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intervista ad alessandro micheletti

alessandro micheletti

Ho scritto con Saidou Moussa Ba La promessa di Hamadi nel 1990 e La memoria di A. nel 1993, e i due romanzi sono stati pubblicati rispettivamente nel 1991 e nel 1995, quindi posso ritenermi a buon diritto fra i padri fondatori della cosiddetta letteratura della migrazione. Negli anni successivi però me ne sono progressivamente allontanato (sta per uscire come e-book il mio ultimo romanzo che parla di bombe atomiche e di cannibali polinesiani), per cui su come si sia sviluppata nel tempo questa letteratura non sono in grado di dire molto, né tracciare un bilancio, né vedere che posto occupi nel mondo delle lettere, né men che meno indicare linee di tendenza. Quanto poi al mondo dell’editoria “classica” ne sono felicemente distante e immunizzato, e non mi chiedo più quali logiche persegua, se di puro mercato, di ricerca culturale, di entrambe o di che altro.
Quel poco che posso fare è limitarmi a una riflessione. Quando sono usciti La promessa di Hamadi, Io venditore di elefanti, Pantanella e Chiamatemi Alì, nessuno di noi mezzi-autori aveva intenzione di aprire un capitolo nuovo della letteratura italiana. Più modestamente, quei libri erano il frutto dei tempi: erano gli anni in cui gli immigrati avevano cominciato a fare notizia ma non ancora a fare paura, gli anni in cui gli “imprenditori di razzismo” non avevano ancora scoperto quanto fosse proficua da un punto di vista elettorale la paura dell’altro, gli anni della mobilitazione per la morte di Jerry Masso e dei dibattiti sulla legge Martelli, gli anni dei “razzismi possibili” anziché dei tristissimi “razzismi dichiarati” oggi al potere. In questa congiunzione astrale favorevole si è allora verificato in maniera abbastanza casuale l’incontro di tre soggetti:
- persone arrivate da poco nel nostro paese con una gran voglia di raccontare come ci erano arrivate, come erano state accolte, che cosa si aspettavano di trovarvi e così via;
- persone attente al fenomeno migratorio, professionalmente legate a vario titolo al settore dei media (giornalisti, collaboratori editoriali…);
- a queste due componenti, almeno nel caso personale, aggiungerei l’intervento di direttori editoriali abbastanza coraggiosi e forniti di “fiuto”.
E’ stato l’incontro di queste tre componenti che ha permesso di arrivare a quei primi romanzi. Certo nessuno di noi mezzi-autori poteva prevedere che quei nostri avventurosi esperimenti letterari, appena arrivati in libreria, cominciassero a suscitare curiosità: d’altra parte erano i tempi della trasmissione televisiva Nonsolonero e del Mosaico di Radio Popolare, i tempi dei primi mitici Festival del cinema africano e delle Feste dell’Unità in cui rubavamo pubblico a Beppe Grillo (e da noi la gente rideva di più).
Se proprio su quell’esordio devo azzardare un bilancio, ripeterei quello che disse Luigi Manconi a un convegno di Ravenna in cui fummo tutti invitati: che in una situazione in cui sul capo degli immigrati cominciavano ad addensarsi nuvole scure e minacciose, quei romanzi costituivano esempi positivi di incontro, buone pratiche - diremmo oggi - di quello che si sarebbe potuto realizzare lavorando assieme in un clima disteso. Così, per rispondere in modo diretto ad almeno una delle domande che mi vengono poste, sì, è proprio questa la funzione culturale che secondo me la letteratura degli autori migranti ha svolto in seguito nella società italiana, quella di fornire un esempio positivo di che cosa si intende con lo slogan “gli immigrati sono una risorsa, non un problema”, e l’ha svolta soprattutto nella misura in cui questi testi sono entrati nelle scuole. Per quanto riguarda i due romanzi di cui sono coautore, la scuola era fin dall’inizio la destinataria dichiarata della nostra impresa, ma negli anni successivi altri testi hanno imboccato quella strada: di Io venditore di elefanti è uscita una edizione scolastica, nella nuova edizione della Promessa di Hamadi ci è stata chiesta in appendice una carrellata sui testi degli autori migranti, ma la cosa più importante è che molte volte sono stati gli autori stessi a entrare nelle scuole a parlare con i ragazzi, e questa era secondo me la strada da seguire… se qualcuno non avesse preso decisioni diverse sulle sorti della scuola pubblica.
Se poi volete un bilancio ancora più soggettivo e diretto, posso ripetere - come ho detto tante altre volte - che quell’esperienza dello scrivere assieme è stata per me un momento di arricchimento preziosissimo e irripetibile sul piano personale, qualcosa che va ben al di là dei binari in cui si è incanalata negli anni seguenti la letteratura della migrazione.
Letteratura della migrazione: un termine di comodo, utile per circoscrivere in modo rapido e semplificato una produzione quanto mai differenziata e magmatica, ma a cui io ricorro con una certa riluttanza, per paura di cadere negli stereotipi. Forse i tempi sono maturi e si potrebbe provare a farne a meno, parlare di autori che scrivono in italiano per lettori che leggono in italiano, senza precisare di che paese sono gli uni e gli altri, da dove veniva il padre dell’uno o la madre dell’altro, la moglie dell’uno o il marito dell’altra, dove è vissuto da bambino l’uno, che scuole ha frequentato l’altro. Ma come sa chi mi conosce, io sono diffidente nei confronti delle etichette in generale, perché ho paura che finiscano per nascondere quello su cui vengono apposte. Dunque non meravigliatevi se non ho simpatia per espressioni come “scrittore migrante”, “scrittore della letteratura della migrazione”, “scrittore autoctono”, “scrittore immigrato di prima generazione”, “scrittore immigrato di seconda generazione” e non so che altro. E’ per la parola stessa “scrittore” che non ho simpatia. Esistono avvocati, esistono suore, esistono filatelici, ma non esistono scrittori, come non esistono poeti e non esistono pittori. Esistono persone che in un certo momento della loro esistenza, una volta nella vita o due volte o dieci volte nella vita hanno bisogno di raccontare una storia o di comunicare una impressione, o magari di fissare un’emozione scrivendo tre parole per riga, o magari di catturare una certa luce su un foglio di cartone, o magari l’una e l’altra cosa assieme. Queste persone, a seconda del bisogno che avvertono, attraverso tentativi successivi saranno capaci di trovare gli strumenti adatti, attraverso lo studio o magari ricorrendo all’aiuto di altre persone. E saranno sagge se, messo il messaggio in bottiglia e affidata la bottiglia alle onde, volteranno le spalle alla riva del mare e torneranno in paese pensando ad altro.

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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