalle emozioni e viviamo di astrazioni. Non c'è coinvolgimento, ogni cosa viene omologata nella routine.

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Lei ha pubblicato giovanissima un libro di poesie nel suo paese. Ne scrive ancora?

La poesia mi sta stretta, ho bisogno di dire di più. Cosa le fa più paura? L'incomunicabilità, mi fa star male.

Da "L'Unità" 23 maggio 1997, a cura di Andrea Gueramandi

Cosa è la scrittura per lei?

Sono convinta che ognuno di noi sia in fuga. Come quell'eroe negletto inseguito dal mostro che per salvarsi butta qualcosa di sé e il mostro si ferma per farla a pezzi e perde tempo. L'eroe continua a scappare. E' una fuga angosciante. Ecco, scrivere è interrompere questa fuga. Per sentire.

I suoi parenti che sono rimasti in Slovacchia, come vivono il suo scrivere in un'altra lingua?

Con orgoglio. L'hanno percepito come una conquista. E con rammarico perché non sono riusciti a leggere i due romanzi.

Ha detto che la parola è importante anche come cura. Cosa vuol dire?

Intanto la parola è sostanza. Poi, la nostra complessità supera la possibilità dei dizionari. C'è sempre qualcosa di più dietro la parola. Credo alla parola taumaturgica che illumina le cose e riduce il potenziale distruttivo dell'angoscia.

Che differenza c'è fra la cultura italiana e quella slovacca?

Nel mio paese esiste una maggiore attenzione alle voci interiori e a quelle della natura. In Occidente, invece, dilaga la cultura del prendere e non del comprendere. Noi, parlo da occidentale, siamo quelli che creano recinti invece che spalancare le porte. Ma siamo tutti sempre viandanti. E la soluzione non dovrà più essere giuridica, ma etica.

Da "Tempi moderni" a cura di Memmo Giovannini, 1998

Non ha mai nostalgia per la sua terra?

Sono una grande nostalgica. Lasciare il paese natale é una specie di strappo biologico, doloroso, che lascia segni per sempre. Il luogo in cui siamo cresciuti ci dà il primo senso di appartenenza, la prima identità, il primo abìcì delle emozioni e dei valori, a cui possiamo reagire con l'identificazione o con la contestazione e il rifiuto, ma in ogni caso resta un punto di riferimento forte. Ma, come un bambino dopo la rottura del cordone ombelicale impara a vivere staccato dalla madre, pur continuando ad avere con lei un rapporto intenso, così, pur vivendo altrove, il paese d'origine può rimanere una sorgente di forza. Anche se è una forza spesso insidiosa. La lontananza si tinge di azzurro, diceva Leonardo da Vinci; e io credo che valga in particolar modo per la nostalgia. E' una grande trasformatrice: smonta e ricostruisce il passato, lo abbellisce, lo mitizza ne fa un Eden perduto. E il rischio è quello di restarvi intrappolati, alle spese del presente.

Nei suoi romanzi, a cominciare dai titoli dei primi due, c'è molta attenzione agli occhi, agli sguardi. Come si conquista uno sguardo libero?

Liberandosi dei cliché, degli stereotipi, dei luoghi comuni. Imparando a guardarsi dentro, preoccupandosi meno di quello che accade di noi, fuori, e di più di quello che accade in noi. Bisogna cambiare il modo di guardare per cambiare il mondo, diceva il fotografo Luigi Ghirri. Secondo me è un problema legato alla coscienza della propria identità.

Nel senso che [il romanzo] possiede una bellezza nella costruzione, nella scrittura, ma è anche terribile, per quel che dice e per come lo dice in ogni pagina. Da dove arriva l'idea per questa storia?

All'inizio volevo fare un omaggio alla Primavera di Praga, per il suo 30° anniversario, rimarcando le differenze tra il '68 occidentale e quello del mio paese: qui l'esplosione del lirismo rivoluzionario, là lo sforzo di abolire la ridondanza della politica, dopo vent'anni di ideologie al potere, in difesa appassionata dell'individuo, dei valori umanistici nell'Occidente messi alla berlina. Poi, scrivendolo, il romanzo si è trasformato in un affresco del periodo immediatamente successivo a quello della invasione russa, il periodo della normalizzazione...

Quanto è importante la cultura cattolica per leggere il libro in un'altra direzione?

Se si riferisce al fatto che l'Italia è un paese cattolico e la ex Cecoslovacchia un paese laico, credo che il problema di "un'altra direzione" non si ponga. Sono due paesi europei eredi del le stesse culture: quella greco-latina da un lato e dall'altro appunto quella giudaico-cristiana. I valori di fondo sono molto simili se non uguali; diversa è la loro "applicazione" alla vita quotidiana, in termini di tradizioni, costumi, abitudini cognitive. Ma anche da questo punto di vista negli ultimi anni si stanno riducendo le differenze e aumenta l'omologazione: là come qui imperversa la cultura del consumo e dell'immagine, là come qui si sta impoverendo la capacità di vivere legami profondi.

Da "WHERE", Emilia Romagna, anno I n 3 settembre 1999, a cura di Stefano Tassinari

Torniamo per un attimo al conflitto generazionale, dato che potrebbe essere visto come una metafora di quello tra ribellione e adeguamento.
Sì, so che tu lo leggi così, ma secondo me questo furore, è implacabile nell'inseguire la verità ed è alla ricerca disperata dell'amore. La madre, invece, pur essendo altrettanto smarrita non si ribella, almeno in apparenza, nel senso che ha capito l'inutilità, in quella condizione, di ogni tentativo di ribellarsi. La scelta di continuare a fare l'attrice non è legata ad ambizioni di carriera, ma rappresenta l'unico modo di darsi ancora agli altri. La madre, insomma, è alla ricerca di valori non più ideali ma concreti, e con il suo comportamento , a mio avviso, tenta semplicemente di difendere quelli universali, quelli, cioè, che contano sempre, al di là dei contesti storici. In fondo, un personaggio come il regista/padre Zef - tanto amato dalla ragazzina per via della sua fedeltà agli ideali - alla fine si dimostra più incoerente della madre, visto che, appena il potere gli toglie il ruolo, non ce la fa e decide di uccidersi, tradendo così non i valori ma gli affetti più cari. In sostanza, tutti vivono in modo contraddittorio, ma le due donne, sebbene in conflitto tra loro, sono figure positive, in quanto riescono a guardare le cose con il cuore, in linea con ciò che scriveva Pascal: il cuore conosce ragioni che la ragione ignora-".

Veniamo a un ultimo aspetto del tuo lavoro, anche se non per importanza. Mi riferisco alla tua particolare attenzione nei confronti della scrittura, elemento, questo, paradossalmente non scontato nelle opere di molti autori contemporanei.

Per me la scrittura è fondamentale. Io la considero una specie di gioco del caleidoscopio, che mi consente di raccogliere pezzetti di realtà e di sogno per poi guardarli in controluce, in modo tale da vedere i loro cambiamenti ad ogni piccolo movimento, il che mostra quanto la trasformazione della realtà avvenga attraverso il nostro agire quotidiano e viceversa. Io sono alla ricerca di una scrittura senza falsi edonismi e senza visioni catastrofiche e apocalittiche, in grado, dunque, di non nascondere la drammaticità delle cose salvaguardando, nel contempo, la capacità di stupirsi e di trovare l'incanto. Scrivere, per me, è interrompere il rumore esistenziale per far ascoltare il ticchettio delle nostre anime."

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March 2004

 

 

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