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la scoperta dell' alto lama

sushma joshi

Più invecchio, più sono stupefatto di quanto sia prestigiatore il tempo.
Osservate quanti giovani che abbiamo pensato avrebbero potuto diventare medici ed ingegneri. Sono diventati dei “fricchettoni” che suonano la chitarra a Thamel. Qualunque fricchettone ha desiderato diventar famoso in luoghi inesplorati. Un ragazzo, che era l'ultimo della classe durante gli anni della scuola, ha vinto una borsa di studio per design di moda a New York. Un altro ragazzo, che era lo studente migliore del nostro gruppo, si è demoralizzato talmente tanto dopo il rifiuto di Harvard alla sua domanda di ammissione, che ha passato i dieci anni successivi solo a bere al Bamboo café, parlando tristemente dei suoi progetti di diventare un ingegnere chimico.
Ma la storia più sorprendente di tutte fu quella di Bigyan. L'avete mai incontrato? Era un membro del gruppo Dead Rose Tigerbalm all'Insight Bar. Si, proprio lui – il chitarrista. Aveva quei capelli riccioluti sempre lucidati con il gel e quegli occhiali da sole orribili. Indossava quella giacca di pelle importata dal Pakistan con una toppa gigante sulla schiena dello Yin e lo Yang.
“Perché proprio lo Ying e lo Yang, Bigyan?” chiesi, dandogli una pacca sulla spalla mentre era seduto su uno sgabello al Maya Bar. Stava bevendo il whiskey Mt. Everest. Ero appena rientrato a Kathmandu per le vacanze invernali. Una borsa di studio per studiare scienze ambientali mi aveva portato fino a Boston, dove avevo acquisito il gusto per la pizza e un debole per le ragazze “hippie” con i capelli lunghi e tendenze liberali. Adesso, a sedermi sullo sgabello accanto a Bigyan, mi sentivo molto più alla moda, elevato e distante rispetto a questo ambiente isolato, di quanto non avessi potuto immaginare.
Accennò un sorriso sghembo, strimpellò qualche accordo sulla chitarra e poi alzò lo sguardo. “Ho pensato che fosse figo”, disse, senza apparente ironia. Ero tentato di dargli una lezione sul significato dei due segni, sulle loro implicazioni di genere, sul modo il cui la spiritualità dell'Est è stata resa esotica, espropriata, commercializzata dall'Occidente per mandare avanti i suoi valori di profitto, capitalismo globalizzato e per distruggere il mondo con il suo rozzo materialismo. Però mi controllai. In ogni caso non avrebbe compreso il senso del mio discorso, pensai, mentre sollevavo una sedia. “Sembra che sei andato a fondo nel gioco della spiritualità, Bigyan. Cerchi di trovare dio assieme a tutti gli altri viaggiatori del mondo, eh?” Solo un idiota avrebbe potuto non comprendere la nota di sarcasmo nella mia voce, in ogni caso Bigyan non comprese.
Sorrise e rispose, “Yin e Yang è moda, Prakash. Come fare headbanging.” Questa affermazione, per farla breve, riassunse la sua comprensione della spiritualità.
Dopo i miei esami di maturità, feci domanda in alcuni istituti negli Stati Uniti. Dovetti aspettare circa un anno prima di scoprire se ero stato ammesso oppure no. Quell'anno fu il più straziante della mia vita. Passai quei dodici mesi con Bigyan e quattro altri ragazzi che adesso sono sparpagliati chi in Europa, chi in Australia. Ogni volta che incontravo Bigyan, delirava su qualche gruppo metal degli anni Ottanta, tipo i Cinderella. O su qualche gruppo rock ormai defunto degli anni Settanta tipo gli Uriah Heep. Il gruppo di Bigyan eseguiva la cover di Black Magic Woman di Santana ogni santa notte e alle volte persino due volte a notte. Se non era Santana era Bob Marley. No Woman, No Cry. La monotonia di tutto ciò mi spinse quasi alle lacrime.
Bigyan iniziò ad avere pietà della mia esistenza miserabile. “Vedo del potenziale in te, fratello,” mi disse. “Potresti diventare un grande secondo chitarrista per la nostra band. Vieni a suonare con noi. Nel caso le cose non dovessero funzionare con il college”. Intonò una melodia da Roadhouse Blues. “Hai sentito? Dai, fammi vedere che la sai rifare”. La mia versione insicura lo impressionò. Quella notte, mi portò ad incontrare una band – gli Spiders of Sex – che si vedevano per le prove nel salotto di casa sua. Parlavano con un gergo tutto loro. “Hey fratello, posso prendere il prestito il tuo wah-wah? Il tuo crybaby?” chiese un affascinante musicista con la coda di cavallo che indossava una maglietta con due occhi ricamati sopra. La stanza era pervasa da un forte odore di erba. Il batterista prese un pedale in mano e capii di cosa stavano parlando. I ragazzi mi dissero che chi ascoltava i Nirvana era figo, chi ascoltava i Pearl Jam ancora più figo, ma che chi ascoltava Jim Morrison batteva tutti gli altri in quanto a gusti musicali. Quando avevano già eseguito ormai tutte le cover, cantavano delle orribili canzoni pop nepalesi con uno stile vocale tipo Mariah Carey, con un fremito di eccitazione che metteva l'accento sulle pene dell'amore perduto. Questa era Kathmandu, io la conoscevo così.
Bigyan era mio amico dalla Prima elementare. Eravamo assieme al Collegio per Ragazzi di Budanilkantha. I suoi genitori l'avevano chiamato Bigyan – non in seguito alla scienza dell'Occidente, ma in riferimento alla conoscenza interiore dell'Est. Bigyan sfortunatamente non era dotato di quell'intelletto che il suo nome avrebbe voluto suggerire. Aveva un'ottima reputazione a scuola come il ragazzo più stupido del nostro gruppo. Gli ci vollero tre giorni per imparare la poesia di Mahendra Mala che noi altri invece imparammo in un'ora. Abitava nell'appartamento accanto al mio e teneva i vestiti e le mutande puzzolenti di sudore impilati sul letto.
“Prakash, penso che mi bocceranno di nuovo,” mi disse disperatamente.
“Non disperare, Lwang-ay,” gli dissi per consolarlo. “E poi non sei mica ritardato come il figlio del Signor Ganesh.” Il figlio del Signor Ganesh, non rispettoso dell'autorità paterna, fumava troppa erba. Riusciva a malapena a mettere assieme una frase compiuta durante le lezioni, o fuori. Bigyan leggeva la stessa poesia per ore e ore ma nonostante questo, non era in grado di ricordarla a memoria. Sarebbe sceso presto dal letto al mattino e avrebbe fatto degli esercizi veloci per stimolare la circolazione sanguigna, ma il cervello del povero ragazzo era così addormentato che ci volevano ore per memorizzare una linea.
Mero pyaro Okhaldhunga
Mero pyaro Okhaldhunga
Ripeteva ancora e ancora, e poi si batteva la testa coi pugni quando si sentiva maggiormente frustrato. “Prakash, aiutami” implorò. “Non riesco a ricordare niente”.
“Prova a ripeterlo cento volte,” dissi. Dissi qualcosa a caso, con quel tono di crudeltà che i ragazzi usano sovente tra di loro.
“E' quello che sto facendo. Ma non funziona.”
“Cosa mi darai in cambio?”
“Un piatto di stufato di patate,” rispose.
“Il tuo cervello è pieno di patate, tutto quello che devi fare è toglierne un po'.” Rideva docilmente di questi scherzi sulle patate fatti a sue spese. Doveva finire i suoi compiti a casa ed evitare qualsiasi rimprovero da parte degli insegnanti. Il modo migliore per farlo era quello di rassegnarsi a noi. Presi il suo libro e iniziai a leggere molto, molto lentamente, riga dopo riga – il mio tono alludeva ai suoi ritardi mentali. “Ripeti dopo di me,” dicevo sembrando ipnotizzato. Ci sarebbe voluto un po', ma alla fine avrebbe ricordato almeno una strofa. E così riuscì a passare gli esami SLC – anche grazie ad alcune note criptiche scarabocchiate dentro all'astuccio e a quel pezzo di carta ripiegato e nascosto dentro ai suoi calzini con su scritte tutte le formule algebriche e tutti i teoremi di geometria.
Bigyan non era bravo né in matematica né in scienze, tutti erano d'accordo. Eppure nascondeva un asso nella manica. Suo padre, che era Consigliere dello Sport ed era stato un noto atleta ai suoi tempi, insistette affinché imparasse il karate kyo-kushin da quando aveva cinque anni. Perché scelse proprio questo sport non ci è dato sapere. L'unica cosa che fu chiara in maniera lampante è che Bigyan, fin dal primo giorno, eccelleva in esso. Spaccare pezzi di lavagna in pezzettini con i palmi delle mani era per lui facile come sbucciare un'arancia. Questa abilità gli faceva guadagnare ammirazione incondizionata da parte dei suoi giovani compagni di classe. Diventò cintura nera a sedici anni. Questa fu la grazia che lo salvò. Questo gli diede l'opportunità di viaggiare. Così, quando la maggior parte dei suoi amici vinceva borse di studio e volava negli Stati Uniti o in Europa, lui fu invitato a partecipare ad un torneo in Mongolia.
Qui inizia questa pazza storia. Una bella mattina Bigyan ricevette una telefonata da parte del Consiglio dello Sport. Il suo vecchio allenatore Jagat Lama aveva una voce serissima quando gli chiese: “Puoi venire con noi?” Posso? Pensò Bigyan, guardando fuori dalla finestra l'albero pieno di spiegazzati fiori Asaray rosa. Il suo gruppo musicale era in lista per suonare al bar quella domenica. I suoi ragazzi sarebbero stati enormemente delusi se il loro chitarrista non si fosse presentato. Poi però pensò alla Mongolia – una parola piena di prospettive, chilometri di sabbia rossa e di pietra, uomini e donne dalle gote rossastre e dalla salute forte. Non ho mai viaggiato fuori da Kathmandu, ricordò a se stesso. Mingma era un ottimo chitarrista – aveva suonato improvvisando con il gruppo così spesso che avrebbe potuto prendere il suo posto facilmente in un'emergenza. E questa, pensò Bigyan, era un'emergenza. Devo andare in Mongolia. Mingma avrebbe avuto il suo grande momento musicale durante il viaggio di Bigyan.
“Posso venire,” disse finalmente. “Bene”, disse Jagat, schiarendosi la gola. Bigyan era il suo studente migliore. Jagat sapeva che il gruppo non avrebbe avuto alcuna possibilità di vincere senza di lui. Il click del telefono all'altro capo segnò la fine della conversazione e Bigyan restò a fissare la cornetta. Improvvisò una breve danza nella sua stanza. Mongolia! Non vedo l'ora di dirlo ai ragazzi!
All'aereoporto, la moglie dell'allenatore, assieme ai segretari del Consiglio dello Sport, si presentò con un cestino pieno di ghirlande di calendula.
“Non ho mai avuto così tanti fiori al collo prima d'ora,” sospirò Bigyan a Motu non appena sentì la pesantezza dei fiori posarsi sul suo collo e un leggero profumo arrivò alle sue narici. Motu era il nomignolo di Rajesh, un ragazzo secco, cintura nera, che Bigyan conosceva dall'infanzia. Rajesh era soprannominato “il ciccione” perché era terribilmente obeso a causa di tutti i gelati che i suoi genitori, proprietari di una gelateria, gli davano da mangiare da quando era bambino. Quattordici anni di karate avevano ridotto il suo corpo alla consistenza di una tavola dura, ma il nomignolo non l'aveva mai perso.
“Sto lasciando il paese per la prima volta,” disse Motu con gli occhi lucidi. Motu era commosso dall'eccitazione.
“Anche per me è così,” disse Bigyan.
“Alle volte succede che alcuni sportivi lascino il paese per una gara e non tornano più,” disse Motu, dando una gomitata a Bigyan e alzando la voce fino ad emettere un sospiro significativo.
“Bene, noi torneremo,” disse Bigyan con la voce abbastanza alta da poter essere sentito anche da altri.
Aveva appena lanciato un'occhiata al suo allenatore con un sopracciglio alzato, perché questi aveva ascoltato l'ultima parte della loro conversazione. Non voleva lasciare un dubbio di intenzionalità dietro alle proprie azioni, nel caso anche lui, proprio come tutti gli sportivi che l'avevano preceduto andando all'estero e poi scomparendo, avesse deciso di non ritornare.
Dopo un'ora di attesa salirono su per una scala in metallo traballante ed entrarono nella cabina dell'aeroplano. “Che aereo enorme!” esclamò meravigliato Motu.
“Ma c'è appena lo spazio per allungare le gambe”, disse Bigyan, cercando di spalmare la sua figura allampanata sul sedile. Un'assistente di volo carina arrivò con un piatto pieno di caramelle lucide e colorate. Assieme alle caramelle c'erano delle palline di ovatta. Bigyan prese una manciata di caramelle. La pallina di ovatta lo confuse. Ad ogni modo, prese un batufolo e se lo mise repentinamente in tasca.
Quando arrivarono ad Ulan Batar, Bigyan e i suoi compagni di squadra furono raccolti in una grande macchina e portati direttamente in hotel. La stanza d'albergo aveva letti doppi e lenzuola bianche e pulite. Due grandi asciugamani erano appesi in bagno. Sul comodino c'era un cestino di bamboo con una saponetta in miniatura e una minuscola bottiglietta di shampoo. Dopo essersi meravigliati per queste novità, Bigyan e Motu, che dividevano la stanza, si addormentarono.
La mattina seguente, furono accompagnati in macchina all'edificio dove si stava tenendo il torneo. Il salone era grande con pavimenti di legno lucidato. “Sono così nervoso, Bigyan,” sospirò Motu. “Mi viene da vomitare. Non ti senti così anche tu?” “No,” disse Bigyan. Il salone, con il suo cumulo di tavolette e materassi di gomma espansa gli sembrò familiare. Infatti, non trovò alcuna differenza tra questa sala di allenamento e quella in cui era solito allenarsi a Kathmandu.
“Sei così scemo” disse Motu con un lampo di irritazione. “Eccoci qui, nel bel mezzo della Mongolia, circondati da squadre provenienti da tutto il mondo e stiamo per competere in un torneo mondiale e tu ti comporti come se stessi ancora facendo le capriole a Dashrat Rangashala”.
Bigyan lasciò che la voce dei suoi amici uscisse dalla sua consapevolezza. Motu è nervoso, pensò, mi farà perdere la concentrazione. Rompere una tavoletta a Ulan Batar non è diverso dal rompere una tavoletta a Kathmandu, dopo tutto. Quando il suo nome venne finalmente chiamato, Bigyan quasi non ne comprese le stridule e tremolanti sillabe e l'allenatore dovette fargli dei gesti. “Tocca a te!” disse, mostrandogli i pollici alzati. Camminò concentrando tutti i suoi pensieri sull'obiettivo che l'aspettava. “Vincerò una medaglia per il Nepal.” pensò, e come questo pensiero gli balenò per la mente, ebbe l'immagine chiarissima di sé che spiccava il volo facendo una capriola all'indietro come non aveva mai fatto prima. Notò i volti dei suoi compagni di squadra tra la folla. Vide se stesso muoversi avanti senza sforzo e realizzò a mezza strada che era già in aria. Il suo corpo si alzò in volo con una semplicità e un'assenza di sforzo sorprendenti.
“E' così stupido ad essere nervoso”, sospirò Motu all'allenatore, con un lampo di gelosia.
“Shh!” disse l'allenatore, le sue mani stringevano la tavoletta di fronte a lui in una morsa di ferro.
Il palmo di Bigyan tagliò in due verticalmente una catasta di tavolette di legno. Le sue mani passarono attraverso di loro e le disintegrarono come se fossero fatte di morbido cartone. Alla fine del suo turno la folla gli dedicò un fragoroso applauso. Bigyan riemerse dal suo trance. Camminò verso l'allenatore e disse tranquillamente “Andava bene, Fratello?”
L'allenatore gli diede un pugno nello stomaco. Con un sorriso mal celato disse: “Penso di si, Bigyan”.
Bigyan vinse la medaglia d'argento. “Fratello, fratello,” esclamò la squadra mentre lo circondava. Motu lo colpì per gioco. Bigyan con una reazione fulminea fece lo stesso. Assieme alla medaglia d'argento, Bigyan ricevette un premio inaspettato – del denaro. Bigyan guardò le larghe e colorate banconote nella sua mano e non riusciva a credere alla propria fortuna. Per la prima volta nella sua vita, aveva fatto qualcosa di valore che nessuno dei suoi amici avrebbe potuto svalutare. “Tu, idiota fortunato!” disse Motu dandogli un forte abbraccio. “Cosa farai con tutti questi soldi? Devi portarci a festeggiare!”
Bigyan guardò le banconote colorate e prese una decisione. Aveva da sempre voluto viaggiare per il mondo. Avrebbe avuto storie da raccontare ai suoi compagni di classe la prossima volta che li avrebbe visti, e fotografie che avrebbero provato le sue conquiste. Con un po' di denaro in tasca, questo era il momento migliore. “Faròuna festa,” disse. “E poi viaggerò”.
“Vorrei viaggiare un po' prima di tornare a casa, Fratello,” disse Bigyan all'allenatore la mattina seguente. Avevano tutti un gran mal di testa per via della generosa quantità di alcool locale che avevano bevuto la notte prima. Un thè forte aiutò solo un po'. L'allenatore, che aveva il senso dell'avventura dentro sé annuì dopo solo un minimo istante di esitazione. “Sei abbastanza grande per viaggiare da solo. Non posso fermarti, ma non perderti”, aggiunse con un sorriso. “Tua madre ti ha affidato a me.”
“Un minuto,” disse l'allenatore, frugando nella sua borsa. Premette qualcosa di freddo e metallico nella mano di Bigyan. “E tieni questa medaglia con te.” Il disco d'argento penzolò attaccato al suo nastro quando Bigyan lo strinse. Penzolò dolcemente avanti e indietro, una reliquia dell'unico momento della sua vita in cui era stato eccelso e aveva fatto qualcosa per se stesso e per il proprio paese di cui le altre persone potevano andare fiere. I miei amici avranno tutti frequentato le scuole d'America, pensò, ma scommetto che non hanno mai vinto una medaglia d'argento per il proprio paese.
Bigyan si sedette sul letto e preparò un itinerario che includeva tutti i punti fondamentali nazionali per il karate. I ragazzi della squadra della Mongolia gli avevano lasciato entusiasticamente i propri contatti telefonici e i propri indirizzi. Bigyan non parlava molto ma era un' ottima compagnia quando suonava la chitarra e cantava con la sua voce da heavy metal. Bigyan passò una bellissima e lunga settimana viaggiando per il paese, ospite a casa dei praticanti di karate in diverse regioni. Era rimasto piacevolmente sorpreso del fatto che le donne non avevano inibizioni come invece avevano le donne nepalesi, e passò un paio di notti benedette dormendo con donne i cui corpi erano forti almeno quanto il suo.
Una settimana dopo, mentre attraversava una strada deserta e polverosa, il camion che gli dava un passaggio rallentò improvvisamente. Bigyan guardò il conducente. Il conducente, vecchio e irascibile, scese e iniziò a confabulare tra sé e sé mentre ispezionava il copertone. La ruota davanti stava lentamente ma certamente perdendo aria. “Bene?” Chiese Bigyan. “Hai una ruota di scorta, vero?” Il vecchio lo guardò in cagnesco, andò nel retro del camion dove si accucciò. Prese un pacchetto di sigarette dalla tasca e iniziò a fumare. Bigyan capì dopo un quarto d'ora che il vecchio non si sarebbe mosso finché non fosse arrivato un altro veicolo che gli avesse prestato una ruota di scorta.
Si riparò gli occhi con la mano e scrutò l'orizzonte. Lontano lontano vide lo svolazzare colorato delle bandiere di un monastero. Potrei essere in grado di trovare un passaggio da li, pensò. Era stanco dei vani tentativi di comunicare con il vecchio, il quale manteneva un ostinato silenzio. Dopo avergli pagato la tariffa promessa, Bigyan si incamminò in direzione del monastero. Era più lontano di quanto sembrasse, e gli ci vollero almeno due ore per raggiungerlo. Prima che fosse arrivato abbastanza vicino da vederlo chiaramente si era fatta sera e il sole stava tramontando.
Un battaglione di monaci era schierato fuori dal monastero, tutti vestiti con tuniche arancione brillante. Tenevano in mano enormi tamburi e gong. Vide due monaci anziani con degli ornamenti d'argento in mano e con ventagli fatti di crine di cavallo bianco. Come si avvicinò un po' i monaci iniziarono a suonare e a percuotere i loro strumenti. “Cosa sta succedendo?” pensò Bigyan. Pensò di aver disturbato qualche cerimonia importante. Voleva andarsene e tornare in seguito al monastero a cerimonia finita, ma la sua sete e il suo bisogno di andare in bagno superarono il suo nervosismo. Si sentiva teso quando vide i monaci venirgli incontro. Mentre pensava se fermarsi o andare avanti, Bigyan si sentì spingere in avanti. Oltre ai monaci, non c'era nessuno in vista per miglia. “Spero che non mi abbiano scambiato per qualcun altro,” pensò.
Il capo monaco, un uomo anziano e venerabile con un ciuffo di capelli bianchi in testa, venne verso di lui e si inchinò molto in basso.
“Ti prego, accetta le nostre prostrazioni, insegnante pieno di grazia,” disse l'uomo con un inglese fluente ma dall'accento strano. Bigyan passò lo zaino da una spalla all'altra e si spinse gli occhiali da sole sulla testa. Sentire un anziano monaco che si rivolgeva in quei termini a lui lo mise molto a disagio. Aveva visitato qualche monastero a Kathmandu in passato e aveva visto che i monaci erano trattati con enorme rispetto. Vederne uno che si inchinava a lui lo fece sudare freddo.
“Non sono un insegnante”, disse con il suo inglese rotto, inchinandosi ancora più in basso.
Saremmo inclini a pensare che dopo vent'anni di scuola avrebbe parlato un inglese decente, ma no, non Bigyan. C'era qualcosa che non funzionava nel suo cervello, ne ero certo.
Il lama più anziano gli diede un'occhiata autoritaria e disse. “Il tuo arrivo era stato predetto. Ti stiamo aspettando dalla settimana scorsa.”
“Io sono un maestro di karate,” disse Bigyan impanicato, terrorizzato dal fatto che sarebbe stato fisicamente imprigionato dai monaci in questo luogo del pianeta in cui si ricerca Dio.
“Maestro, maestro,” disse il monaco, inchinandosi verso di lui. Era lui il nuovo monaco predetto, colui che sarebbe arrivato camminando nel deserto dopo aver viaggiato per miglia e miglia da una terra lontana. Un mormorio eccitato lo precedette. L'uomo anziano, con un grande sorriso stampato fermamente sul volto, lo prese da una spalla e lo spinse avanti nel flusso della cerimonia.
Lo spinsero dentro alle grandi porte di legno del monastero. All'interno c'era un enorme vestibolo con alti soffitti, e grosse colonne riccamente decorate di rosso e cerchi dorati, come la coda di un dragone. I muri erano pieni di personaggi mitici di tutte le forme e dimensioni – dragoni e bestie, Buddha e figure guardiane, tutti che volavano attraverso bellissime nuvole sfumate in azzurro e bianco. Bigyan si guardò di fronte e ansimò dallo spavento – davanti a lui c'era un enorme Buddha e dovette allungare il collo per vedergli la testa. Il Buddha era dipinto in giallo brillante e attorno alle sue braccia aveva avvolta una tunica color arancio con le pieghe talmente realistiche che sembrava vera. Il Buddha sorrideva come al solito in modo misterioso.
Bigyan fu accompagnato attraverso la predella al cospetto del Buddha. Prima che potesse protestare, l'avevano spinto a sedersi sul velluto rosso e avevano messo un numero di oggetti davanti a lui. C'erano libri, scatole ornate di pietre preziose, medaglioni di turchese, ruote di preghiera con dentro antichi rotoli, delle penne. “Scegli,” l'anziano monaco ordinò. Con un bisogno disperato di andare al bagno e di dare infine sollievo alla vescica dalla pressione che gli cresceva dentro, Bigyan scelse frettolosamente un libro, una bellissima scatola con gioielli incastonati, un medaglione, una ruota di preghiera con il manico e una penna con un tappo d'argento.
“E' lui!” la sbalorditiva proclamazione ruppe il silenzio e il suono delle trombe e dei gong che la seguirono fu così forte che Bigyan dovette mettersi nelle orecchie, con discrezione, il pezzetto di cotone idrofilo che aveva preso sull'aereo. L'anziano monaco gli disse: “Sei il nostro nuovo maestro incarnato. Ti stavamo cercando. Sei arrivato in tempo.”
Bigyan, che poteva a malapena sentire le parole del lama attraverso il cotone idrofilo, si chiese se fosse stato in grado andare via di soppiatto dai trecento monaci e mettersi in salvo in un angolino del giardino nel quale avrebbe potuto fare la pipì. Dopo questo, avrebbe potuto chiedere del cibo e cercare la strada per Ulan Batar. “Dimmi,” disse il monaco anziano, leggendo la sofferenza sul suo volto. “Cosa vorresti fare adesso?”
Finalmente! Pensò Bigyan. “Anziano maestro, ho bisogno di un bagno,” sospirò discretamente. L'anziano annuì e così camminarono rapidamente attraverso il vestibolo. Non si rese nemmeno conto di trovarsi nel bagno e giusto in tempo. Un rivolo di calda pipì uscì e un sospiro di sollievo uscì dalle sue labbra. Grazie a dio non sono stato costretto a fare pipì di fronte al Buddha! E poi finalmente si rese conto: Merda! Credo che mi abbiano appena ordinato come una sorta di leader di questo monastero.
Camminando fuori dal bagno, Bigyan notò che i suoi passi erano più leggeri e più autoritari. Okay, pensò, se pensano che sono il loro leader, starò al gioco. Dopo tutto, sono o non sono il vincitore di una medaglia d'argento per il mio paese?
Un'ondata di crampi di fame colse i muscoli del suo stomaco e, come uscì dal bagno, fu accompagnato nella sala principale. Non dovette aspettare molto. Una tazza di zuppa calda, un piatto di ravioli e degli spaghetti vennero messi di fronte a lui, ed egli mangiò con gusto. Si domandò, mentre masticava, se aveva davvero scelto gli oggetti appartenuti ad un monaco defunto, o se i monaci avessero deciso che lui era un perfetto esemplare di uomo proveniente da una nazione sconosciuta il quale non sapeva parlare la loro lingua e che quindi non avrebbe dato molti problemi, in quando loro nuovo leader appena consacrato. Se aveste visto quest'uomo, sareste sorpresi tanto quanto lo era lui stesso. Era il ragazzo più tonto della classe, credetemi.
Durante i tre giorni successivi, il monaco anziano performò molte cerimonie con grandi maschere colorate e danze circolari e con il suono di trombe lunghe dieci piedi. Si bruciava moltissimo incenso di pino e di cedro e si intonavano molti canti profondi. Bigyan era così frastornato da tutto ciò che si dimenticò di chiedere un telefono per poter chiamare i suoi genitori e dirgli che era stato scelto come nuovo alto abate di un monastero in Mongolia. Avrebbe scoperto solo in seguito che i suoi avevano sporto denuncia alla polizia di Kathmandu per la sua scomparsa in una terra straniera. Quando si rese conto che i monaci non avevano alcuna intenzione di lasciarlo andare, Bigyan si tolse gli occhiali da sole dal capo e permise loro di avvolgerlo nella tunica svolazzante. La sua medaglia d'argento era discretamente nascosta nella tasca di dietro dei suoi jeans, che ripose piegati sotto al cuscino, nel caso dovesse fuggire. Sentiva la dura forma tonda della medaglia d'argento premere sulla sua testa mentre dormiva, come a ricordargli chi egli fosse in realtà, un vincitore.
Non so quanto tempo Bigyan passò in Mongolia dopo la sua iniziazione. Avrà speso un paio di anni li, imparando la lingua, i testi, il vocabolario. In ogni caso, ciò che venimmo a sapere circa Bigyan era che viaggiava per il mondo nel circuito degli insegnanti per parlare di Buddhismo. L'improvvisa e sontuosa adulazione deve essere stata davvero una sorpresa per un uomo che era abituato ad essere dimesso per la sua inferiorità intellettuale.
“Questa via non è poi male dopo tutto,” assicurò ai ragazzi di Thamel che andarono a trovarlo quando arrivò finalmente a Kathmandu tre anni dopo la sua scomparsa. La sua visita fu accompagnata da molte fanfare – speciali passaggi a volta a Boudha (n.d.t. Boudhanath è uno dei siti Buddhisti più sacri del Nepal), tappeti rossi nei monasteri. I ragazzi, che erano andati a vedere se fosse stato possibile reclutarlo di nuovo per la Dead Rose Tigerbalm band – era stato uno dei migliori chitarristi che avessero mai avuto – tornarono delusi. Bigyan gli disse che una parte della sua vita era irrevocabilmente terminata. Passava ogni estate nel sud della Francia dove monaci francesi si mettevano in linea per ricevere le sue benedizioni e per ascoltare i suoi insegnamenti. Durante gli altri mesi, visitava gli Stati Uniti d'America, dove le persone guidavano migliaia di miglia attraverso il vasto continente per andare a ricevere i suoi insegnamenti. Gli veniva chiesto di dare il nome ai neonati, di benedire le coppie appena sposate e di iniziare i nuovi studenti alla tradizione. Le persone dall'Occidente lottavano per diventare suoi discepoli. Tre di loro avevano già scritto libri basati sulle sue lezioni. Poi, a Dicembre, venni a conoscenza del fatto che un gruppo di suoi seguaci stava costruendo un monastero a Boulder per far conoscere al mondo la sua filosofia. Bigyan, adesso conosciuto come Abate Venerabile, avrebbe tenuto le sue lezioni durante l'inverno.
Come può essere possibile tutto ciò? Ci chiedevamo stupefatti. Bigyan era il ragazzo meno intelligente del nostro gruppo – non oso utilizzare la parola “stupido” per paura di essere ridondante – ma devo dire che esistono poche altre parole in grado di descrivere il suo intelletto. Come poteva questo uomo dare lezioni su argomenti così profondi? Poteva a malapena ricordare una poesia di quattro strofe – come poteva dare ricercate lezioni su finissimi argomenti di filosofia, su ciò che è conosciuto e ciò che è sconosciuto, il percepito e il percipiente?
“Forse è diventato improvvisamente molto saggio e ha imparato tutto dopo essere stato riconosciuto come un monaco incarnato,” Mingma disse gentilmente. “Forse aveva tutti questi ricordi di una vita precedente ed essi gli sono tornati in mente dopo che è stato riconosciuto dai monaci.” Ma non importa quante spiegazioni e giustificazioni i miei amici cercassero di darmi, per me fu difficilissimo accettare che il mio compagno di classe Bigyan fosse diventato all'improvviso un istruito insegnante delle profonde verità dell'universo.
Una sera di Lunedì ero uscito dall'ufficio e stavo guidando in un'autostrada trafficata. Il traffico era terribile. Mi sentii improvvisamente irritato, avevo un senso di déjà vu e mi sentivo perduto in un tempo ed in un luogo dai quali era impossibile liberarmi. La mia casa di Palo Alto era ormai lontana e, come stavo seduto ad ascoltare le previsioni del tempo – un'improvvisa tempesta in arrivo dall'Est – sentii un'urgenza improvvisa di girare la direzione di marcia e di andare a Boulder, al monastero di Bigyan ad ascoltare le sue lezioni sull'antica saggezza. Volevo ascoltare ciò che aveva da dire. Volevo vedere con i miei occhi come si fosse trasformato dal pagliaccio della classe ad uno degli uomini saggi del pianeta. Pensai a mia moglie, che mi stava aspettando a casa, e a mia figlia, che aspettava che suo padre tornasse dopo poche ore. Non potevo, in tutta coscienza, prendere il volo per una destinazione sconosciuta, a maggior ragione per andare a testare con mano le eccentricità dei miei vecchi compagni di classe.
Al casello, il proprietario della macchina davanti alla mia discuteva con il casellante. Aspettai con un senso di impazienza che aumentava, come se il minuto di attesa per raggiungere lo sportello e consegnare i miei dollari fosse troppo lungo da far passare. Avevo un intenso bisogno di sapere se Bigyan aveva davvero avuto un'illuminazione interiore che gli aveva infuocato i neuroni e che l'aveva trasformato in un insegnante colto dei testi di una tradizione antica di duemila-cinquemila anni oppure se era sempre l'amico petulante che aveva sempre bisogno di qualcuno che leggesse per lui le strofe.
Presi il cellulare e composi il numero. “Darshana?” dissi. “Ascolta, devo andare a Boulder per un incontro importante.” Non ho potuto trattenermi. Avrei dovuto dirle il motivo vero e lei non mi avrebbe fermato, ma l'abitudine è una strana compagna. E io ero entrato nell'abitudine della menzogna. Ci fu silenzio. Mi chiesi se avesse riattaccato il telefono. Sentivo l'eco della mia voce. Era ancora li?
“Porterò Munni dal dottore domani,” disse. Sebbene non disse niente in merito, mi resi conto del suo disappunto. Munni avrebbe avuto un appuntamento dal dottore l'indomani ed io avevo promesso di accompagnarla. Ma mia moglie era così assuefatta ai miei cambiamenti di programma che non mi chiese nemmeno dove stavo andando. Doveva già aver capito che tutti i miei viaggi di lavoro non erano sempre per lavoro, e che spesso l'avevo lasciata sola a casa per andare a fare festa con i miei amici maschi. E occasionalmente, c'era stata una donna. Ma Darshana non mi aveva mai chiesto dove fossi stato, o cosa avessi fatto nel week end. Alle volte il suo silenzio mi faceva sentire in colpa. Altre volte, speravo che aprisse per cercare nella mia valigia, che frugasse nelle mie tasche per trovare macchie di rossetto o del residuo di profumo di donna perché ciò avrebbe portato finalmente la nostra stagnante relazione ad un nuovo livello. “Quando torni?”
“Domani pomeriggio,” dissi. Come riattaccò, fissai il telefono, lo misi nel cruscotto e corsi di filata all'aeroporto. Il volo dell'American Airlines per Denver era miracolosamente mezzo vuoto. Quando l'aereo atterrò, affittai un'auto e guidai fino a Boulder. Sembravo essere sotto l'effetto di una strana mania compulsiva e non mi sarei fermato finché non avessi trovato risposta alle mie domande.
Il monastero dove Bigyan stava tenendo gli insegnamenti era facilmente reperibile con una ricerca su internet. Mentre guidavo mi domandavo se il mio viaggio, intrapreso per uno strano presentimento, non sarebbe stato una vana impresa. Cosa sto facendo? Mi domandai questo, mentre guidavo verso l'uscita dell'autostrada. Era un lungo viaggio per soddisfare la mia curiosità. Erano almeno le otto di sera. Ero stanco per via della lunga giornata di incontri con un cliente. Il cliente, di un largo gruppo aziendale, aveva chiesto al mio boss di avere a che fare con me e solo con me. Chiacchierammo e ridemmo e dopo un paio d'ore gli avevo fatto firmare sulla linea tratteggiata. Dovrei essere al lavoro domani a ritirare il credito, non a Bouder in un viaggio in un vicolo cieco.
La stanza per la meditazione nella quale entrai frusciava di vesti color zafferano e malva. Era dipinta di rosso e di color oro, come nei monasteri del Nepal. Gli uomini e le donne avevano entrambi le teste rasate, e stavano sgranando i loro “mala” con vari segni di attenzione e devozione. Sgattaiolai nel corridoio affollato e trovai un angolino in cui sedermi. Finalmente, un forte gong risuonò. Bigyan, circondato da un grande entourage, camminava a passo svelto nella sala. Avanzava a grandi passi mentre la gente frusciava e si prostrava attorno a lui. Scoppiai quasi a ridere.
“Parliamo di pace,” Bigyan disse. Nascosi il mio sorriso dietro le mani giunte in preghiera. Mi sentivo rincuorato. Il microfono fischiò per un istante e poi la voce tornò ad un livello normale. “Se l'acqua è lasciata indisturbata, l'acqua rimane chiara e trasparente.” Fece un grosso sorriso, come se avesse appena affermato qualcosa di solenne. “Così è per le nostre menti. Per lasciare la mente indisturbata in uno stato di pace bisogna praticare il Buddhismo.”
Il bisbiglio si placò. Per un momento, la frenetica giornata di lavoro, il frenetico fermento dell'aeroporto, la corsa folle sull'autostrada – tutto ciò che aveva messo sotto pressione il mio corpo nelle ultime otto ore – sembrò cadere via come un fiocco di neve nelle nella vibrazione di quella voce calma. Sembrava fluttuare nella quieta e buia sala. Avevo dimenticato che voce gentile avesse.
“Ci sono molti ostacoli alla pace,” la voce continuò. “In passato, le persone avevano stili di vita semplici. Cibo semplice, vestiti semplici. Adesso c'è più invidia, c'è più competizione. Le nazioni del benessere e bambini che soffrono perché non c'è più un senso delle cose.”
Mi sentivo imbarazzato dalla semplicità delle sue idee. Stava diventando un discorso su quanto fosse pieno di significato l'Est e quanto ne fosse invece privo l'Ovest?
Fece un gran sorriso. “Le emozioni che ci disturbano derivano dalle cose che vediamo, dalle cose che sentiamo e dalle cose che gustiamo. Ma queste cose non hanno una realtà intrinseca. Nessuna realtà.”
Il silenzio risuonò nella sala. “Cosa intendiamo per pratica? La pratica è cambiare la mente in un modo positivo. In pratica, curiamo le nostre menti con un senso di chiarezza e luminosità.”
Se fossi stato a casa in questo momento starei guardando le news alla televisione. C'era qualcosa nella voce del mio compagno di classe che era infinitamente più rassicurante, più gradevole di qualsiasi annunciatore della CNN. Stavo li ad ascoltare i suoi discorsi sui diversi tipi di consapevolezza e improvvisamente capii che queste erano cose che avevo sempre saputo. Le spiegò con una freschezza che non può essere descritta. Mise la comprensione intuitiva in parole in modo così chiaro che potevo quasi vedere quello che diceva. La sensazione di bramosia tornò a farmi visita – l'avevo sempre attribuita alla mia natura instabile e impaziente.
Avevo, nello schema dell'Oriente e dell'Occidente, fatto delle cose abbastanza buone per me stesso. Mi ero laureato con una doppia laurea in scienze informatiche ed economia in un college della Ivy League (il preside di scienze dell'ambiente fu defenestrato dopo il mio primo anno), mi ero innamorato e avevo sposato una donna fantastica, avevo una bambina adorabile che frequentava una delle scuole migliori, avevo comprato una casa in uno dei quartieri più esclusivi di Palo Alto e guidavo una Jaguar. Mi ero sentito così pieno nella consapevolezza della mia stessa superiorità – intellettuale e materiale – al confronto del ragazzo che aveva successo nella classe. Ma avevo perso di vista qualcosa di cui non ero nemmeno consapevole, pensai. Tutti questi buchi neri di comprensione e la bramosia di qualcosa di mistico non erano stati colmati da uno spettacolare aumento di stipendio, o dal premio come impiegato dell'anno. Anche quella clamorosa esibizione dei miei quadri che assecondava la mia natura artistica e che era stata visitata dalle celebrità di New York City non era stata sufficiente. Anche le donne con le quali avevo dormito non avevano colmato minimamente la vastità del mio vuoto interiore.
"Compassione,” Bigyan disse. Poi tossì. La stanza era in attesa. “La compassione è qualcosa di...” Si fermò per trovare nella sua memoria una parola appropriata. “... intrinseco,” continuò, sorridendo per il suo vocabolario inadeguato - “a tutti gli esseri senzienti.” In quel preciso istante provai un sentimento netto di soggezione e vergogna, un repentino risveglio dei neuroni che invase il mio corpo. Compassione, quella parola troppo utilizzata, era qualcosa che non avrei mai compreso a meno che non fosse questa ondata di gentilezza che lavò via la mia stanchezza esistenziale, i miei sentimenti di inadeguatezza - i quali, non importa quanto duramente provassi - non sarebbe mai stato abbastanza, il sentimento che l'amore mi avrebbe sempre eluso anche quando mi trovavo nel bel mezzo di esso – e la tenerezza che provai per me stesso, per le mie credenze e assunzioni, per la mia stessa vita. Bigyan, finalmente centrato con il significato che il suo nome portava, aveva dissezionato la vita con la semplice scienza della conoscenza interiore. Ed io, seduto nell'angolo con il mio bagaglio, potevo solo aspettare che finisse di parlare per fargli qualche domanda.

traduzione di Ottavia Spisni

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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