El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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per i vent'anni della "letteratura della migrazione". riflessioni in ordine sparso

silvia camilotti

Vent'anni non sono molti per trarre le somme di un fenomeno letterario come quello della cosiddetta "letteratura della migrazione", in rapidissima e continua evoluzione. E obiettivo di questo breve scritto non sarà certo quello di tratteggiare delle conclusioni, bensì di offrire qualche riflessione, in ordine sparso, come appunto il titolo del presente contributo indica.
La letteratura aiuta a comprendere il mondo, apre la porta a universi sconosciuti rendendoceli familiari, diventa via privilegiata per l'incontro che invita inevitabilmente a ripensare se stessi guardandosi riflessi nelle parole altrui.
Credo che tale potenziale esploda nella "letteratura della migrazione", che continuo a definire in tali termini per praticità ma che oramai è una etichetta da superare, in quanto non sufficientemente indicativa di quel carattere mondiale che la migliore letteratura scritta in italiano da persone provenienti da altrove presenta.
Il carattere mondiale viene espresso in lingua italiana da persone che hanno vissuto quel taglio profondo che è la migrazione, che per loro è divenuta spunto creativo e per i nativi italiani occasione concreta per riflettersi nella parole altrui, per guardarsi e per guardare in modo più consapevole alle storie degli altri, quegli altri che ora fanno parte del noi.
Quale l'apporto di tali narrazioni alla cultura e alla società di questo paese?
Se all'inizio, nei primi anni Novanta, l'obiettivo di sensibilizzare su storie di migrazione per voce degli stessi protagonisti poteva forse apparire prioritario, in soli due decenni le istanze si sono moltiplicate: rimane certamente l'idea di offrire un'altra immagine degli immigrati, lontana dalle proiezioni devianti massmediatiche, ma vi è anche la voglia di raccontare storie di altri luoghi, spesso dimenticati o su cui i riflettori si accendono raramente. Penso ai Balcani di Elvira Mujcic, Božidar Stanišic e Anilda Ibrahimi, all'Oriente di Bijan Zarmandili, all'America Latina di Christiana de Caldas Brito e Milton Fernàndez, all'Etiopia di Gabriella Ghermandi, per citarne alcuni: opere che aprono delle finestre su luoghi e popoli di provenienza degli immigrati, mostrandoci cosa si sono lasciati alle spalle, quali ambienti, persone, lingue, sapori. Ci mostrano l'umanità degli immigrati, spesso non dipinti in tali termini dal discorso pubblico, poichè sembrano non avere né memoria, né cultura, né passato. Questi scrittori e queste scrittrici ci aiutano a ricostruirli e a guardare l'immigrazione con occhi diversi. E, ulteriore apporto fondamentale, tali esperienze di scrittura ci mostrano come i popoli si siano sempre mescolati, che le identità non siano declinabili solo al singolare, che nessuno è, come scrisse Said, "una cosa sola".
Pare importante sottolineare l'accentuazione di una visione plurale e mobile di identità, soprattutto di questi tempi in cui si fa un gran sbandierare di parole quali identità, tradizione e cultura, intese come dei blocchi di ghiaccio impermeabili ai cambiamenti della storia. Tali narrazioni e tali autori e autrici ci dimostrano che non è e non è mai stato così, ce lo ricordano con garbo e intelligenza.
Nelle migliori di queste narrazioni perdiamo quella prospettiva ombelicale e narcisistica che caratterizza molta letteratura italiana contemporanea e respiriamo aria nuova, osserviamo l'apertura a orizzonti, geografici e culturali, inediti, raccontati da un punto di vista antieurocentrico, anche se dall'interno dall'Europa e in una lingua europea.
E, a proposito di lingua: l'italiano è il denominatore comune di tutte queste voci, quella lingua franca a cui hanno scelto di ricorrere, senza però dimenticare le lingue madri. Sarebbe una privazione ingiusta e impoverente sia per chi scrive che per chi legge: l'italiano è preso molto sul serio da tali autori, nel senso che vi riflettono profondamente, non lo danno mai per scontato, cercano di fuggire a ogni sorta di banalizzazione. È un altro dono che viene fatto ai lettori italiani, quello di ritrovarsi in una lingua rinnovata, sviscerata con rispetto e attenzione.
È evidente che le potenzialità sino ad ora individuate sommariamente potranno sortire degli effetti solo se la diffusione di questi scritti conoscerà una spinta maggiore rispetto a quanto sia stato fino ad ora. E tal proposito occorre fare riferimento all'editoria: sono state (e sono tutt'ora) spesso piccole case editrici, con canali distribuitivi inevitabilmente deboli, a promuovere gli scritti di persone immigrate in Italia. In molti casi, dunque, è di fatto impossibile incappare in libreria in tali testi proprio per tale ostacolo strutturale. C'è da dire che tali autori, tra cui alcuni di quelli menzionati, sono stati anche pubblicati, in maniera continuativa, da importanti case editrici e dunque la loro visibilità è accresciuta. Anche i giornali vi hanno dedicato ultimamente attenzione e dunque quella barriera si sta lentamente incrinando, anche se è decisamente precoce "cantare vittoria". È interessante sottolineare che in tali casi non vi è stato l'inserimento in collane ad hoc, segnale positivo della considerazione che vanno acquisendo, paritaria rispetto alla produzione italiana nel senso stretto del termine. La tendenza a sottolineare l'elemento "esotico" rischia di rimanere, viste le ambientazioni, i riferimenti a un altrove ecc. Non credo tuttavia che rimarcare la differenza possa essere una strada da percorrere, sia da un punto di vista di analisi critica che di scelte di promozione editoriale. Accentuare l'alterità rischia infatti di accrescere le distanze tra il noi e il loro e non rientra nell'ottica dell'incontro e della reciproca inte(g)razione a cui tali testi invitano. È indubitabile che accentuare l'elemento di estraneità funziona in termini commerciali, ma è anche la soluzione più rapida e a lungo andare più banalizzante e controproducente. Valorizzare la possibilità di conoscenza scevra da luoghi comuni e la potenzialità di avvicinamento a popoli e storie che conosciamo poco o nulla è forse la strada che anche la promozione di tali narrative dovrebbe prendere.
Un ultimo elemento di innovazione presente in tale letteratura sta nello spazio che le donne si sono prese, sul cui significato mi sono soffermata altrove e che mi limito a riprendere brevemente: la loro presenza, circa la metà degli autori censiti, rappresenta una eccezione alla regola che ha caratterizzato per secoli la letteratura italiana (e non solo), non certo aperta a parola di donna. In questa nicchia della letteratura italiana, le donne immigrate hanno invece trovato spazio di espressione, dando voce a una categoria a rischio di silenzio quale è quella delle immigrate e dando un segnale forte alla letteratura mainstream, a lungo patrimonio maschile. Le ragioni di tale presenza si potrebbero attribuire (anche se tale ipotesi parrebbe un autogol) alla scarsa importanza e influenza che questa produzione riveste a livello di percezione generale e commerciale: sarebbe quindi priva di quelle barriere e ostacoli che si porrebbero nel momento in cui l'interesse aumenta e occorre rispondere alle esigenze del mercato. Ma in fondo non sono troppo importanti le ragioni, se ci attestiamo sul fatto che le donne scrivono, si prendono voce e raccontano anche per le altre che non hanno modo di farlo, dando ancora una volta una rappresentazione lontana dai cliché e dalle immagini inferiorizzanti che spesso caratterizzano tale categoria.
Queste poche righe per tracciare alcune idee, indicare delle direzioni e porsi altre domande, non certo per stilare bilanci, che sarebbe ad oggi troppo prematuro e troppo ambizioso.

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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