El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

come la vita si fa arte attraverso l’ibridazione o la sarcastica difesa del cavalier marino

abdelmalek smari

Nichts ist glosse Name.
niente è solo un nome.
Alfred Kolleritsch

Fibra e corda

Dico
di quel che vedo
e ciò che vedo
come acqua scorre
nella mia poesia.
Da “Le radici della poesia” di Bijan Jalali (1927-2000).

Questo contributo fa parte di un mio sforzo nel riflettere sulla scrittura e lo scrittore. Riflessioni senza le quali uno scrittore non potrebbe a mio avviso considerarsi tale.
Non è quindi il fatto di trascendere la realtà cruda del nostro vissuto che fa di noi dei veri scrittori, bensì è il ritorno continuo, giustamente, al magma del nostro vissuto carnale e crudo, per attingerci la materia prima da elaborare e farne un’opera artistica.
Così la realtà da noi vissuta costituisce la matrice di tutte le nostre impressioni intellegibili e sensibilmente comunicabili ai nostri simili attraverso un dato linguaggio: scritturale o altro. Pensare che la parola finzione significhi la cancellazione totale dall’opera di ogni traccia autobiografica del suo autore è una mera finzione.
Chi ci crede dà genuinamente per scontata la presunta, l’irreale capacità umana, la cui esistenza è impossibile, d’inventare le cose e le idee ex nihilo, mentre in realtà l’autore fa leva sull’esistenza di illimitate possibilità di combinare le altrettante illimitate realtà e gli infiniti rapporti che esistono tra di loro. Come diceva Vico citando Aristotele: “Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu.”
Non è quindi il fatto di attribuirsi una natura sovraumana - paradossalmente non umana - che fa di noi un creatore, un vero deus ex machina.
Certo no, poiché non c’è un elemento fra tutti gli elementi costitutivi di qualsiasi nostra opera che non sia l’ombra di un altro elemento appartenente alla nostra vita, che non abbia cioè un suo “rappresentante fisiologico” in quel magma di viscere che sono il nostro vissuto.
Persino la mente più lontana da una bassezza del genere, quella che ha inventato gli alieni e che ogni giorno ne inventa a migliaia ancora fra mostri e modelli strani, non può sfuggire alla maledizione dell’antropomorfismo.
E solo i cechi o i bigotti ci cascano!
“Ma perché tutta questa polvere?”
Il problema che sollevo è un vero problema, primo perché esso esiste realmente. E due perché rischia di causare danni non indifferenti nella comunità degli artisti esordienti che hanno bisogno di rassicurazioni e di incoraggiamenti per liberare le loro energie e sconfiggere gli ostacoli della timidezza e dell’inibizione.
Dire di un’opera che è autobiografica è come dire che essa non è originale, irrilevante, da cestinare quindi.
Daniele Comberiati (autore di “Scrivere nella lingua dell’altro”) dà un’idea un po’ più chiara di quello a cui rimanda l’espressione “elementi autobiografici” applicata agli scrittori immigranti o migranti, parafrasandolo: un’opera autobiografica è un genere ibrido, a cavallo fra il reportage e la memoria.
Essa consiste nella maggior parte dei casi nel narrare le vicende dell’abbandono del paese di origine, dell’arrivo, dei problemi di integrazione e di razzismo.
Nell’inserire elementi autobiografici all’interno di una struttura narrativa che li nasconda e li amalgami con altri di “pura finzione”.
Le narrazioni appaiono però poco equilibrate per il fatto che gli elementi autobiografici rallentano il ritmo dell’azione o la partecipazione e l’interesse del lettore…
Come questi pregiudizi inibitori ce ne saranno ancora tanti, se non altro perché la casta degli artisti autentici, per eccellenza (che fanno i canoni, il buono e il cattivo tempo nell’Olimpo dell’arte, proprietà privata loro), tende sempre a porre limiti ai nuovi arrivati non raccomandati dalla stessa casta o da gruppi non meno potenti e prestigiosi.
Ma se una data opera soffre e “perde l’equilibrio” a causa degli elementi autobiografici, cosa diremmo degli autoritratti di un Rembrandt o di un Van Gog?
Giudicanti di questo tipo diranno: ma lì quello che conta non è il fatto che i due pittori avessero voluto parlare di sé, autobiograficamente, ma attraverso l’espressione, la tecnica, le pennellate, i colori, la luce e tante altre qualità degne di quei geni loro toccano ed afferrano con la mano l’essenza se non dell’essere in assoluto, almeno di essi medesimi…
Come potranno aggiungere varie razionalizzazioni…
Eppure sono autoritratti!
Oppure, per rimanere nel campo della letteratura, come qualificare l’opera di Hemingway “Les collines vertes de l’Afrique” dove l’autore descrive giorno per giorno i quaranta giorni della sua presenza in un paese africano e le minime vicende di quel soggiorno?
Un volgare e squilibrato scritto?
Una semplice testimonianza o descrizione di caccia?
Si può dire di Hemingway che non era capace di estetizzare la morte – è davvero possibile per un essere umano estetizzarla, sublimarla? – ma dire che un Hemingway (sensibilità vigorosa, mente accesa e grande capacità d’espressione) sarebbe stato incapace di trasformare qualche istante della propria vita reale (i suoi quaranta giorni di vita in Africa) in arte, è dire sciocchezze.
Non un romanzo comunque?
Eppure l’autore stesso - che non era un povero scrittore vu’cumprà, bensì un wasp e per giunta premio Nobel di letteratura! - afferma che quella sua opera è un romanzo con tutti i crismi del romanzo!
Scrive egli stesso, citato da Edward W. Said nella sua opera Nel segno dell’esilio: “La grande cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima, e porco cane, non troppo dopo.”
Anche qui i giudicanti potrebbero replicare: “Ma non diciamo sciocchezze: lui era Hemingway, mica un vu-cumprà !”
E avrebbero torto se ci facessero questo tipo d’insensate obiezioni; perché le lettere dei libri di Hemingway, per parafrasare Borges, non si sono rimescolate e trasformate in una notte!
E allora non è la presenza, comunque imprescindibile in ogni opera, degli elementi autobiografici che gambizza l’opera, ma è il modo dell’autore di relazionarsi con quegli elementi.
Quindi, in un lavoro di critica di una data opera, non bisogna scandalizzarsi per la presenza degli elementi autobiografici, ma considerare semmai la presenza o meno di tale o tale altro elemento, considerare come viene combinato, se è adatto alla struttura narrativa, all’argomento, al linguaggio e così via.
Ma pretendere di cancellarne ogni traccia è una mera follia, poiché significherebbe cancellare semplicemente l’opera stessa.
Certo la fibra non è la corda, ma questa è fatta di quella.

Il parco di via Livigno non è il parco di via Livigno

Come specchio
osservo
e l’immagine del mondo
ripeto
per il mondo.
(Bijan Jalali)

Se è vero che, come dice Edward Said “nessuno scrive per se stesso”, è altrettanto vero che nessuno lo può fare al suo posto, o dire in sua vece ciò che egli vorrebbe dire.
Perché la parola è caratterizzata da una materialità speciale e non può essere parola se le manca un messaggio sociale da comunicare agli interlocutori soprattutto essa non sarà mai parola se le manca la carica biografica di chi la idea o la esprime.
Scrivere è usare le parole ed è una necessità umana che consiste sostanzialmente nella tendenza dell’uomo a coprirsi/spogliarsi, procedere cioè alla Leonardo o alla Michelangelo.
Lo scopo fondamentale ne è la voglia di divertirsi nel senso pascaliano, di distrarsi dall’angoscia esistenziale e scioglierne le tensioni insopportabili, dare loro per lo meno un senso che le renda familiari o farsi una ragione della propria condizione.
Se scrivere vuol dire questo, la sostanza della scrittura rimane dipendente completamente dal vissuto dello scrivente. E senza quella carica biografica la scrittura non è possibile.
E anche quando una terza persona legge lo scritto di un altro, essa non fa’ che interpretare le parole dell’autore - che lui stesso non è, in fin dell’analisi, che un interprete del proprio ed originale vissuto.
Se ad esempio in uno scritto l’autore parla del giardino di via Livigno a Milano, il lettore romano o algerese (che non ha mai conosciuto quel giardino) si immagina certo un giardino, ma un giardino che rimanda all’immagine di uno spazio recinto, più meno grande, con aiuole verdi imbiancate da qualche margherita, con qualche albero, qualche punto d’acqua, delle panchine dove qualcuno legge un giornale o molesta il telefonino, magari un area giochi per bambini, un cane che cerca di afferrare al volo un bastone o una pallina…
Ma mai il lettore romano o algerese sarà capace di riconoscere il parco di via Livigno se esso gli viene mostrato fra un gruppo di parchi.
Non saranno capaci né l’uno né l’altro per il motivo che le parole che descrivono il parco - mentre attraversano i meandri della meccanica della comprensione e della percezione concettuale della realtà – devono avere un appiglio locale cioè personale, per poter avere un senso; devono essere quindi accettate non come creature ibride (cosa che sono per natura), ostili quindi e da cacciare, ma come parole familiari al senso e alla sensibilità del lettore.
Perciò il giardino di via Livigno in sé non sarà mai per il romano o l’algerese che uno schema generale che si applica a qualsiasi giardino.
Il loro giardino di via Livigno sarà un giardino creato dalla loro memoria a partire da elementi sparsi e completamente estranei alla vera realtà del parco milanese.
Sappiamo che la memoria, più che una ri-presentazione di qualcosa, è l’interpretazione di impressioni psichico-mentali costituite da reliquie e tracce superstiti di eventi e di immagini remote o recenti che, grazie ai meccanismi di refoulement, di spostamento e di condensazione identificati da Freud – e che esistono sicuramente tanti altri meccanismi psichico-fisico-mentali che l’uomo ha inventato – al fine di intendere ed assumere il mondo e le cose e le creature del mondo. In questo senso la memoria non solo è un mare agitato e indaffarato, ma anche essa è in costituzione perenne, senza sosta né pace, perché è in pascolo perenne e si alimenta di qualsiasi materia o im-materia purché sia trasformabile in segno mentalmente assimilabile. “Per Vico” scrive E. Said, op. cit. “il mondo degli uomini è come un testo e viceversa. Entrambi provengono dal corpo, in un atto di ispirata divinazione per cui oggetti inerti e tracce casuali diventano sistemi di segni; quando si perde l’immediatezza sensibile, si guadagna in potere intellettuale ed estetico: Giove, come il grande testo sacro, diviene optimus e maximus.”
Un po’ più in là, nella stessa opera, e dopo aver presentato Richard Blackmur come uno fra i rari veri critici, Edward Said ne presenta il compito di critico letterario e il suo modo di rapportarsi con l’opera e, en passant, quanto questa deve alla vita dell’autore:
“La critica ha ricevuto in dote dal modernismo la lotta per introdurre la materia dentro al linguaggio (…). E questo nonostante resti ovviamente compito del critico rifinire il lavoro, stabilendo cioè se la vita si sia fatta davvero arte [la sottolineatura è mia], quanto sia costato l’ingegno tecnico ed estetico, quanto di ciò che è rimasto fuori possa essere ricordato o perlomeno percepito, e in quale linguaggio poetico lo si possa restituire.”

Arredare un loft che si chiama tempo

“Eccoti a ‘scrivere’, e t’immagini inventare di toutes pièces, ma no: è ‘scrivere’ certo, ma non proprio!” - Assia Djebar, da « Nulle part dans la maison de mon père ».

Perché l’arte aborrisce la crudità del mondo?
Perché l’artista è condannato al sublimare?
Anzi perché ha eretto l’astrazione della realtà ad una dimensione fondamentale dell’arte?
Il primo motivo è che l’uomo, fattosi com’è, cioè proteso all’affrancarsi da ogni cosa e a volte solo per l’unico motivo di cambiare per cambiare, aborrisce a sua volta la ridondanza che, oltre a significare inerzia e quindi morte, gli fa perdere inutilmente tempo prezioso e tante energie che potrebbero servirgli meglio altrove per fare nuove esperienze di vita, nuove scoperte e nuove acquisizioni biologicamente e anche culturalmente significative.
Secondariamente l’uomo, per la sua costituzione biologica stessa, tende ad annoiarsi e nello stesso momento cerca di fare di tutto per cacciare via la noia dal suo essere, capace anche e pronto a rompere il bastone per poi cercare di risistemarlo ri-popolando così o, meglio, ri-arredando di nuovi spettacoli il tempo che inciampa e si svuota!
L’uomo non solo soffre la noia ma in più vede in essa una specie di non-accadimento degli eventi, di morte del tempo e quindi l’inutilità della propria vita stessa.
In terzo luogo egli non può accettare alcuna forma di oppressione e di repressione; è capace di scatenare disastri universali per rompere ogni catena anche se essa è fatta d’oro.
Scrivere, in questo caso, o fare arte sarebbe per l’uomo l’espressione civile di questa lotta spietata contro l’oppressione che tende a soffocarlo e a cancellarne ogni traccia del suo passaggio.
Il quarto motivo che induce a scrivere è che l’anonimato è considerato un antivalore, è una morte della libertà non uscire alla luce del giorno e dire la propria sul mondo e soprattutto su se stesso e di non derogare mai a nessuno il minimo diritto di parlare a nome suo.
Perché l’altro è quasi sempre ostile a noi (come diceva Andreotti, fine conoscitore della psicologia umana: A pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre.) e in più perché qualsiasi sia la sua genialità, egli non sarà mai capace di indovinare ciò che soggettivamente noi siamo o sentiamo o percepiamo.
Tutt’al più egli riesce a prendere la propria immagine per noi stessi, quella stessa immagine sua riflessa nello specchio che noi costituiamo per lui e che, per confusione o per prepotenza, pensa che siamo noi!
E lo pensa perché non sa o non vuol ammettere che c’è della schizofrenia in quel modo di pretendere: ciò che egli pensa che l’Altro sia non è che la proiezione di se stesso.
Quindi vedendo una parte di sé sul bordo del suo essere, cioè nel nostro territorio, pensa che l’altra parte siamo noi!
Del resto noi saremo sempre, per l’Altro, una specie di Ulisse e compagnia nelle viscere di un cavallo.
Narciso, cioè l’Altro, pensa che noi siamo proprio quel suo riflesso sul fondo scuro, insondato ed insondabile, in cui si mira.
O dio, ci vuole anche quest’altra illusione - forse la nostra stessa umanità non è una grande illusione? - per placare il nostro fallimento nel comprendere in un modo “effettivo” il nostro vis-à-vis, cioè l’Altro.
Quindi tutto ciò che veniamo a sapere sugli altri è sempre condizionato da ciò che noi stessi siamo e da come lo siamo; cioè è sempre l’ombra di noi stessi.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto come le nuvole si scompone e si ricompone in infiniti ed imprevedibili modi, dando luogo a strutture e forme inedite ed inaspettate.
E a questo punto potremmo mai proporre cose che non abbiamo? Sarebbe allora il suicidio della nostra espressione!
In “Pierre Ménard, auteur du Quichotte” Borges dice che “Il testo di Cervantes e quello di Ménard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco.”
Così ci spiega che “Cervantes scrive banalmente nello spagnolo del suo tempo, mentre Ménard si dà a una ricreazione linguistica analoga a quella dei romanzi storici del novecento, o citando due passaggi identici prima di mostrare come il contesto della loro scrittura li oppone in fatti l’un all’altro totalmente”. – da Wikipédia.
André Gabastou - in Dossier del Magazine littéraire, giugno 2012 - non dice altro quando scrive di Borges che con quel breve racconto “pone il problema della ricezione dell’opera letteraria: il lettore legge il testo letterario a partire dal suo essere al mondo, dalla sua esperienza e dal suo tempo.” Come dire che all’autobiografismo non c’è scampo alcuno, per nessun essere umano. Anzi, persino il lettore non capisce di un’opera che ciò che ci avrà messo!
E tanto peggio per quelli che hanno cercato di sradicare la “finzione” dalla sua matrice, l’autobiografia, sfigurandola per poter parlare di una qualità sovrumana, divina, e attribuirsela poi e proclamare la propria divinità.
Un’altra condanna che ci costringe ad essere autobiografici per eccellenza è questa brama che abbiamo di mettere il nostro timbro personale/tribale per possedere un territorio e marcarlo come proprietà privata nostra.
Persino gli algerini, amanti pazzi delle macchine ma che non hanno avuto la fortuna di costruirle, sono ossessionati dalla brama di avere un loro marchio!
Infatti si racconta che un gruppo di ingegneri si erano consultati per fabbricare una macchina: l’inglese farà il vetro, l’americano il motore, l’italiano il salotto, il tedesco la carrozzeria, il francese la gomma, il giapponese il sistema elettronico… e il contributo dell’algerino?
L’algerino si presenta con una targhetta su cui è scritto Made in Algeria!
Anni fa’ un amico scrittore, ingenuo(?), più ossessionato di un ingegnere algerino, voleva ambientare un suo romanzo in un carcere ma non aveva trovato nessun modo per farlo bene se non – e lo pensava sul serio – quello di andare a rubare qualcosa, giusto il minimo perché gli si concedesse l’ingresso a questo strano paradiso proibito!
Questo amico manifestava così, spontaneamente, il suo bisogno d’essere onesto intellettualmente, poiché non voleva parlare di cose che non sapeva.
Un “discepolo” di Hemingway a sua insaputa!
Abbiamo un altro interesse – per non dire limite ontologico – ad essere autobiografici comunque, se vogliamo davvero essere originali e quindi creativi: infatti abbiamo un bisogno vitale di rivelare noi stessi e svelare i misteri della nostra esistenza, per confrontarla con quelle degli altri, se non altro per rassicurarci che siamo bene in vita, che meritiamo di vivere, che possiamo essere interessanti per la nostra comunità e anche utilizzabili…
Tenterò di rendere conto di questa specie di esibizionismo con quest’altra barzelletta: si racconta che la modella Schiffer si è trovata superstite di un naufragio su un’isola deserta con un muratore. Arrivati i tempi della rassegnazione all’intimità, si sono concessi l’uno all’altra e sono diventati amici, amanti.
Passato altro tempo, la modella percepisce una profonda tristezza nell’uomo, “sarà preoccupato” si dice lei “Lo sono anch’io!”
Ma un giorno ecco che l’uomo le chiede di cambiare il suo nome. Così Claudia si chiamerà d’ora in poi Giuseppe!
Un giorno, dopo un breve distacco, il muratore scorge Giuseppe da lontano e corre verso di lui. Dopo alcuni convenevoli gli dice: “Sai Giuseppe, amico mio, è da mesi che mi sto facendo la Schiffer!”
Senza pretendere di esaurire le condizioni e gli elementi che ci costringono ad essere creativi nella scrittura, ibridi quindi o viceversa, posso ancora citare la necessità che noi abbiamo di selezionare e scegliere gli elementi che sono atti ad esistere e quelli che possono aspettare o che non hanno il diritto all’esistenza.
Ibridare è infatti una dimensione fondamentale della nostra ominizzazione e non c’è una produzione biologica o culturale che non sia il frutto delle infinite combinazioni possibili ma inimmaginabili fra gli altrettanti infiniti elementi di cui è costituita la nostra condizione d’Esistenti.

L’incompletezza del lavoro

Per parte mia, rivedendo il manoscritto del mio romanzo L’occidendalista, per l’editore, come previsto dal contratto, ho dovuto modificare poche cose, ma qualcosa ho modificato comunque. Così è stato anche con la sua traduzione in francese: ho dovuto aggiungere alcune cose e sottrarne o riformularne altre.
Ovviamente la sua identità caratteristica e sui generis è rimasta intatta. Ma ciò mi ha dato da pensare che più lo rileggo, più sento il bisogno di intervenire e di ritoccarlo.
È normale: forse non vivo ogni giorno che passa altre nuove esperienze?
“L’opera” afferma Nicola Gardini - in Poesia 250 Anno XXIII giugno 2010 - “– qualunque opera – è parte della vita. Non solo accade nel tempo ma è tempo: è bio-grafia, vita e scrittura insieme (non do ovviamente qui al termine valenze contenutistiche).
Un’opera è la traccia più concreta e più evidente dell’inestricabile compenetrazione tra tempo vissuto e creazione poetica.
Scrivere è vivere, checché ne pensino i sempre più obsoleti assertori dell’indipendenza dell’arte.” L’opera procede e si alimenta della stessa vita dell’autore e, per tanti “felici” autori, della vita dei critici, dei discepoli o seguaci, del pubblico insomma e dell’interesse che l’opera suscita nei posteri. La finitezza è come ogni evento umano un’illusione, è solo relativa.
Ed è forse per questo motivo che l’autore continua la produzione di altre opere ancora, e non sembra preoccuparsi troppo della capacità o dell’interesse del pubblico di leggere o consumare questo prodotto speciale.
Le opere successive saranno allora una specie di ulteriori versioni del tema unico; ed è ovvio se si considera che la sensibilità dell’autore alle prese col mondo, coi suoi simili e coi loro vari segni è costantemente irrequieta e perciò in perpetuo cambiamento.
Annick Louis dice che “Secondo lui [Borges], l’autore stesso non è un’individualità autonoma e celata: egli - come l’opera – una costruzione instabile, sempre suscettibile d’essere ri-toccata o reinterpretata.” Dossier del Magazine littéraire – giugno 2012.
E anche quando l’autore non sarà più là per alimentare la sua opera, ci penseranno i posteri con le loro critiche ed interpretazioni. E ciò costituisce in fin dei conti un palliativo contro la morte, ingiusta se è prematura, dell’opera.
Con queste varie versioni l’autore sembra fornire al suo pubblico la stessa sostanza e la stessa pietanza non solo per risparmiargli la noia del déjà vu o di aggiornarlo e tenerlo informato dell’evoluzione dell’opera madre, ma anche e soprattutto per sfuggire lui stesso all’oblio, all’indifferenza o alla morte artistica tout court.
Questo è il motivo per cui l’autore ritorna sempre alla carica, riproponendo la sua opera sotto vesti nuove, e alla luce dei cambiamenti avvenuti nella sua vita, nel mondo e nei suoi rapporti col mondo. E penso che Sisifo non fa’ altro!
Con questo suo “accanimento” l’autore tende a dimostrare che egli esiste ancora e a rassicurare il pubblico che, col tempo, l’opera non getterà la spugna.
È forse questo che accade nel mondo del cinema o del teatro con le rassegne, i replay, i remake e le varie rivisitazioni delle opere del passato.
E forse è anche ciò che accade quando erigiamo monumenti ai nostri cari illustri predecessori o quando li ricordiamo nei loro anniversari di vita o di morte o di nascita delle loro opere.
“L’Autore di Cent’anni di solitudine” – dice il critico arabo Ibrahim Elariss - “si è comportato col il testo scritto su se stesso, come si è comportato con i suoi romanzi. Lui che non si stanca mai di dire, ogni volta che gli viene chiesto che non c’è una cosa o un evento in ogni suo romanzo, che non abbia una radice nella vita reale. Tutto ciò che egli fa consiste nel prendere questa radice e ri-elaborarla nuovamente. Pare che così abbia fatto nelle sue memorie Vivere per raccontare…”
La presenza dell’autobiografismo in un’opera è come la presenza del corpo. Per parafrasare la scrittrice libanese Oulouiah Sob’h, gli elementi autobiografici sono presenti in ogni narrazione – e, come dice Borges, la vita si vive per essere raccontata -: che noi ce ne accorgiamo o che li ignoriamo; che riconosciamo la loro esistenza o no. Come anche la loro assenza ce li indica o ci riconcilia con essi.
Si dice che Arthur Conan Doyle aveva perso il manoscritto del suo primo romanzo, e fu preso dal terrore al pensiero che qualcuno potesse trovarlo e pubblicarlo. Ma come ora si sa, il padre di Sherlock Holmes ha riscritto gran parte di quel libro a memoria: si tratta di The Narrative of John Smith.
Chi ha una certa familiarità con la vita dell’autore e del suo lavoro, può dire che “John Smith” non è altro che l’immaginazione di Conan Doyle, se stesso, come un uomo anziano!
Quest’opera è stata dunque doppiamente autobiografica: è una copia salvata, grazie alla memoria del suo autore, dall’originale dell’opera perduta.
Inutile dire che se, invece del vero autore, fosse stato un’altra persona a smarrire questo manoscritto – mettiamo, dopo averlo rubato o plagiato - questa falsa autrice non avrebbe mai avuto la possibilità di recuperare il materiale perduto. Perché giustamente l’impostore non avrà in quel caso le chiavi della matrice.
Ibrahim El Ariss – El Hayat 18 febbraio 2012 dice: “Ad esempio quando Sainte-Beuve tratta la personalità di «Madame de Sévigné» egli insiste […] sul suo lato letterario creativo, ma non tarda a connettere la sua letteratura alla sua personalità e dire quanto quello che lei scrive è in grado di esprimere lei stessa attraverso i personaggi femminili. […]
E così lo studio letterario si trasforma in ricerca psicologica sul rapporto tra lo scrittore e i suoi eroi. Questo fu nuovo, in quel tempo, e suscitò un dibattito appassionante, e anche un «sgomento» in alcuni scrittori che si erano scandalizzati per il fatto che qualcuno potesse dire che la loro letteratura era, in ultima analisi, una messa a nudo, non intenzionale.”

Conclusione

Blackmur citato da Edward Said, op cit. dice: “La vera occupazione della letteratura, come del resto dell’intero intelletto, critico o creativo, consiste nel ricordare a qualunque potere, per immediato o corrotto che sia, la turbolenza che deve controllare. C’è un disordine, vitale per l’individuo, che è fatale per la società.”
Infatti il problema di fondo è che la scrittura è in sé un vero e proprio potere. E siccome il potere è sempre conteso tra parti contrastanti e antagoniste e la turbolenza di una parte - individuo o minoranza - che è vitale per essa costituisce una minaccia per l’altra - gruppo o maggioranza -, allora tutti i pretesti o gli strumenti sono buoni per respingere gli intrusi, stigmatizzandoli al fine di neutralizzarli ed escluderli dalla sfera del potere.
La denominazione “letteratura della immigrazione” qui in Italia ne è il più palese esempio. È un sistema molto efficace di esclusione da un tale potere di scrittori veri e propri col pretesto fallace che nelle loro opere esistono elementi autobiografici, come se le opere di Dante o di Shakespeare ne mancassero!
Ma per questi puristi intolleranti lo scopo è avere un alibi che consenta loro di evitare il ridicolo, quando ricattano questi intrusi per dissuaderli dal pretendere quel tipo di potere - la scrittura - che dovrebbe essere proprietà privata solo di quelli che decidono loro.
Sì, si tratta di un ricatto vero e proprio poiché la casta – o questa categoria privilegiata che si pone e s’impone come guardiana del tempio dell’arte – li mette dinanzi ad una specie di aut aut scandaloso, insostenibile e paradossale, anzi letale per loro come scrittori: o rinunciate alla vostra vita, che è poi la matrice di tutte le creazioni possibili, e svuotate le vostre opere da ogni elemento biografico e vi consideriamo come scrittori, oppure mantenete pure i vostri stracci addosso ma non pretendete che vi accettiamo fra di noi, nel nostro olimpo.
Questi ricattatori sanno benissimo che se gli intrusi rispondono al loro diktat, sarà un segno della loro morte e il potere sarà salvo e rimarrà nelle mani della casta.
I ribelli, quanto a loro, saranno lo stesso penalizzati - poiché saranno condannati all’indifferenza e quindi spogliati di ogni forma di potere - ma intanto hanno mantenuto la loro autentica scrittura senza vendersi o appiattirsi.
In conclusione, tutti gli elementi e tutta la materia di cui si costituisce la nostra vita sono il nostro unico modo di investire il mondo e le sue creature di carne o di simboli.
Solo che ognuno ne fa ed è libero di farne ciò che vuole e ciò che può. Così più siamo autobiografici più siamo autentici e originali.
Non è a questo punto tanto la tecnica di narrazione che conta quanto il fatto stesso di narrare, come farlo e quali elementi usare e in quali dose e proporzioni, con quale lingua, per quale pubblico, di quale epoca…
La genialità di un “creatore”, nella sfera delle idee e delle sensibilità o estetica, consiste quindi in questo ritorno continuo tra le macerie che la vita grezza si accontenta di accumulare per cercare di cavarne o mettervi un po’ di senso estetizzandole.
“Chi” si chiede Edward Said “se non Dante, che era stato bandito da Firenze, avrebbe potuto usare l’eternità come luogo in cui regolare vecchi conti in sospeso?”
Da parte sua, il Cavalier Marino cerca di rassicurare “codesti ladroncelli che nel mare dove io pesco e dove io trafico essi non vengono a navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda, s’io stesso non la rivelo”. Questa è la sarcastica difesa del Cavalier Marino davanti all’accusa di “rubare” in zone della tradizione scarsamente frequentate.

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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