El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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del vivere in ritardo

adrian n. bravi

Avevo un amico, un tipo sempre elegante che rideva poco, che un giorno, tra una chiacchiera e l’altra, mi aveva detto che io ero uno che nella vita non era mai riuscito a fare le cose nel momento giusto: “È come se tu vivessi con dieci o vent’anni di ritardo,” mi aveva detto. Lì per lì non avevo fatto caso a questa sua convinzione, ma poi, col passare del tempo, ho cominciato a pensarci seriamente che io ero uno che viveva davvero in ritardo, in un modo quasi anacronistico. Infatti le cose mi sono passate sempre davanti nella vita senza che io me ne rendessi conto, forse è una questione di riflessi, fatto sta che le ho realizzate dopo che sono accadute, pur essendo uno che agli appuntamenti arriva sempre in anticipo e ha il culto della puntualità. Ho realizzato in ritardo, per esempio, che in Argentina c’era stato un colpo di stato nel 1976 o che nel 1982 si era scatenata una guerra contro gli inglesi (infatti ho scritto un libro su questa vicenda dopo 26 ani, addolorandomi parecchio, come se fosse accaduto l’altro ieri). Ho realizzato in ritardo, dopo più di dieci anni che ero in Italia e continuavo a scrivere in spagnolo, che era meglio cambiare lingua (forse non avevo ancora capito che ormai avevo una casa e un lavoro qui in Italia e che mi ero radicato fuori dal mio paese) e che lo spagnolo, la mia lingua madre, non la parlavo se non sporadicamente. Ho realizzato in ritardo anche di essere un autore che aveva cambiato lingua quando, dopo la nascita di mio figlio, ho cominciato a scrivere in italiano. Un giorno, mi ricordo, mi aveva contattato Tahar Lamri, tramite l’editore Nottetempo, per invitarmi a presentare a Ravenna il secondo libro che avevo scritto in italiano. Ero contento, mi sembrava una bella cosa, e in effetti è stata una bella cosa (mi ricordo che insieme a me c’era anche il bandoneonista Daniele Di Bonaventura); a un certo punto dell’incontro Tahar ha detto, non mi ricordo il contesto, che io, in quanto argentino radicato in Italia, per di più essendo uno che ha abbandonato la propria lingua madre per adottare l’italiano, facevo parte della “letteratura della migrazione”. Finora, lo confesso, non avevo mai letto gli autori migranti e a dirla tutta, non sapevo neanche che ci fosse una “letteratura della migrazione”. Sapevo che c’erano stati degli autori che avevano cambiato lingua, avevo ben presente le autotraduzioni di Rodolfo Wilcock e i suoi testi scritti direttamente in italiano dopo i primi anni Sessanta, per esempio, o le autotraduzioni di Witold Gombrowicz, dal polacco allo spagnolo, per non parlare di Joyce, Beckett, Bianciotti, Manguel e via di seguito, persone che avevano scritto in diverse lingue. Tenevo presente anche il caso Cortázar che si era autoesiliato a Parigi a metà degli anni Cinquanta e non aveva mai cambiato lingua (continuava a scrivere nel suo stupendo argentino anche durante gli anni in cui non poteva tornare in Argentina perché i sui libri erano stati messi all’indice dalla dittatura). Era proprio questo che mi affascinava di Cortázar, la sua fedeltà alla lingua madre e il suo modo di rapportarsi a quella lingua così difficile da mantenere viva stando lontano in un altro paese con un’altra lingua. Insomma, Conrad, Nabokov avevano cambiato lingua eppure non avevo mai pensato che potevano considerarsi autori migranti (tra l’altro, mi sembra che non abbiano neanche riflettuto molto sul fatto del cambiare lingua, l’hanno fatto e basta, come una cosa naturale). E quando Tahar mi ha detto che oramai facevo parte di questa letteratura, la cosiddetta “letteratura della migrazione” o della “letteratura-mondo”, come preferisce chiamarla Rosanna Morace in un libro pubblicato di recente, sono rimasto un po’ interdetto, non sapevo se gioire oppure no, poi, più tardi, sempre in ritardo, ho realizzato che era una bella cosa far parte di un gruppo di stranieri che scrivono dirittamente in italiano e che cercano di aprire la lingua e la letteratura verso altri confini; perché, bisogna ammetterlo, chi cambia lingua si porta dietro uno sguardo, una concezione nuova del tempo, un ritmo e un colore diverso; non si tratta di introdurre nuove parole, ma di dare alle parole altri sguardi e altre possibilità. Chissà come sarebbe stato un libro come Lolita scritto in russo, da un autore che non fosse stato costretto a lasciare il proprio paese, o un libro come Cuore di tenebra scritto in polacco da un autore che non si fosse mai spostato da Berdicev, la sua città natale. Scrivere in un’altra lingua non significa solo adottare una nuova sintassi, ma reinterpretare il mondo e le storie alla luce di un’altra lingua, e dunque ridare alle storie un altro sguardo e alla scrittura, un altro ritmo rispetto alla prima lingua. Anche questo, come al solito, l’ho capito in ritardo. Ognuno ha il suo modo di rapportarsi a questo passaggio inflitto dal destino o dalla propria volontà. Lo si può vivere con dolore, com’era capitato ad Agota Kristof, che considerava il francese una lingua nemica, una lingua che aveva ucciso la sua lingua madre, l’ungherese; oppure accettando la sorte con ironia, come aveva fatto Brodskij, che parlava del cambiare lingua come di un’attività terapeutica: “scrivere in un’altra lingua è come fare i piatti: fa bene alla salute, è terapeutico”. Anche io sento che scrivere in un’altra lingua abbia qualcosa di terapeutico. Mi piace vedere le storie che appartengo a un contesto linguistico preciso raccontate alla luce di un’altra lingua. E dunque mi auspico che El-Ghibli continui a ospitare queste contaminazioni e che diventi sempre più uno spazio dove poter riflettere su questi e altri cambiamenti.

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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