Nonostante io sia molto giovane, la mia vita ha subito cambiamenti radicali.
Quando sono nato, nel 1982, il Kosovo era diverso da quello odierno; gli studenti frequentavano le lezioni con tranquillità e si viveva in modo libero.
Proprio in quegli anni la situazione cambiò notevolmente: iniziarono i primi conflitti fra i politici, che portarono disordini nel paese. In seguito, si passò alla reazione di ribellione da parte dei cittadini che si sentivano presi in giro dalle persone cui avevano dato fiducia. Passavano gli anni e mi accadeva spesso di sentire in televisione notizie di scontri tra le squadre di parlamentari e di civili che manifestavano.
Abitavo a Giakova in una casa del centro, e dalla mia finestra potevo vedere quelle scene di violenza. In quei giorni era pericoloso uscire, e mio padre non mi permetteva neanche di avvicinarmi alla finestra, perché aveva paura che qualche proiettile "vagante" mi potesse colpire.
Da piccolo non capivo quello che stava succedendo e mi piaceva vedere tutto quel movimento, era una novità. Più tardi cominciai anch'io a rendermi conto che stava accadendo qualcosa di negativo.
Quando andavo a trovare i miei amici, c'era la polizia armata in strada; io avevo un po' paura, ma visto che ero bambino non mi fermavano. A scuola i miei compagni erano Kosovari, ma andavano d'accordo anche con i ragazzi serbi che incontravano per strada.Iniziai a capire molto bene le cose quando avevo tredici anni. All'inizio del terzo anno di scuola media, dopo le vacanze estive, io e i miei compagni trovammo la polizia serba davanti alla scuola. Tutti gli studenti erano fuori: la polizia ci disse che non avremmo più studiato in lingua albanese, e che saremmo andati alla scuola serba. Io non capivo perché non dovevamo più studiare l'albanese, e ritenni ingiusta la decisione della polizia serba.
I ragazzi iniziarono a spingere per entrare: io ero in mezzo, ma quelli davanti furono picchiati. Ci fu confusione per un mese circa, poi iniziammo a trovarci con gli insegnanti per studiare in case private. La mia famiglia aveva due case, e mio padre ne mise una a disposizione per una scuola superiore. Io pensai che mio padre aveva fatto la cosa giusta. Una mattina mio cugino mi venne a chiamare per dirmi di tornare a casa subito, lì mio padre non c'era più: era stato portato via dalla polizia, per la storia riguardante la scuola superiore. Provai a cercarlo insieme ai miei fratelli, ma per due giorni non avemmo sue notizie. Pensavamo di non vederlo più e quando tornò, volevamo festeggiare. ma non potevamo perché la situazione era tesa, così lo abbracciammo soltanto.
Dopo qualche mese fu riaperta la scuola. Però, la situazione non era migliorata, perché era aumentato il numero dei soldati serbi; sembrava che si stessero preparando a una vera guerra.
Per qualche anno la situazione si presentò apparentemente tranquilla: il clima era teso, ma non c'erano scontri armati; spesso pensavo alla condizione in cui io e molti altri ragazzi eravamo costretti a vivere. Più volte mi sono chiesto: "Perché non posso fare una vita normale come tutti quelli della mia età? Perché devo aver paura se decido di andare a ballare con i miei amici? Perché tutta questa violenza?".
Presto la situazione cambiò di nuovo. Il primo vero scontro avvenne nel dicembre del 1998. Durante una delle solite perquisizioni della polizia serba, la famiglia di un comandante dell'UCK (esercito di liberazione del Kosovo) fece resistenza ed iniziò una sparatoria, in cui tutti i membri della famiglia, compresi i bambini, furono uccisi. Per qualche mese il conflitto riguardò solo alcuni villaggi della campagna. Noi sentivamo le notizie attraverso la televisione e le radio kosovare ed avevamo paura.
Qualche giorno dopo, mio fratello più piccolo fu ucciso. Ricordo che quel giorno, come sempre, facemmo colazione insieme, poi ci salutò ed andò a scuola. Alla stazione degli autobus, un'auto blindata serba gli si avvicinò, e lui cercò di scappare, ma l'auto lo inseguì e lo investì. Aveva solo dieci anni e altri furono uccisi in quei giorni.
Una mattina, verso la fine della scuola, il nostro professore di lingua ci annunciò che la guerra aveva ormai raggiunto anche le città. Due ragazzi erano stati scoperti a trasportare delle armi e si erano rifugiati in una scuola come la nostra, e i soldati serbi, per trovarli, uccisero altri studenti. Ci disse anche che la nostra scuola doveva essere chiusa, e ci mandò di corsa a casa, ma mentre parlava piangeva. Vedere un professore piangere mi fece capire la gravità della situazione e avevo paura per la mia vita. Quel giorno andai con mio padre al mercato, per acquistare il maggior numero possibile di provviste, ma c'era rimasto ben poco.
La guerra era ormai cominciata. Io, mio padre e mio fratello entrammo a far parte dell'esercito dell'UCK. Lì ci divisero. Mi insegnarono ad usare le armi, ma poiché ero molto giovane fui assegnato a un posto di guardia in una zona tranquilla. Facevo turni di sei ore e poi mi davano il cambio. All'inizio non avevo paura, perché ancora non sapevo che cos'era la guerra. Purtroppo lo scoprii ben presto, infatti una notte ci fu un attacco dell'esercito serbo e rimanemmo per sette ore sotto il fuoco dei loro carri armati. Noi rispondevamo con pistole e cannoni. Io sparai con un "kalasnikov", ma non ho mai voluto colpire nessuno, preferivo sparare in aria. Vidi morire molte persone, non sapevo dove era finita la mia famiglia e pensavo che sarei morto anch'io. Pensavo, senza trovarlo, al senso di tutto ciò: "Com'era possibile che a un passo dal duemila ci fossero persone che chiudevano le scuole, uccidevano bambini innocenti, violentavano le donne, solo per razzismo nei confronti di un altro gruppo di persone?"
Alla fine degli scontri ero così stanco che mi addormentavo con l'arma in mano: un giorno per sbaglio partì un colpo e rimasi ferito ad una gamba. Fui portato in camion fino al confine del territorio controllato dall'UCK; da lì sulle spalle di un gruppo di soldati attraversai le montagne, fino ad arrivare al confine con l'Albania. Durante quel tragitto vidi migliaia di persone scappare dalla propria terra e centinaia di morti abbandonati lungo la strada. Fui ricoverato per tre settimane in un ospedale militare, e mentre ero lì sul mio letto tra altri feriti di guerra. mi chiedevo: "Perché adesso non sono a scuola a studiare seduto al mio banco?". Non capivo perché i politici avevano scatenato una guerra, facendo morire tantissime persone, tra cui degli innocenti (bambini, donne....), quando invece potevano provare a risolvere con le parole, arrivando a dei compromessi, che potessero andare bene a tutte e due le nazioni (serbi e albanesi). Inoltre, giorno per giorno, pensavo alla mia famiglia, ancora in guerra, e poiché non avevo più notizie, mi domandavo se li avrei più rivisti.
Appena dimesso decisi, con altri due amici, di scappare, perché in Kosovo la guerra continuava e l'Albania era troppo pericolosa. Così dopo un lungo e faticoso viaggio, passando per Valona, abbiamo raggiunto l'Italia. Eravamo in Puglia.
Appena arrivati, fummo schedati dalla polizia italiana e poi portati al centro di accoglienza di San Foca, in provincia di Lecce. Lì ho visto quello che gli italiani hanno fatto per me e per tutti quelli che sono scappati dalla guerra. Ogni giorno arrivavano dei camion, da tutta Italia, carichi di aiuti: vestiti, cibo. Nel centro c'erano dei volontari, che ci aiutavano in qualsiasi momento.
Mi ha colpito molto ciò che è accaduto una notte, in cui arrivarono diversi scafi con profughi, tra cui molti bambini, tutti bagnati e infreddoliti. Appena arrivati, i bambini furono divisi dalle mamme, poi il direttore del centro in cui mi trovavo ha voluto occuparsi personalmente di tutti i bambini, anche di quelli piccolissimi dando loro vestiti asciutti e latte; infine ha portato ognuno dalla propria mamma. Ho apprezzato molto la disponibilità e l'aiuto, sia dei volontari, persone bravissime, sia dei cittadini italiani, che ci facevano avere soprattutto i vestiti e il cibo per vivere.
Rimasi due mesi in quel centro, stavo bene lontano dalla guerra, però mi mancava molto la mia famiglia, di cui non avevo nessuna notizia.
Il direttore di San Foca mi trovò una sistemazione a Ferrara, per studiare e vivere. Qui, a Ferrara, abito all'Opera Don Calabria e vado a scuola all'ITlS. Da quando sono arrivato mi sono trovato bene, i ragazzi mi aiutano in qualsiasi momento e in poco tempo sono diventati tutti miei amici.
La mia famiglia è rimasta in Kosovo e sta bene, io non credo che ci tornerò.
Zecir Zefiri è nato in Kosovo e frequenta l'ITIS a Ferrara
>Racconto tratto dalla raccolta Pagine Colorate
a.c di Francesco Argento e Alberto Meandri