Nota biografica | Versione lettura |
“Questa è l’incredibile e vera storia della mia sorella Mereme morta in età mite quando ancora non aveva compiuto sedici primavere umane, la quale rimase fedele al suo prodigioso compito di chinarsi umilmente sulla pietra nera e di prosternarsi alle celesti forze che ogni giorno al tramonto venivano a renderle visita.”
Era una qualunque sera dopo cena, di quelle che si ripetono fino alla nausea, seduti accanto al focolare di gennaio, nella vecchia casa in campagna. Quello che parlava era l’anziano fratello della defunta pastorella Mereme e che probabilmente aveva toccato i cent'anni ma non aveva perso né la lucidità della mente, né il vigore nel suo corpo da contadino ben nutrito. Aveva la pelle ruvida con chiazze rossice, baffi lunghi a spazzola e la sua voce a volte prendeva una risonanza lugubre da creatura defunta. Sure Koni: lo zio di Lala, quello che l’aveva condotto lì quella sera, l’aveva beccato al mercato di Durazzo, mentre faceva acquisti da quattro soldi e l’aveva riconosciuto solamente dalla cicatrice incisa sulla guancia destra. Lala a quell’epoca era ancora uno scapolo diciottenne con lo sguardo mite dell'adolescente solitario e appartato prestava ascolto all'incredula narrazione. Vathe, la sorella di Sure e madre vedova di Lala lavorava ai ferri in un cantuccio della camera. Fuori, il vento gelido di gennaio ululava tra i rami del gelso. Spesso, il vento riusciva a introdursi in spirali sulla ciminiera del camino e spargeva le fiammelle della legna, ma la cosa più insopportabile in quella incredula serata era il soffio del vento che spifferando gemente tra le fessure della finestra e della porta, aumentava il peso del terrore, anche se la storia non induceva terrore ma uno stupore quasi infantile. Era il mille novecento trenta nove. Il narratore era cieco e da un paio di anni consumava la sua vita errando di qua e di là.
“Io” proseguì il vecchio mentre si accese la pipa già fumata ed odorosa di tabacco bruciato, “a quell’epoca ero un ragazzino di vent'anni, forte e collerico, contento di essere cresciuto in fretta per dare una mano al padre mentre arava, seminava, zappava o mieteva i cereali. Eravamo una numerosa famiglia poveri in canna. Io ero il primo maschio. Dopo di me veniva Mereme di quattordici anni, poi altri nove bambini. Numerosi perché mia madre non aveva smesso più di partorire fin quando successe il fatto che ci cambiò la vita per sempre.”
Parlava fissando le bianche pupille luminose su un punto fisso della parete come se solo così la sua memoria potesse riaffiorare meglio dagli abissi dell'oblio. In verità sapeva tutta la storia a memoria. Aveva i capelli lunghi, ondulati, da bianchi diventati giallicci, tinti dalla nicotina, come la barba e i baffi. Quando si mise a parlare alzò il volto come se volesse percepire meglio le non udibili voci delle creature luminose che vagano nell'aria e con i nodi delle dita scarne e massicce stringeva il bastone. Era un bastone rustico che gli serviva da appoggio e con cui indovinava la strada. Sapeva di rapsodo.
“Ogni mattina, all’alba la mia sorella Mereme, si alzava con fatica dalle scosse che la nostra madre Lavdie ci dava uno per uno, perché corressimo ognuno al proprio lavoro . Mereme, si alzava, indossava la sottana di cotone, si metteva i sandali in pelle di capra cuciti da nostro padre, pettinava i capelli, beveva il latte che la madre riscaldava sul focolare acceso in mezzo alla casa; poi andava verso la capanna, contava le pecore e le faceva uscire nel cortile. Me la ricordo la stagione: era primavera. Dappertutto i fiori emanavano un fresco profumo e la brezza mattiniera effondeva nell’aria a onde la fresca fragranza dell'erba sugosa, delle linfe di alberi che schiumose e verdi si liberavano nell'aria purificata dalla rugiada mattiniera. Non scorderò mai il canto degli uccelli. Pareva che tutti gli uccelli della foresta, ogni alba si posassero sugli alberi della nostra casupola fatta con muri di mattone cotti al sole, tetto di tegole di pietra levigata, porta di assicini lisciati con la piastrella. Cantavano in modo così squisito usignoli, canarine, il pettirosso e l’allodola da rimanere a bocca aperta. All’inizio il nostro padre Dervish, uomo serio e placido, fu perfino seccato da quegli uccelli senza scrupoli che si azzardavano a cantare perfino sui travi foderati di fuliggine della nostra casupola, ma quando ci fu l’invasione degli aromi, allora sorpreso non cacciò più gli uccelli, ma rese grazia al Signore, perché aveva benedetto la casa. Ma non era quella la ragione principale. Dopo le piogge specialmente, quando l’aria di per sé nitida, si schiariva come se fosse lavata con acqua e sapone, allora si notavano perfino i contorni del mare azzurro da un lato, e le nevi immobili sulla montagna di Tomorr al sud e quelle di Kruja a nord. Era veramente una cosa prodigiosa. La mia sorella pastorella come ogni mattina, mandava avanti il gregge composto di pecore, capre, montoni e, seguita dal cane Balo, si incamminava verso le verdi praterie del sud, là dove la fonte aveva fatto crescere un'erba grassa e fresca da saziare il branco degli animali. Noi vivevamo in collina e ad occhio libero si potevano distinguere le case dei Koni, i nonni di Sure, le stirpi dei Maliqi e dei vecchi Prezani.
La terra in certi posti era arida, rossa come malva, piena di cespugli spinosi e solidi come il filo spinato. Mia sorella scendeva il sentiero suonando un piffero che teneva sempre nella bisaccia insieme con il pane nero con formaggio, cipolla e pomodoro. Non parlava mai, somigliava al padre, e spesso quando mancava il cibo a casa per tutti, allora lei inventava una scusa e se ne andava a dormire nella sua alcova senza mangiare. Era sempre seria ed ubbidiente come un animaletto che hai allevato da piccolo e quindi ubbidisce a te, alla cieca.
Io lavoravo tutto il giorno sui nostri campi coltivati, per produrre il pane sufficiente alla nostra famiglia ed avevo attorno a me sempre fratelli e sorelle più piccole che si divertivano all’ora del pranzo sotto l’ombra dell’ulivo, sulle zolle di terra rossa.
Era già cominciato da giorni il prodigio degli uccelli, quando nostra sorella Mereme cominciò a tardare al ritorno. La prima sera, invece di venire al tramonto venne all’imbrunire, con il gregge che obbediva a fatica e le pecore che belavano dal dolore dei seni colmi di latte. Nostra madre, scarna ma energica che tutto il giorno non smetteva mai di bestemmiare e dare schiaffi ai più piccoli disobbedienti, la attese stufa, inviperita, affacciata sull’uscio con le gambe piantate per terra ed i palmi poggiati sulla vita: “Che hai fatto fin ora, stupida!?” gli disse strillando, mentre io mi lavavo le braccia sul samovar d’acqua tiepida per via del sole d’aprile che batteva crudo sulla lamiera. La povera Mereme, si mise a piangere. Vidi le sue lacrime scendere sulle guance fresche e lisce pulitissime, come se per tutto il tempo non avesse fatto null’altro che lavarsi con acqua e sapone nella fonte. Mi ricordo come ora. Era all’imbrunire e all’orizzonte ancora si notavano i bagliori accesissimi del tramonto soffocato dietro le montagne. Un mondo arcano di grilli, gufi, pipistrelli e lucciole si mise a farsi notare tra gli alberi immersi nel buio senza nome. Piangente, si allontanò correndo, attraversò la siepe, lasciando nostra madre in mezzo al gregge così che il montone quasi non gli conficcò le corna nella pancia dalla rabbia. La pastorella attraversò il cortile e quando passò accanto a me, io vidi che aveva agli occhi colmi di lacrime calde una strana luce, come se gli fosse successo qualcosa di meraviglioso. Aveva occhi enormi, di un denso nero pieno di passione, cerchiati da sopracciglia fitte e alate come ramo di pino. “Se tu ti accoppi a questa età, ti abbandonerò per sempre in mezzo alle strade!” disse la madre piena dirabbia nel timore che combinasse cose turpi. Nostro padre stanco morto mangiava e non diceva nulla.”
Il vecchio Ramiz si fermò. Deglutì, avvicinò la pipa di radico, odorosa di tabacco alle sue labbra scarne e flaccide, strinse i muscoli e succhiò il fumo agro, denso che prima in serpentelli scivolosi e eterei, poi dalla bocca e dal naso sbucò con uno sbuffo irreale una quantità giallognola e odorosa di fumo grigiastro. Lala tossì dal suo canto. Il fuoco si mise a crepitare dalle bolle d’acqua conservati nella legna, mentre Sure Koni tutto orecchio aspettava che il vecchio continuasse la storia. Il vecchio si avvolse in una irreale nebbia di fumo, come la montagna avvolta nella nuvola. Si udì solo la voce questa volta, la sua voce smerigliata, sonora, virile, da corde invecchiate.
“Allora ci mettemmo a dormire quella prima sera. Siccome eravamo poveri e numerosi, noi bambini dormivamo ammucchiati uno accanto all’altro, sopra vecchie coltre odorose di sudore ed io, quella notte udii un sussurro. Mi girai nel buio illuminato da un raggio di luce che penetrava di sbieco e vidi Mereme raccolta in preghiera. Prosternata, con la fronte attaccata al suolo e mormorava certe parole che neppure io sapevo dove avesse imparato, perché anche se musulmani, nostro padre non ci aveva mai insegnato le Sure del Corano.
La seconda sera, la notte era diventata fonda e nostra sorella non era ancora tornata. La madre aspettava seccata perché voleva mungere le capre e le pecore per far da mangiare in tempo ai bambini. La pastorella tornò a notte pesta quando la luna era ormai nascosta dietro la collina; scorsi nostra madre tremante di rabbia che l'attendeva agitando in mano una verga. “Perché vieni così tardi, si può sapere o no?!” La sorella Mereme non diceva nulla. Allora la madre ancora più arrabbiata con la lucerna tremante in mano: “Si può sapere perché tardi così tanto, quando sai che c’è gente in casa che aspetta il latte!” La pastorella stava ferma, testa abbassata, faccia in giù, cupa, accerchiata dalle pecore e capre che guardavano con gli occhi smarriti. Allora la madre poggiò la lanterna su un tronco enorme, la fece inchinare, gli alzò la sottana e si mise a frustarla per farle comprendere che doveva tornare a casa prima del tramonto, come aveva sempre fatto prima. La pastorella non emise alcun gemito. Si udiva solamente il frusciare della verga nell’aria notturna, l’appiccicarsi sulla sua carne tenera ed il tremore da quattordicenne di Mereme acciuffata in fallo. Intorno stavo io con le sorelle e i fratelli più piccoli, che non potevamo dire nulla, perche quando nostra madre perdeva la ragione non guardava in faccia nessuno. Successe allora che un pipistrello si appiccicò ai capelli lisci della madre inacidita, infuriata dalla indifferenza quasi pacifica della figliola, ed appena si rese conto del pizzicotto acuto scaraventò la verga e si mise a correre nel buio arruffando i capelli ed urlando dal dolore. Nel ramo più basso dell’ulivo, nel cortile, si posò una civetta e si mise a cantare. “Brutto segno!” disse il padre uscito appena dall’abitato e mi dette l’ordine di sistemare il gregge sul cortile e di mungere con il secchio grosso. La madre entrò e mise al collo ferito cipolla e sale. Aveva quella sera gli occhi come due tizzoni di odio e digrignava i denti di una rabbia mai provata prima. La pastorella si mise a sedere su un angolo della casa e cominciò a piangere senza voce. A singhiozzi. Gemeva e girava i grossi occhi neri ed enormemente espressivi verso la soffitta come se fosse stata sicura di vedere qualcosa. Aveva le mani morbide, capelli neri e dritti, espressione placida, taciturna con fugace occhiate gettate di qua e di là; nel corpo gracile soffriva di un cupo silenzio che di solito la avvolgeva nelle fredde ore d’inverno. La seconda sera fui così stanco che non riuscii ad attendere per constatare se si fosse raccolta in preghiera, oppure no. La mattina dopo andammo tutt'e due giocherellando a lavarci nel samovar e di sbieco, quasi senza volere, vidi che erano sparite dalla schiena i lividi delle frustate furiose che nostra madre le aveva dato una sera fa. Non le chiesi nulla ma tutto il giorno, mentre sotto il sole cocente, respirando la polvere rossa che il vento innalzava a suo piacere, incurvato mentre zappavo l’orto con melanzane e pomodori, mi misi a dubitare su tutto. “Che farà che tarda?” si domandava il padre, un instancabile lavoratore, forte ed ermetico, mentre le gocce del sudore gli colavano dal naso. “Forse si distrae con i giochi da bambina con gli altri pastori!” dicevo io, mentre strappavo le erbacee spuntate intorno alle piante seminate. Poi con secchi di legno, prendevamo l’acqua dal buco scavato e se le piogge tardavamo allora innaffiavamo l’orto, per far crescere le verdure piantate. Passarono ancora un paio di giorni e di nuovo nostra sorella tardava, ma il padre, un uomo severo, ma giusto ed onesto, non permise più alla moglie Hamide di picchiare la piccola anche se avesse avuto ogni ragione per farlo. Prese a parte la piccola spaventata che tremava e si asciugava le lacrime calde grondanti dagli occhioni come stille di rugiada e le chiese: “Puoi dire a me, perché tardi ultimamente?” Ma la bambina non avrebbe parlato per tutto l’oro del mondo. Allora, visto che lei era l’unica che poteva portare al pascolo il gregge, la lasciarono andare ancora, come se non fosse successo nulla, malgrado l’avessero raccomandata di non tornare troppo tardi. Il giorno prima dell’idea del padre era successo qualcosa di molto strano. Un cervo della foresta, bellissimo cervo con occhi vitrei verdissimi, pelle pulitissima quasi splendente nel sole, agile e furbo, di sua volontà si era introdotto dentro la nostra casa ed aveva ceduto alle carezze dei più piccoli bambini che ridevano e si divertivano, chi facendogli il solletico, chi stringendolo per il collo, chi tenendolo per le corna. Ma il cervo non se ne andò fino all’ora del tramonto, quando nostra madre si mise ancora a maledire ed a bestemmiare contro la pastorella per il ritardo. Appena udì le imprecazioni la bestia si mise a calciare, ad aprire la strada a furia di corna biforcate, e dando un calcio alla porta di legna saltò fuori con una capriola e sparì saltando la siepe. I bambini si misero a piangere. Io rimasi esterefatto, uscii sul cortile e vidi il sole al tramonto. Le colline aride fatte di sassolini neri e bianchi, i cespugli, le erbacee, le strade, le pianure seminate, le acque argillose del ruscello, tutto si era tinto di un rosso amabile, per via dei colori in scioglimento del sole che andava a cullarsi dietro le montagne. Allora udii l’ultimo canto degli uccelli che scendevano a cantare sui rami più bassi del prugno e del fico e cantavano esclusivamente per me. Meravigliato dall’oro luminoso della luce frantumata sulla natura, immerso nel placido silenzio pomeridiano in cui si udivano solo lontani asini che ragliavano e tardivi galli che cantavano, osservavo la madre che bestemmiava vestita di nero, perché l’ubbidiente e buona Mereme tardava sempre di più. Non la picchiava più ma aveva smesso di prendersi cura di lei, la ignorava e non la poteva soffrire quando tornava dal pascolo con le pecore gonfie di latte. Erano passati dieci giorni, si, erano passati, quando, mentre mangiavamo il pasto sotto l’ombra dell’ulivo, il padre mi disse sottovoce: “Domani, di nascosto, devi seguire la sorellina, per vedere che cosa fa, che tarda così tanto!” Stavo bevendo acqua con l’orcio di terracotta a grossi sorsi. Mi fermai, mi asciugai le labbra con il manico e replicai: “Non è bello origliare!”
“Devi fare quello che ti dico!” si arrabbiò lui. “E devi star attento a non essere visto da lei!” Quindi, volente o nolente dovevo inseguire mia sorella. Quella sera non dormii dalla agitazione, e la vidi sotto la luce bluastra della finestra, quando si alzò, scivolò la stuoia accanto al focolare, si prosternò con le ginocchia raccolte per terra, fronte e palmi per terra, e si mise a pregare, come facevano i buoni musulmani il venerdì in moschea. L’alba sembrava non venire mai.”
Qui il vecchio Ramiz si fermò. Non parlò più. Si udì solamente il crepitio del fuoco, Vathe che borbottava la melodia di una antica canzone religiosa, ed il respiro a fischio di Sure Koni incantato dalla storia. Lala, con la schiena appoggiata sul muro, il sedere sul cuscino ed il gomito destro sul ginocchio stava in silenzio preso dalla storia. Passò quasi un intero minuto ed il cieco Ramiz stava immobile, come addormentato. Appena Sure Koni fece finta di tossire per scuoterlo da quelle acque di sogno dove era caduto il centenario Ramiz, allora, il cieco si mosse, dette un altra mitica tirata alla grossa pipa che pareva una ciminiera, si sfumò nella nebbia densa, grigiastra, luminosa del fumo ed abbassò lo sguardo. Lala vide le pupille bianche, di una luce fiacca, in cui la vista era offuscata da decenni; dove ora, all’interno si sviluppava una immaginazione senza precedenti.
“Come fai a raccontare cosi incredibilmente bene?” gli chiese lo zio Sure ancora intrigato dal potere magico della narrazione.
“Perché anche questo è un prodigio!” rispose il cieco Ramiz. “E’ un prodigio, come fu tutta la sua vita corta!”
Fuori, il vento freddo riprese di nuovo ad ululare, spifferando tra le fessure del portone principale, portando echi lontani e misteriosi, vecchi di cent’anni. Si udì un abbaìo che si perse nelle spirali del vento. Dentro, nel calduccio del caminetto, illuminati dalle lanterne a petrolio, l’aria sapeva di vecchie storie Albanesi. Il cieco, alzò di nuovo la testa, respirò come un animale vecchio, scricchiolante, ruggì girandosi dal fuoco, poi si mise di nuovo a raccontare.
“Mi misi a seguire la sorella che andava giù per la valle, suonando il piffero. La prima cosa che mi colpì fu la sua allegria acquistata all’improvviso. Si mise a ballare con la bisaccia a tracollo oscillante, suonando il piffero, finché Signore Iddio, un pettirosso gli si fermò sulla spalla destra. Il cane agitava la coda e festoso abbaiava salterellando. Le pecore procedevano prima, in branco, indisturbate. Dopo un’ora di viaggio raggiunse la fonte. Era un luogo fiorito, in cui l’erba era tanto verde, acquosa, di freschi colori; le acque talmente cristalline e limpide che gli uccelli volavano intorno a stormi. Mi rifugiai, salendo sopra un pino da dove potevo controllare tutta la zona dove si aggirava la mia sorella e mi misi a osservare. Il gregge si sparse di qua e di là, pascolando nell’erba grassa. Lei si mise a pulire cantando, le braccia e le gambe, poi il volto, andò verso l’ombra dell’ulivo fresco, mise per terra fogli larghi di felci e di altre piante verdissime, si prosternò con la testa per terra e si mise a compiere l’orazione. Poi si alzò in ginocchio e con le mani raccolte in grembo mormorava parole con gli occhi abbassati. Alla fine successe qualcosa che mi lasciò di stucco. A mezzogiorno, le pecore belando si misero attorno a lei, si posero per terra, lei alzò il volto, tese i palmi in avanti, e come se vedesse una figura nell’aria, tutta presa in quel paradiso di uccelli multicolori, di fiori odorosi e freschi, Mereme si alzò, e guardando fisso in aria, come se fosse stata guidata da qualcuno si diresse verso il cespuglio. Era un cespuglio denso, spinoso, alto un metro e qualcosa, che si estendeva a perdita d’occhio. Io stralunai gli occhi dall’incredulità. Ma che fa quella, che cosa fa? Quando all’improvviso successe qualcosa veramente prodigioso ed io quasi non caddi dal pino perché fui scosso dalla sorpresa. Il fitto cespuglio di rovi maturi, si mise ad aprirsi di sua volontà, con un fragoroso crepitio di paglia o secchi ramoscelli che prendono fuoco, e la fanciulla si incamminò dentro. Si aprì un varco sufficiente per lei, come se uomini esperti con machete o coltelli aguzzi tagliassero i bui e fitti ramoscelli del cespuglio. Poi non la vidi più. Udii invece il rumore secco dei rami che si spostavano ed aprivano la strada a mia sorella. Stralunando gli occhi, curiosissimo, scesi giù impaziente, tremante dalla sorprendente novità di quello che vidi, mi misi a correre a perdifiato per le zolle di terra rossa, intorno alla superficie vasta del cespuglio. Le pietre quasi non si spaccavano dal calore e le cicale frinivano con zelo aggrappate ai alberi. Sudai freddo, non dalla paura, ma dalla irrompente curiosità che veicolava il mio desiderio di scoprire il mistero, corsi come pazzo, forse per un’ora, con la speranza di scorgerla dal altro lato del cespuglio, ma non vidi nulla. Stanco, coperto di sudore, di polvere, infastidito dalle mosche e dalle zanzare, mi sedetti su una pietra nera, levigata, grossissima come uovo di dinosauro, estrassi la borraccia e mi misi a bere con gli occhi rivolti verso il sole. Allora la stanchezza mi sparì d’un colpo e mi sentì leggerissimo, anzi direi sollevato da sotto in su. Come se una miracolosa forza mi sollevasse di propria volontà. Guardai intorno. Il sole cadeva a picco. Il calore si innalzava dalle terre rossicce in spirali affumicanti. I cieli erano nitidi e di un azzurro indiscutibile. Vidi la pietra. Vidi la pietra nera, in cui ero seduto ed allora calcolando il sole spostato, allora mi venne in mente che forse, in linea retta il varco aperto in mezzo ai cespugli conduceva qui. Tornai di nuovo nel pino, mangiai un boccone ed osservai da lontano mia sorella che giocava con il cane. Un ora prima del tramonto allora, scesi, feci a piedi la distanza a mezzo cerchio fino alla pietra, mi nascosi dietro un arbusto fitto e mi misi a mangiare.
Quando il sole perse il calore, si disciolse in un rossore amabile e placido come un ricordo tinto di nostalgia; quando in fasce di luce oblique, tinte di sottilissime nuvole violacee, il sole toccò le cime delle colline dell’occidente, allora io deglutivo l’ultimo boccone di pane. Non me lo scorderò finche avrò vita. Da lì vedevo la pietra nera, che tinta di rosso pareva color violaceo. Allora udì il prodigioso fragore dei cespugli spinosi che si aprivano di volontà propria, il cuore mi balzò alla gola, il palato mi si prosciugò all’improvviso e vidi lei. Vidi lei mentre usciva, sana come una colomba, senza neppure una graffiatura, senza nessuno strappo ai vestiti, la mia sorellina. La mia prodigiosa pastorella, che l’avrei amato per il resto della sua corta vita e della mia lunghissima vita da cieco errabondo. Rimasi a bocca aperta. Lei salì sulla pietra nera, con una dedizione apostolica, poggiò le ginocchia sulla pietra, si curvò, mise le mani sulla pietra rovente, avvicinò la testa alla roccia, si prosternò come facevano tutti nella casa di Dio, poi si mise ad esercitare l’orazione. A me, rimase il cibo nel palato. Tremai, mi congelai dallo stupore, con la mano destra in aria, la sinistra nella bisaccia, mezzo ritto come se avessi avuto paura che qualcuno mi distinguesse, ed ebbi la forte sensazione che degli occhi invisibili mi scrutassero da ogni dove. Mi girai ma non vidi nessuno. Poi di nuovo, vidi la mia taciturna sorella che con tanta infantile enfasi e dedizione seguiva l’orazione e due grosse gocce di lacrime mi rotolarono sulle guance scoccate dal sole mediterraneo. La vista mi si inumidì, provai un asciutto strano nel cavo orale, e la gola mi divenne amara e salata. Non riuscii più ad inghiottire. Masticavo inutilmente. Quando mi asciugai le lacrime, vidi la mia sorella mentre si muoveva seguendo l’orazione. Poi appena ebbe finito, ringraziò il cielo con il capo coperto di una bianca nappa, ed io seguii con lo sguardo, come il garbuglio dei cespugli di nuovo si mise ad aprirsi, prodigiosamente, incredibilmente, da non credere. La scena era così onirica, che, istintivamente mi portai le mani agli occhi e stropicciai le palpebre come se volessi destarmi da una incredula visione. Allora mi ricordai delle cinque orazioni, e del segreto che la mia sorella serbava nel cuore. Mi persi in un nuovo mondo di interrogativi, per tutto il resto della serata, e quando tornai a casa, sorpresi la madre intenta a bastonare la piccola.
“Nooo!” urlai, correndo a perdifiato, convinto di essere da ora in poi il suo angelo custode. E con una energica spinta, feci cadere la madre per terra, e difesi mia sorella che tremava come un agnello belante in mezzo alle acque furiose. Stringevo le mascelle e con gli occhi furiosi urlavo: “Prima avete da fare con me, poi con lei!” Presi il padre da parte, mentre languiva dal morso di un serpente, nell’orto e gli confessai l’incredula esperienza che avevo avuto quel giorno. Mi credette. La madre la seppe da lui. Non la picchiava più, ma neppure riuscì a volerle bene come noi altri. Io la vedevo diversamente. Con due occhi interrogativi, curiosi, pieno di fascino mi misi a volerle un bene di Dio. Giocherellavo spesso con lei, ed una volta, mesi dopo quando si prosternava all’alba e prima di dormire agli occhi di tutti, io, mentre stavamo raccogliendo fragole per i boschi le domandai: “Com'è che ti appaiono per aprirti il varco in mezzo ai cespugli?” E lei, dopo avermi trafitto con quei suoi occhioni nerissimi, grossi, colmi di una luce pura, buona e misericordiosa mi rispose gioiosa: “E’ una signora buonissima. Emana una luce ed un profumo intenso. Mi sorride con tanto amore e mi dice che io sono nella grazia di Dio, perciò la devo seguire fidandomi della sua bontà. Ha gli occhi verdi fortissimi, luminosi, indossa una tunica bianca ed emana una luce che quasi ti acceca la vista. Poi mi scompare e vengo condotto verso i cespugli. E’ la pietra la cosa strana. La pietra nera come quella di Mecca. E’ lì che scendono a schiere.”
Una volta eravamo invitati a un matrimonio. I miei genitori portarono anche la fanciulla con sè. La pupilla della casa. La prodigiosa. La misero a sedere accanto ai genitori, ma visto che le mense non bastavano, allora, qualcuno dei priori del banchetto, volle farla sedere in un’altra mensa con i bambini, un po’ più lontano da lì. La bambina disobbedì. Disobbedì perfino a nostro padre, che con le buone cercava di convincere che sarebbe stato meglio che lei andasse a sedere più in là. Da quando avevano saputo di che stoffa la loro bambina fosse fatta, i miei la temevano, e facevano tutto quello che lei desiderava. Quando la situazione si complicò, e gli ospiti rimasero in piedi, allora nel subbuglio della confusione, tra gli urli di coloro che non sapevano più organizzarsi e strillavano alle donne di portare altre mense, tra il rumore della musica, tra gli urli e gli strilli degli invitati, qualcuno afferrò la bambina per le braccia, lo sospese in aria e tenendola sospesa la condusse nella mensa destinata ai bambini, più in là. Allora Mereme si mise a piangere, agitava le mani ed i piedi in aria, strillava e malediceva, finché la fecero sedere con gli altri bambini. La confusione aumentò. Coloro che erano rimasti in piedi, iniziarono ad innervosirsi e a gridare finchè un organizzatore coperto di sudore, agitato muovendosi di qua e di là, perché stava perdendo il senno dalle continue chiamate che facevano per mettere le cose apposto e far sedere la gente, si azzuffò con un ospite impaziente che lo offese con parole dure. Allora la festa divenne un guazzabuglio di gente che si accapigliavano, si acciuffavano, si strappavano i vestiti di dosso, davano pugni e calci, bestemmiavano, sputavano insulti. Coloro che erano con l’ospite, si azzuffarono con gli organizzatori. Si rovesciarono mense e la gente fuggì spaventata. Allora nostro padre aprendo la strada a spintoni, riuscì a trovare il capofamiglia, un vecchio centenario, e gli spiegò il perché della rissa. Qualcuno sparò tre colpi di revolver in aria. Allora tutti, in maniera prodigiosa si fermarono, girarono la testa verso il vecchio centenario, il bisnonno del ragazzo che si sposava, e videro il vecchio seduto nel posto d’onore. Aveva una lunga e bianca barba da pascià come la mia. Aveva capelli bianchi ed il viso rosicchiato dal focolare. Teneva tra le labbra una lunga pipa riempita di tabacco come la mia, e dai denti, dal naso, come una fantasmagorica ciminiera usciva fuori il fumo grigiastro e luminoso del tabacco respirato. Ecco così" disse e fece il gesto. "Guardava fisso per terra. Null’altro si udì nell’aria. Il vecchio tossì, raccolse il catarro alla gola e con una voce roca, greve, di una autorità incredibilmente suggestionante, fumò di nuovo la pipa e disse: “Portatemi qua la bambina!” Le schiere che si erano azzuffate ancora sbuffavano e tremavano con le pupille scintillante di una funebre luce maledetta. Si trattenevano a malapena, per rispetto dell’indiscutibile autorità del vecchio saggio, ed un capello, un leggero capello li separava dal fatale desiderio di ammazzarsi a botte, e chi sa anche a pistolettate o peggio. Il padre trovò la mia sorella bagnata di lacrime, taciturna, di cattivissimo umore. La portò in braccio, e la condusse accanto al vecchio autoritario. “Ecco là” disse il suo padre, cercando di creare un’aria di festa e di allegria, come se stesse giocando con la figliola, poi la fece sedere in grembo accanto al vecchio autoritario. Si udiva lo sbuffare impaziente del tabacco ed il respiro ruvido, aspro del vecchio avvolto nella grigiastra nebbia del fumo del tabacco. “Di che hai bisogno bimba? Vuoi sederti accanto a tuo padre?”
“No” disse lei, “non voglio.”
“Allora che cosa vuoi, che tutto proceda per il verso giusto?” La bimba allora, rallegrata, si mise a sorridere, afferrò suo padre per la testa, avvicinò l’orecchio suo alle proprie labbra e gli confidò qualcosa a voce bassissima. Poi il nostro padre si girò dal vecchio autoritario e con un tono di voce calmo, senza nessuna espressione nel volto disse: “Se vuoi che tutto proceda come prima, e non diventi un macello di gente ammazzata,la bimba ha chiesto del bue chiazzato e degli altri sette buoi selvaggi di Ymer Aga.”
All’improvviso il vecchio chiese del suo servo Rakip. Il servo si presentò in un batter d’occhio e il vecchio dette l’ordine di partire subito alla volta di Ymer Aga e di portare a casa i sette buoi selvaggi.
“Ma come si fa a trovare i buoi selvaggi in quella foresta, padrone, se vivono da anni liberi nella foresta.” si lamentò il servo. Un altro aggiunse: “Io servo da Demir Aga e vi garantisco che quei buoi sono perfino pericolosi.” Ma il servo si opponeva inutilmente, perché nel momento che la pastorella aveva chiesto al padre gli animali, i buoi, all’improvviso, da ogni dove si trovavano, si erano mesi in cammino, e per la prima volta, ubbidienti e buoni si erano rifugiati già nella capanna di Ymer Aga, a dieci metri distante dal proprio abitato. Quando la verità fu svelata e condussero i buoi alla casa in cui si teneva il banchetto, allora tutto riprese come prima, e tanti si misero a prendere in considerazione la pietra nera, in mezzo ai cespugli, lì dove di nascosto, la pastorella Mereme, condotta da spiriti celesti, compiva l’orazione prosternandosi alla gloria del Signore.
Questa storia l’ho raccontata per lunghissimi anni, da quando lei era ancora in vita, non mi stancai mai di raccontarla e di condurre gente alla massiccia pietra nera in modo che si prosternassero in un posto privilegiato, venerato; da dove la discesa degli angeli e dei santi era più rapida ed efficace. Questa storia, era successo tempo fa e la fanciulla all’età mite si era incamminata verso il suo inevitabile e meraviglioso mondo, là, dove................................là, dove...... iridescenti colline sono fatte di perlacei colori d’arcobaleno, colori che si spargono con la leggerezza delle dolcissime fasce di luce beata nell'aria. Là dove rocce di zaffiri, hanno colori di stupefacente pietre luminosissime; dove prati e fiumi e colline sono fatte di una magnetica luminosità in cui ogni frutto è una gemma tanto amabile alla vista da tenerti prigioniero di quella ingenua irradiazione e deliziosa purezza. Là, dove fasce di soavi luci d’arcobaleno come brillantissimi scintillii argentati e dorati, come fuochi d’artificio di stupore, destano la maraviglia più esemplare. Luogo, pieno di volatili e di farfalle d'amabili gialli - arancioni che scuotono dalle ali il miele più profumato dell'invisibile delizia, indescrivibile. Dove le piogge di fiorellini minuti, appaiono e scompaiono in eteree forme rosee, in petali e ventilati garofani di grazia che si disfanno e si rifanno a piacimento della vista in aria; tutto per rendere i sensi di un’amabile, incomparabile bellezza. Là, dove pappagalli con piume dai colori candidi, canarini e cardellini, upupe e colombe sono fatte d'ogni iridescente riflesso aureo e non fanno altro che aumentare lo stupore della grazia. Là, dove si trovano le immense praterie di un fantastico verde chiaroscuro luminosissimo, dove spuntano i fiori più sublimi di blu turchese, perlacei arancioni cosmici e leggerissime e limpidissime forme perfette sollevano tanto gaudio, tanta leggiadria nelle azzurre fasce d’aria pura da farsi uno con la leggerezza. Là, dove sono cervi dagli occhi umani, pavoni dai riflessi d’iride, fagiani dalle piume screziate, cigni dalle ali candidi; tutto è fatto di scintillii argentati che si sviluppano nell'aria di volontà propria, a scopo di rendere la vista esempio dello stupore più indescrivibile. Là, dove c’è una musica, ahi che gioia di suoni, in cui le cetre armoniose spargono frantumi di melodie tanto soavi ed accarezzevoli per l'udito da divenire ebbri di dolce suono. Là dove organi divini, flauti incomparabili hanno il gorgoglìo del suono d'acque cristalline per la loro grandiosa armonia. Là dove gli aurei suoni fanno rimanere schiavo dallo stupore e l'umano non fa altro che piangere di bellezza che desidera in perpetuo. Stupisce per la grazia con cui sono stati ideati. Là, dove gli angeli ti accarezzano con le loro dita rosee e freschissimi, liberano ed effondono dal corpo etereo fasce di beata luce; e così dolcemente accarezzante è il loro tocco da far spuntare il sorriso più ingenuo e pieno di grazia in ogni conttato con loro. Là dove l’incontro di due entità di luce è la somma di due bellezze, di due delizie, di due grazie unite, in cui tutto è purezza e infinità di gioia. Oh celeste acqua dolcissima delle fonti paradisiache che mai sazia, mai gonfia, ma rivivifica le cellule e purifica in eterno; come se tutto, aria, luce, colori, suoni, profumi essenze non fossero abbastanza a renderti leggiadro. Oh prodigio che solo ti rinnovi in perfette forme di luce. Il sapore dei frutti lascia nel palato il gusto incomparabile di un liquido mai assaggiato prima di: pere, melograni, gelsi, ciliege, ribes, uva, fichi d’india, fragole beate; ed hanno un tale squisito sapore le linfe di certi fiori luminosissimi, da rinnovare in perpetuo l'estrema gioia del creato. Così perfetti per forma, per colore, per profumo e per liquido saporoso sono certi fiori che si chiamano “Fiordivita” i quali Dio Onnipotente li ha resi beati uno ad uno, nella sua infinita bontà d’amore, che perfino Adamo non gioì così tanto nel suo giardino. Non ditemi più profumo se non siete mai stati saziati di quell’ebbra essenza che il “FiordiParadiso” libera nell'aria soave. Profumo di densi e leggerissimi atomi ma tanto gustoso all’olfatto da cambiare d’intensità dopo ogni mutare d’iridescenti colori, e dopo ogni variar di forma divina, come fosse una pura illusione per la vista. E' solo amore, amore in tutte le sue molteplicità di forme, in tutte le sue molteplicità di espressione: amore divino. Quello delle sette aureole di Dio. Oh morbide e ovali armonie di colline, color d’iride scintillante, di un eterea effervescenza, filtrate nell'amore più candido del Padre Eterno. Oh leggerezza di acque di laghi incantevoli. Freschissime ombre in cui sarebbe bastato il canto degli uccelli a comporre la musica più orecchiabile. Oh che divine armoniche ed arpe si sviluppano di propria volontà nell’aria, in contemporanea con i fiori d’arcobaleno che sbocciano leggerissimi; di che bellezza si compongono e si scompongono nella soave atmosfera delle aureole del Signore. Il tatto gioisce di così tanta grazia che moltiplichi per cento la carezza fatta ad una Diana umana, 'divinità terrestre' di cui sei innamorato, e non puoi comparare il piacere soave che il tocco di un angelo dalle ali di stupefacente iridescenza per trasparenza e nitidezza, ti può regalare. Oh che essenza di luce dall'ebbrezza più suggestionante.
Là dove iridescenti paesaggi sono fatti di luminosa aria retta, di luce purificata dallo spirito dell’infinito Creatore. La sua dimora, ve lo garantisco amici miei, è il trionfo di ogni perfezione, in cui, ogni orgoglio delle arti umane, non è che pallida ombra, rispecchio del Suo sublime ingegno. Tutto ciò che stupisce gli umani oggi, pittura rinascimentale, impressionismo, orgoglio di statue, di architetture, di letteratura, fierezza di musica, fior fiore dell’ingegno umano, colto pensiero armonioso dei più celebri oratori, orgoglio della finezza più sofisticata, non è null’altro che l’obliqua luce del Suo purissimo, chiarissimo, limpidissimo riflesso, voluto coscientemente da Lui, Il Clemente Misericordioso Signore. Mai l’umano seppe filtrare l’arte nel Suo esemplare amore, come Lui filtra le sue superbe fantasie fatte di leggerezza e di una candida luce purificatrice.”
Il cieco Ramiz Mejtja fluiva in un dirompente inanellarsi di leggere parole, così suggestionanti che Lala, Sure Koni e Vathe, si misero a guardare l'uno l’altro preoccupati, come se avessero avuto paura che Ramiz stesse delirando. Era invece ispirato, mentre descriveva il posto in cui sua sorella era andata e che ai suoi occhi appariva così, il paradiso apparso a lui in sogno anni addietro. Ora, enfatico, ispiratissimo e pieno di gaudio, si fermò e si riempì i polmoni d'aria nuova. Poi sempre con la testa in alto strinse le mani intorno al bastone, adagio abbassò la testa e si rannicchiò senza dire altro.
Passò un po’ di tempo così nel silenzio più assoluto. Dopo, si mosse di nuovo, sbuffò e disse le ultime parole in quella indimenticabile sera di freddo gennaio: “Da sessant’anni, non faccio null’altro che raccontare questa storia casa per casa, in cambio di cibo e alloggio, sperando di destare nella gente un po’ di fede. Dò quello che ti conduce nella casa di Dio!”
Fuori il vento freddo di gennaio cessò d’un tratto. Né latrati di cani, né crepitii di ramoscelli in fiamme si udirono più. Silenzio assoluto. La storia raccontata lì quella sera non era una invenzione di fantasia, come anni più tardi Lala mi confessò più di una volta, ma l'incontestabile verità di una prodigiosa fanciulla vissuta più di un secolo e mezzo fa nel villaggio di Preza da dove proveniva la famiglia di Sure Koni, lo zio di Lala.