El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

intervista a boubacar boris diop

joshua massarenti

In occasione del decimo anniversario del genocidio in Rwanda, che cade nel aprile 2004, pubblichiamo una intensa testimonianza dello scrittore senegalese Boubacar Boris Diop, raccolta da Joshua Massarenti, che lo ha incontrato all'ultimo Festival di letteratura di Mantova, nel settembre 2003.

Due anni dopo il genocidio lo scrittore ha trascorso un periodo in Rwanda. In seguito a quella devastante esperienza ha scritto un romanzo - "Murambi - Le livre des ossements"- testimonianza di una discesa agli inferi che ha "stravolto" la sua esistenza, modificando la sua visione politica e, di conseguenza la sua poetica.

D. In che modo nel 1994 ha percepito il genocidio rwandese?

R. Tra aprile e luglio del 1994 ero a Dakar e, come tutti i senegalesi, seguivo con fervore il campionato del mondo di calcio, in particolare la finale Italia-Brasile. Non siamo mai stati così allegri come durante il genocidio. Certo, dopo le partite di calcio ci mostravano le immagini di quello che stava accadendo in Rwanda, ma ai nostri occhi appariva tutto così lontano, così sgradevole. Ci sembrava un po' come un incidente aereo, una sorta di catastrofe naturale. Francamente io non ne ero assolutamente turbato.

D. Lei è giornalista. È possibile che né lei né i suoi colleghi vi siate domandati cosa stava veramente succedendo?

R. Le racconto un aneddoto. I rwandesi che vivevano a Dakar in quel periodo, fecero il giro di tutta la stampa privata per fare in modo che l'opinione pubblica fosse informata sui fatti gravi che avvenivano in Rwanda. I direttori dei giornali li ascoltavano educatamente, ma nessuno ha pubblicato nulla. Questo perché, in generale, l'Africa è un po' vaccinata in materia di massacri. Sul Rwanda c'è stato un silenzio totale degli intellettuali africani, me compreso. Nell'Africa francofona questo si spiega col fatto che la Francia era implicata fino al collo nel genocidio. E noi non abbiamo capito nulla. E poi c'era un problema legato alle fonti. La stampa senegalese si basava sulle informazioni incomplete divulgate dai media francesi e dalle agenzie di stampa internazionali. Non c'era modo di mandare i giornalisti sul posto per dare conto di quello che effettivamente stava succedendo. Avevamo delle sensazioni, ma nessuna spiegazione.

D. Poi, nel 1996, è arrivato il progetto "Rwanda, scrivere per non dimenticare", voluto dal direttore di Fest'Africa, Nocky Ndejanoum...

R. Il progetto è nato in seguito all'impiccagione del poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa (giustiziato dal regime militare nigeriano, ndr), nel 1996, di cui io e altri intellettuali africani siamo venuti a conoscenza mentre eravamo a Lille, per il Festival letterario panafricano 'Fest'Africa'. Siamo rimasti scioccati e ci siamo accorti di come noi scrittori africani non avessimo alcun peso sulle situazioni politiche del nostro continente. Ci siamo resi conto dell'importanza di rileggere la storia recente. E il genocidio del Rwanda era sicuramente l'avvenimento più grave. Da lì, il direttore del festival, ha invitato otto scrittori africani a soggiornare in Rwanda per testimoniare. L'idea era di andare sul posto per manifestare la nostra "compassione" ai rwandesi e poi cercare di scrivere. È stata fondamentale la posizione del direttore che, sin dall'inizio, ha insistito perché, al nostro ritorno, non fossimo obbligati a scrivere un romanzo. Avrebbe scritto chi se la sentiva, chi poteva. Una volta lì, il progetto è cambiato. Alla compassione iniziale per le vittime si è sostituita la volontà di fare in modo che, attraverso la nostra voce di intellettuali africani, gli altri africani potessero conoscere il genocidio. Bisogna precisare che abbiamo dovuto aspettare due anni per mettere piede in Rwanda e, inizialmente, siamo stati sorvegliati da vicino dalle autorità locali, che temevano fossimo lì per conto dei francesi. Ma una volta appurato che non era così, siamo stati liberi di parlare con tutti, anche coi prigionieri.

D. Affrontiamo il metodo di lavoro. Come avete raccolto le testimonianze?

R. Abbiamo incontrato gruppi della società civile, gruppi di donne scampate alle stragi, Ong internazionali (come Avocats sans frontières), l'associazione dei giornalisti e degli scrittori del Rwanda, abbiamo visitato i luoghi dei massacri, parlato con i prigionieri e poi avevamo a disposizione un centro di documentazione: il mio libro è di trecento pagine, ma io ho preso ben quattromila pagine di appunti! Il mio romanzo è frutto soprattutto di discussioni e approfondimenti coi sopravvissuti. Attraverso le loro testimonianze, mi sono veramente reso conto che la sofferenza sublima l'uomo. Il personaggio fittizio di Jessica Kamenzi esiste nella realtà.

D. Sul piano umano, quali sono state le ripercussioni di quest'esperienza?

R. All'inizio volevo scrivere per farmi perdonare d'aver pubblicato "Le cavalier et son ombre", in cui parlo del Rwanda, senza distinguere i carnefici dalle vittime. Per me, nel genocidio, erano tutti carnefici. Ma mentre ero lì mi sono accorto che c'era invece una grossa differenza tra i rwandesi: carnefici da una parte e vittime dall'altra. Quando sono tornato a casa ero in collera con me stesso. Ho militato tutta la vita a sinistra e credevo di aver capito tutto con Marx e compagnia bella. Ma in Rwanda ho preso coscienza di essere stato cieco. Il secondo motivo di questa mia collera, che poi è stato il motore del romanzo, era la rabbia contro la Francia. Ho studiato con attenzione la politica della Francia in Rwanda tra il 1974 e il 1994. Ebbene quello che hanno compiuto i politici francesi in questo paese è a dire poco odioso. Il loro razzismo nei confronti dei rwandesi ha preso proporzioni davvero indescrivibili. Personalmente, ho completamente modificato il mio punto di vista nei confronti della Francia. Non tanto sui francesi stessi ma sulla politica francese in Africa. Nello stesso tempo, ho cercato di comprendere con pazienza e umiltà gli avvenimenti africani. Prima, per me, Somalia, Liberia, Etiopia... erano tutte nello stesso calderone. Questa volta, invece, mi sono concentrato sul carattere specifico di un conflitto, i suoi meccanismi. Il genocidio rwandese mi ha fatto scoprire l'innocenza di noi africani. Abbiamo vissuto per troppo tempo con un senso di colpa gli uni verso gli altri. Ma in Rwanda io ho scoperto che la cultura della violenza politica ha un'origine straniera. Dunque io, africano, mi sono scoperto innocente. E, una volta che ci si sente innocenti, si perde una parte dei propri complessi! In Rwanda sono i francesi e i belgi che hanno tradotto "Mein Kampf" in kinyarwanda, che hanno inventato le carte d'identità etniche.

D. In quanto scrittore, come ha affrontato il genocidio?

R. Non ho voluto affrontarlo come scrittore, ma da un punto di vista strettamente politico. Non volevo tornarmene a casa, a Dakar, e stilare un romanzo per far vedere come ero bravo a scrivere belle frasi sul dolore altrui! Di questo me ne fregavo!! No, io volevo scrivere in uno stile semplice, spoglio, secco. Gli avvenimenti erano ben più importanti delle mie belle frasi. Ecco, il mio libro è una via di mezzo tra un romanzo puro e un saggio, una raccolta di testimonianze a scopo didattico. In molti paesi africani i miei libri sono discussi nelle scuole. Questo è un libro per i giovani. Per questo è il più semplice dei miei romanzi. E anche per questo la maggior parte delle testimonianze sono autentiche. Ce ne sono state alcune che ho escluso perché erano troppo eccessive per essere vere. Anche perché i testimoni hanno tendenza a "gonfiare" il proprio vissuto. Due volte ho soprasseduto a questo problema, da una parte per l'aspetto puramente romanzesco, dall'altra per rispetto del dolore dei testimoni.

D. Con quest'affermazione non pensa di fare torto al valore etico e scientifico delle fonti orali?

R. Assolutamente no. Ci sono state alcune testimonianze orali che ho confrontato con le fonti scritte. E questo non priva il racconto dei sopravvissuti del loro valore. Nell'atto di scrivere ho fatto lo sforzo di rispettare il loro punto di vista. La mia preoccupazione è stata quella di non essere colto in fallo sull'esattezza degli avvenimenti. Perché il lettore medio, di fronte ad avvenimenti straordinari affrontati con tono enfatico, avrebbe concluso che si trattava solo di un romanzo, cioè avrebbe nutrito la serena sensazione di avere a che fare con un mondo di finzioni e non con la realtà del genocidio rwandese. E invece, dal mio punto di vista, era fondamentale che il lettore leggesse le pagine dicendo a se stesso che tutto quello che c'era scritto era vero. In questo senso il mio mestiere di giornalista mi ha molto aiutato. Qui sta tutta l'ambiguità di questo libro. Lo si rifiuta come romanzo ma può essere efficace solo in quanto tale: perché quella del romanzo è una forma letteraria che semplifica, rende vivo l'avvenimento. Insomma, la sfida era scrivere qualcosa destinata a essere letta come romanzo e percepita come un rilevamento di fatti certi.

D. Che cosa separa, dal punto di vista narrativo, "Murambi" dalle opere che lo hanno preceduto?

R. L'esperienza rwandese ha modificato anche la mia poetica, il mio stile: mi ha fatto capire che il romanzo non poteva più essere un gioco. Prima del Rwanda avevo già scritto quattro o cinque libri, tutti elaborati, complicati, un po' ermetici. Erano come labirinti dove invitavo il lettore a seguire un percorso tortuoso ma delizioso. Dopo quest'esperienza la logica non poteva più essere la stessa. Non volevo più che si dicesse: ''ecco, Diop sta giocando". Non si può fare musica col sangue. In seguito al mio viaggio in Rwanda, ho continuato a scrivere in francese delle storie, ma il mio modo di scrivere è completamente cambiato. Mi sono distaccato un po' dal gioco romanzesco.

D. Perché questo titolo?

R. Murambi perché volevo che, immediatamente, si capisse che intendevo parlare del Rwanda. Il libro dell'ossario perché durante quei due mesi abbiamo camminato in mezzo a degli ossari. Scrivere sul genocidio significa scrivere per i morti. Il libro dell'ossario è il libro dei morti. Quello che ci "ha parlato" di più durante il nostro soggiorno non sono stati i testimoni ma i corpi che erano sparpagliati sui siti. Una scarpa, un vestito... è questo che ha dato origine al titolo.

D. Secondo lei, che portata storica ha avuto questo genocidio sul continente africano?

R. Nell'immediato - ed è il paradosso di quest'orrore - ha avuto qualche effetto positivo, perché è stato dissuasivo. Ha fatto scattare un dispositivo d'allarme. Oggi, ogni volta che succede qualcosa in Africa, la gente dice: "Attenzione! Il Rwanda non è lontano". Tuttavia, io non sono proprio sicuro che gli intellettuali africani abbiano compreso in tutta la sua enormità quello che è accaduto. Ho fatto diverse conferenze nella mia regione d'origine, la Casamance, e in altre città africane. Ebbene, ho come l'impressione che, da parte degli africani, ci sia ancora un rifiuto a fermarsi e cercare di capire. Occorre ancora tempo per elaborare il lutto, soprattutto in Rwanda, dove sono i genitori a soffrire del genocidio ma i figli a parlarne. I veri romanzi su questo argomento saranno scritti domani dai rwandesi stessi perché il dolore, che si esprime attraverso le opere narrative, ha bisogno di essere sublimato. Credo che la sofferenza debba attraversare delle generazioni per trovare una traduzione artistica scritta. Noi abbiamo solamente prodotto una scrittura d'urgenza.

D. In che modo un intellettuale può prevenire questo genere di disastri?

R. Si fa quel che si può. I problemi sono enormi e non si può certo illudersi di ottenere dei risultati nell'immediato. Ma io credo che si debba comunque agire, anche se i risultati appaiono insignificanti.

D. Lei ha affermato che, dopo i suoi interventi sul Rwanda, ha incontrato una sorta di disprezzo per la cultura francese. Da qui, la presa di coscienza di voler tornare alla propria cultura e alla propria lingua materna, il wolof...

R. Sì, ho scritto il romanzo successivo in wolof (e non è stato facile, mi ci sono voluti due anni per passare dall'uso del francese alla mia lingua ritrovata), per due motivi. Uno di tipo culturale e l'altro personale. Quello personale: come ho già detto la mia rabbia era immensa, ogni volta che parlavo del Rwanda mi venivano violente emicranie. Dovevo fermarmi, 'liberarmi 'del Rwanda. Ma non potevo farlo scrivendo in francese. Mi sono chiuso nelle mie radici, nella mia lingua, per ritrovare me stesso, per scampare al trauma che avevo subito, perché quest'esperienza mi ha stravolto l'esistenza. Come diceva Franz Fanon a proposito della guerra di indipendenza algerina: il trauma distrugge il linguaggio. Quello culturale: il ritorno al wolof corrisponde al rifiuto del francese e a una contestazione palese della politica di Mitterand e della Francia in Africa. Oggi diffido del francese e della sua cultura. Questo malgrado i premi letterari che ho ricevuto grazie a questa lingua. Anzi, dopo il Rwanda, mi sono reso conto che mi avevano preso per un coglione. Tutti quei premi erano come le medaglie che i colonialisti francesi distribuivano ai nostri antenati per metterli in riga. Senza il Rwanda avrei continuato a funzionare nel sistema, a frequentare i salotti buoni della classe intellettuale francese. Da quando mi sono reso conto che, col Rwanda, la denominazione neocolonialismo può diventare una complicità di genocidio, ho paura per i miei figli. Non sono più lo stesso, non si può restare indifferenti al Rwanda. Se non si cambia dopo il genocidio, significa non essere degni di appartenere all'umanità. Dopo quanto ho detto potrebbe sembrare una contraddizione il fatto che "Murambi" sia scritto in francese. Ma c'è una spiegazione: innanzitutto era un romanzo d'urgenza, che doveva agire immediatamente su un pubblico vasto e vario, che solo la lingua francese poteva assicurare. Comunque il libro è stato tradotto in wolof ma non ancora pubblicato e sta per essere tradotto in Kiswaili.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 0, Numero 3
March 2004

 

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links