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la finestra della camera da letto

shola olowu-asante

Sade si posò sul bordo del letto, coccolando un bicchiere di vino ghiacciato e la sua insoddisfazione. Pensò di nuovo a quanto odiasse la vista dalla finestra della camera da letto. Dava sul retro del caseggiato, un’estensione di cemento che ospitava bidoni dell’immondizia e generatori. Se allungava abbastanza il collo a destra, riusciva a scorgere un angolo della piscina comunale, scintillante come un miraggio nell’aria satura di smog. Per qualche motivo la faceva sentire anche peggio. Come se stesse osservando la sua vita dai posti meno cari, e maledì dentro di sé il viscido agente immobiliare che sosteneva di aver trovato loro l’appartamento perfetto. Era un posto proprio carino – tre camere da letto, tutte con bagno incluso, una zona soggiorno e sala da pranzo separata. Femi non c’era quando lei firmò il contratto d’affitto. “Fa come ti senti”, fu il solo consiglio che ricevette per messaggio. Così buttò al vento la cauzione e pagò due anni di affitto anticipato per un appartamento che nessuno di loro aveva visto. Dopo un anno non riusciva a ricordare il motivo di tanta fretta.

Tornarono a casa, a Lagos, anche se nessuno di loro vi aveva più vissuto da quando erano bambini. Femi aveva ottenuto un nuovo lavoro – non proprio una promozione ma di sicuro uno con migliori prospettive – ma Sade aveva poco da fare. C’era scarsa richiesta per i suoi servizi fotografici e i clienti dei matrimoni erano interessati soltanto a una sfilza di foto segnaletiche dei presenti. Alla fine ripiegò sui ritratti di famiglia, che faceva di tanto in tanto in uno studio nelle vicinanze. Quando non lavorava, Sade sentiva la mancanza degli amici, delle passeggiate nel parco, del modo in cui gli sconosciuti facevano capannello alla fermata del bus, parlando del tempo.

“Ti mancano mai le stagioni?”

“Macché. Per niente. Sono figlio del sole. Perché, è troppo caldo per te?”

“E’ solo che è così umido. Sono sicura che quest’afa non c’è mai stata.”

“Ajebotai! E poi ero io quello che si credeva fosse stato via per troppo tempo. Prendi un altro condizionatore se ti dà così tanto fastidio”

Sade voleva dire qualcosa di arguto a proposito della generosità del libretto degli assegni, ma non le venne in mente niente.

Inevitabilmente comparvero altre crepe. Le piastrelle del bagno irregolari, le fognature ostruite, il soffitto della cucina che pendeva – tutte cose di cui lei si occupò stoicamente. Fosse stata la figlia di una prima moglie, pensava, forse le cose sarebbero potute andare diversamente. Femi avrebbe potuto avere un lavoro con un orario migliore, assistenza gratuita. Ma in quanto figlia unica di una terza moglie – oltre tutto venuta a mancare – aveva imparato che ciò che si ottiene va guadagnato. Perciò accettò le magagne come il prezzo da pagare per diventare la padrona di casa sua.
Non doveva più camminare in punta di piedi intorno alla sua matrigna o far finta di ignorare le lamentele stridule della donna. Adesso era lei a decidere dove andava il divano, quali quadri appendere alla parete, quanta birra tenere in frigo. Sarebbe stato esaltante ma Femi era sempre via per lavoro e così i suoi trionfi passavano inosservati. A eccezione di Blessing, la domestica, ma lei non aveva mai molto da dire.

La finestra della camera da letto dava anche sugli alloggi dei dipendenti: un parallelepipedo, simile a una costruzione Lego ma meno colorato, dove vivevano le domestiche, le tate e i camerieri di ciascun appartamento. All’inizio Sade teneva la finestra chiusa di sera, una difesa dal caldo soffocante e dalle zanzare. Ultimamente aveva cominciato a lasciarla aperta. Appena un pezzetto ma grande abbastanza per cogliere frammenti di conversazione che fluttuavano verso l’alto come fumo. Con un bicchiere di vino in mano spegneva luci e condizionatore, si sdraiava sul letto e ascoltava. Sentiva i grilli cantare, lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia, il rumore attutito dei clacson e del traffico intasato al di là dei cancelli del caseggiato. A volte, con un po’ di concentrazione, come se si sintonizzasse su una stazione della radio a onde lunghe, distingueva le voci di sotto, e le loro storie e risate sembravano riempire gli spazi vuoti della sua vita. Sentiva parlare di bambini malati e di parenti dissoluti, di torride relazioni e di riunioni di famiglia. Non sempre sapeva a chi facevano riferimento ma le piaceva intrecciare le diverse fila. Trascorse molti giorni e notti a prendere nota dei fatti, a mettere insieme le vite altrui.

Femi era via quando dalla finestra sentì la voce di Blessing. All’inizio non ne era certa perché la ragazza parlava appena e rispondeva alle domande solo a monosillabi. Sade aveva appena parlato al telefono con la matrigna e si sentiva indifesa e ammaccata, con le dita che tracciavano dei cerchi intorno alle tempie. Le ci volle un po’ prima di associare i toni acuti come cinguettii alla sua indolente domestica.

“Kai. Non è mica facile per nulla ‘sta vita, sai?”

“Che problemi c’hai?” chiese una voce femminile.

“I soldi, sai. Il problema sono sempre i soldi,” replicò Blessing. “Devo tornarci presto al villaggio. Il bimbo di mia sorella non sta bene per nulla e lei non ha mica i soldi per il dottore.”

“Che c’ha il bambino?

“Non lo so mica, ma mia sorella piange un sacco al telefono.”

“Che dice la signora? Gli va bene?”

“Che ci posso fare io? La devo aiutare la mia famiglia.”

Allarmata, Sade spalancò la finestra ma non sentì nient’altro della conversazione. Le parve che le scoppiasse la testa. Pensò alle sue giornate avvolte in un silenzio asfissiante e decise che non avrebbe perso la sua unica compagnia. Il giorno seguente cercò di escogitare il modo migliore per toccare l’argomento senza rivelare la sua abitudine a origliare di sera. Incapace di presentare una scusa plausibile, offrì semplicemente a Blessing una busta con del denaro.

“Pensavo, Blessing che non ti paghiamo abbastanza” disse.

“Sì signora”.

“Dovrai pur avere cose da fare, cose da comprare?”

Blessing fece un cenno di assenso col capo.

“Allora perché non prendi questa. Puoi usarla per le emergenze, per aiutare la tua famiglia o per quello che vuoi.”

Sade fece una risatina nervosa. Blessing sembrò perplessa ma prese la busta marrone con un sorriso di gratitudine. Sade non era sicura di quanto fosse la parcella di un medico al villaggio, ma sperò che la sua offerta fosse stata generosa. Nei giorni successivi attese in ansia che Blessing annunciasse la sua partenza. Quando non successe niente allentò la tensione, rilassò le spalle. In qualche modo si era tolta un peso opprimente e all’improvviso si sentì vicina a Blessing, come se venendo in suo aiuto condividesse con l’altra un legame speciale. Vide loro due come le facce della stessa moneta – donne differenti con un rapporto simbiotico, insieme per schivare i colpi e le frecciate della vita. Più avanti, mentre la domestica puliva il pavimento della cucina, Sade si versò un bicchiere di vino lasciandosi andare al desiderio di parlare. Raccontò a Blessing di com’è crescere in una casa poligama, allevata da una donna che dava della puttana a sua madre. Le parlò di suo padre, un vecchio che quando la vide promise mari e monti, mentre il suo commercialista spediva e-mail deprimenti. Descrisse la delusione di essere tornata a casa perché voleva essere legata a qualcosa, solo per ritrovarsi ancor meno legata di prima. E le frustrazioni del matrimonio con un uomo che neppure aveva il tempo di accorgersi che era sola. Per tutto il tempo Blessing continuò a lavorare, pulire superfici, spazzare stanze – a volte si fermava per riempire il bicchiere di Sade.

La notte prima che Femi tornasse a casa sentì di nuovo la voce della domestica dentro il coro delle donne.

“Blessing, che t’è successo?”

“La sua signora gli ha detto di andarsene.”

“Perché, che gli hai fatto?”

“La mia signora non mi ha detto per nulla di andarmene. Sono io che me ne voglio andare. Voglio andare al villaggio”

“Sei preoccupata per il bimbo di tua sorella?”

“Sì, sai.”

“E è d’accordo la tua signora?”

“Mica gliel’ho chiesto. Mi sa che quella donna è matta. Tutti i giorni beve il vino e parla senza senso, beve e mi dà i soldi. Io mica lo capisco quel che dice. Domani torna il signore. Io mi voglio solo prendere i miei soldi, andare al villaggio e aiutare mia sorella. Quella donna c’ha più soldi che giudizio.”

“Kai. Non è mica nulla facile ‘sta vita, sai! Io mi vorrei prendere i tuoi problemi.”

Il corpo di Sade si accasciò contro il muro. Premette la fronte sul vetro e si mise a guardare il fiato che formava piccole sfere di condensa. Le voci delle donne erano ormai lontane e i grilli cantavano così forte che sarebbero potuti essere dentro la stanza. Ma quanto è stata stupida, pensò. Blessing aveva sicuramente ragione: lei non aveva affatto giudizio. Rise di sé stessa, dell’amicizia immaginaria che aveva inventato, dell’impacciato scambio di buste marroni riempite di contanti. Rise quando ripensò a come le sue storie erano uscite a precipizio, un flusso di coscienza che la povera ragazza aveva capito a malapena. Rise quando ricordò come ci si sentiva bene a togliersi un peso. Sade chiuse la finestra e vuotò il bicchiere. Poi pianse; lentamente, lacrime amare.

Pidgin nigeriano, significa “bambina viziata”

Traduzione di Laura Maggi

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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