El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

salmo

stefanie golisch

Sto nella meraviglia tua
come l’autunno sulla foglia
Mi nutri
mi svergogni
nel mio sangue sanguini
Ti danzo
ti strozzo
ti piango
Una carne sola siamo tu e io
La terra si commuove sotto i nostri passi pesanti

Inizio pagina

 

uccelli magri e uccelli grassi

stefanie golisch

Questo vecchio uomo è una istituzione, una leggenda vivente. Conosce la città come il corpo della sua donna, l’ha vissuta ed essa ha vissuto lui, ombre incluse e le ombre delle ombre. Sono stati amanti, amici, marito e moglie, si sono lasciati, persi, ritrovati, è stato un viaggio in alto mare, ma ora sono innanzitutto stanchi.
Soprattutto lui, forse soltanto lui, perché a differenza sua, la città non invecchia, ma si rigenera, giorno dopo giorno. Via un’amante o un testimone, ne arriva subito un altro, si cade in amore continuamente e presto ci si dimentica del passato. Ciò che finisce è soltanto questo rapporto, uno degli infiniti rapporti possibili. Unico, irripetibile soltanto per chi deve andarsene, per chi deve lasciare il posto al prossimo, a un futuro incerto di cui non farà più parte.
Ciò che si poteva dire, si è detto, ciò che si poteva sapere uno dell’altro si è saputo. Sembra che tutte le possibilità si siano esaurite.
Ora basta.
Non più una sola parola.
Eppure un giorno si risorgerà, forse insieme, nel nome dei vecchi ricordi, di cui sappiamo soltanto tu ed io. Sarà per quel minimo particolare che ricordo soltanto io, soltanto tu. E’ da un colore, un gusto, un gesto che tutto ricomincerà da capo, perché il tempo distrugge soltanto per creare e crea soltanto per distruggere e noi siamo dentro la sua centrifuga che ruota a tutta velocità.
Il senso di tutto ciò? Non ci si chiede quando si è dentro nel ventre della grande città che dondola egualmente gli sporchi e i puliti, gli ubriachi e i sobri, i vincitori e i falliti.

Infatti, non se lo chiede proprio, il vecchio, mentre sale molto lentamente i gradini di casa sua, un fatiscente condominio nel centro della città, uno dei pochi che mostra ancora i segni del passato nella pelle di cemento, denti che hanno morso, pallottole che hanno colpito e sfigurato la superficie noiosamente intatta della facciata.
Qui vive da più di cinquant’anni e da qui, tra non molto, partirà.
Tempo di tirare le somme? Tempo di lamentele, rimpianti, automistificazioni?
Ma no, più che del passato, egli desidera parlare dei suoi piani futuri! Si rifiuta di vivere, come altri uomini della sua età in quella sfera idealizzata che non è mai esistita e insiste sul suo diritto di possedere il presente e oltre l’oggi anche il domani e il dopo domani. Dice che nel suo sacco vi siano uccelli magri e uccelli grassi. Non si può dire che vadano proprio d’accordo, ma, per lo meno, si lasciano in pace. Sa che non è una grande novità quando dice che la vita è fatta proprio così: di cose riuscite e di cose malriuscite, di illusioni e bugie, ma anche di piaceri inconfessabili. Alla fine sta il cadere, è allora? E’ normale, poi ci si alza e si va avanti e poco più avanti si trova un cappello per strada, con una enorme piuma viola e con questo cappello, appena trovato, si conquista una donna, appena conosciuta, ci si ama per un interminabile pomeriggio e ci si lascia per tutta l’eternità.
Sono i fallimenti che ti spingono in avanti e che ti fanno conoscere le tue maschere, le tue smorfie, i tuoi sorrisi falsi e veri, i tuoi mille visi sotto la pelle.
Eccomi in tutti gli specchi della città. Sempre un altro, sempre io.
So di che cosa sto parlando, dice, lo so da quel giorno in cui sono caduto dal trapezio. Avevo 27 anni e mi sono rotto entrambe le gambe. Capii all’istante che questa era la fine della mia carriera. Non avrei avuto più bisogno di un nom de plume, dei costumi color oro, color argento, color nero luccicante, neppure del mio capello con la piuma viola.
Ero un uomo finito in un paese finito.
La mia fiaba era finita.
Bene, mi dicevo, è proprio da qui che si risorge. E me lo ripetevo in continuazione in quei lunghi mesi in cui ero costretto a letto. Mi feci portare un cane, il più grande possibile e lo addestrai affinché mi potesse tirare in quella specie di carro che mi faceva da sedia a rotelle. Ed ecco, ero di nuovo uno spettacolo con il mio grande capello, le mie labbra tinte, le mie gambe rotte, una graziosa frusta in mano.
Eccomi di nuovo per voi, mio amato pubblico!
Bellezza dell’essere ferito, oh come amo questa città svergognata, questa città di storpi e di puttane. Ma perché vi nascondete? Fatevi vedere, riconoscere, amare! Non abbiate paura, buttatevi via con gioia , perché, siate sicuri, ci sarà sempre chi vi raccoglierà. Quando starete, col viso riverso nella pozzanghera, ci sarà - non può essere diversamente - , chi vi aiuterä a rialzarvi. Fidatevi di me. So di cosa sto parlando.
Soltanto dodici mesi dopo mi sono alzato e ho camminato come se nulla fosse. Come se nulla fosse o quasi. Avrei avuto, d'ora in poi, bisogno di un bastone. Ne trovai uno sul quale si era appoggiato, all’epoca, il grande filosofo Hegel. Almeno così mi disse chi me l’aveva venduto. Era una bella storia e decisi di crederci. Fiero di appoggiarmi sullo stesso pomo di Hegel, attraversavo zoppicando la città distrutta alla ricerca di ispirazione, soldi, donne con il debole per i tristi destini. Trovai laddove nessuno avrebbe mai cercato oggetti preziosi che, aspettando pazientemente i clienti giusti, si potevano scambiare per beni altrettanto preziosi, qualche volta perfino per dei dollari. Cercai dei cani randagi per addestrarli. Vecchi cani guida per ciechi e cani giovani e forti per tirare i carri dei mutilati di guerra di cui la città traboccava.
Non era vero che la guerra aveva distrutto tutto.
Sotto le macerie si trovava non soltanto tutto ciò di cui si aveva bisogno
quotidianamente, ma tutto ciò che una donna dai raffinatissimi gusti poteva desiderare. Con sei cani abbastanza intelligenti e una disciplina ferrea, pian piano si costruisce una piramide vivente, i Flying dogs, e anche se la gente non ha nulla da mangiare, anche se si vive al freddo e al buio, senza un briciolo di speranza, giuro che ci sarà sempre chi è disposto a comprare un biglietto d’entrata per vedere una cosa senza alcun senso. Vennero i tempi in cui ebbi di nuovo bisogno di un nuovo nom di plume. Di nuovo ero qualcuno! Finalmente! Soltanto da me si poteva apprendere il trucco con i denti : girare sotto la cupola, appesi soltanto ai denti, volando quasi.
Aprii la mia scuola, La Funambolica nel novembre del 1951. Non mi curavo della politica, bastava che mi lasciassero lavorare in pace. Del resto, non mi ha mai chiesto nessuno di entrare nel partito. Avevo abbastanza da fare per organizzare il tutto, procurami delle belle stoffe per i costumi delle mie future acrobate e dei cani adatti per i miei numeri che, col tempo, si facevano sempre più raffinati: oramai li facevo volare veramente!
Chiamavo il mio primo programma Aujourd’hui à Monte Carlo. Non piacque questo nome alle autorità, ma al pubblico sì. Siccome mai nessuna sarebbe andato a Monte Carlo in vita sua, si veniva da me, giusto per dimenticare quel pesante vivere che ci teneva piccoli e brutti e che ci faceva diventare lo scherno del mondo intero. Ero bravo ad alimentare i sogni degli umiliati e degli offesi.
Ecco, i sogni del mio devoto pubblico sono i miei uccelli grassi, quelli che oggi pesano di più nel mio sacco, sono loro che fanno più fatica a capire che lo show è finito e che è ora di congedarci dal nostro affezionato pubblico; gli altri invece, quelli magri, tacciono tristi, facendosi sempre più piccoli, più magri, più maldestri. Non vogliono assolutamente essere ricordati, ma io mi ricordo comunque. Io vi ricordo tutti quanti.
Vi porto con me, ogni volta che salgo e scendo le scale, ricordandomi del mio pezzo più accattivante: i cinque cani che ridono.
Io raccontavo una barzelletta e loro ridevano. Un trionfo inaudito che ora mi pesa sulla gobba.
E’ bello ricordarsi, ma è altrettanto bello dimenticare.
Vorrei aprire il mio sacco e liberare i miei uccelli. Ma quelli grassi sono troppo grassi e quelli magri sono troppo magri. Preferiscono rimanere dove sono, dicono.
Oramai.
D’accordo dico, oramai.
La domanda è: è più facile congedarsi quando si è vissuto tanto o quando si è vissuto poco? Sono più felici i miei uccelli grassi o quelli magri?
In attesa di una cortese risposta Vi porgo i miei più confusi saluti.

Il giorno 22 maggio 2013 16:08

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links