El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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occhiacci di legno

tahar lamri

I banchi azzurri mi guardano. Mi gettano certe occhiate. Io conosco soltanto i banchi color legno, del mio paese, pieni di scritte che non bastavano mai a contenerci tutti. Eravamo in cinquanta, potevamo giocare a spintoni. Qui siamo dodici, tutti in fila ordinati. Chissà se un giorno potrò avere un amico con cui giocare. Sono così pochi i bambini qui. Questi banchi sono azzurri e non ci si può scrivere sopra. Sono lisci. Come tutto qui. Anche la faccia della maestra è liscia, sembra che il tempo non lascia segni né sui banchi né sulle facce. Sarà vero? Mah.

Non si vedono i muri di questa classe, ci sono foto, scritte, disegni, bambole e tante altre diavolerie che non si sa quale è il colore dei muri. Ci sono tante finestre, ma poca luce. Non si sentono gli uccelli cantare. Ogni tanto passa un treno e tutto trema.

Mio padre ieri ha detto: "Cerca di essere bravo, qui si devono fare tanti sacrifici". All'inizio non ho capito bene cosa intendeva dire, credevo che bisognava sacrificare tanti montoni, come quando c'è la festa dell'Aid, per poter andare a scuola. Poi ho capito che in un paese ricco, non si può vivere da poveri. Chissà se devo fare anch'io dei "sacrifici".

Oggi la maestra mi ha detto: "Quando parli alle persone le devi guardare negli occhi", ma a me la nonna ha sempre insegnato di non guardare le persone in faccia: "Solo gli animali si guardano negli occhi" mi diceva. Per aiutarmi a guardare le persone negli occhi, da una settimana si siede a fianco a me Ahmed, anche lui è del mio paese. Quando si è presentato e ha parlato con me nella mia lingua mi è sembrato così strano quel suono che quasi quasi non capivo cosa mi diceva. Mi ha detto "Non ti preoccupare imparerai in fretta l'italiano" ma quando l'ho sentito parlare questa lingua mi sono preoccupato subito, perché io la lingua la conosco nella mia testa e ho capito subito che lui la parla malissimo. Chissà perché non mi mettono vicino un italiano così imparo da lui. Comunque devo impararla in fretta perché la mamma ha bisogno quando deve andare a fare acquisti. Io l'italiano lo so benissimo. Nella mia testa.

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foglio di via

tahar lamri

Sono arrivata qui, nella vostra bellissima città tre anni fa. Con il cuore colmo di speranza. Fu amore a prima vista. Ma in realtà il mio amore risale a tanto tempo fa. A quando i racconti sui vostri paesi sostituirono le favole serali da noi; quando vidi alcuni tornare dai vostri paesi con, sul viso, inconfondibili segni di baci della vostra civiltà, e imparai da loro a coniugare il verbo consumare.

Lo so che non bisogna mai prendere le favole alla lettera, poiché si sa che l'immigrato non è altro che un turista cieco e sordomuto, che non fa che passare come le nuvole nel deserto, e come un assetato che segue un miraggio: ha sempre fretta. Ma io ho creduto nelle favole moderne e anche se con sofferenza sono contenta. Di giorno mi sono inventata sorelle che soffrono come me. Di sera dormo in un vestito tradizionale del mio paese. Così ho trasformato la mia veglia in un sogno e ho vestito i miei sogni con la mia remota realtà. Sono una vera e propria integrata.
Ho finalmente scoperto la mia alchimia: sono una donna! Ammetto: preferivo soffrire da voi come donna piuttosto che essere costretta alla felicità come sorella, madre o moglie.
Con voi ho finalmente capito di essere figlia del mio tempo e, seppur con le lacune che impone la malnutrizione, di essere stata allattata con il latte della modernità. Di non essere né Eva né Maria. Di non appartenere a nessuna religione e neppure ad alcuna nazione che sia.

Ma che sciocca! Sono qui che parlo a ruota libera, senza badare alle buone maniere. Riparo subito e mi presento per l'ultima volta:
Mi chiamo Sawsan, tradotto vuol dire Susanna. Sono nata trent'anni fa, durante la guerra. Vengo dai confini del Sahara. Dalla steppa. Sono nata sotto un cespuglio di alfa o in una grotta. Non importa. Ricordo perfettamente il giorno della mia nascita e l'esclamazione di mio padre: "Ma è una femmina!". Credo di essere una bella donna. Di certo attiro gli sguardi e questo mi basta per rompere il sottile velo dell'indifferenza. A parte questo non conosco altri veli. Credevo che il mio oggi fosse finalmente senza veli.

Tre anni che condivido con voi il vostro pane quotidiano, fatto di dolore e di gioia. Ho imparato a conoscervi e vi amo. Vi amo con le vostre e le mie qualità, vi amo con i vostri e i mie difetti. Senza nessun senso di colpa né riconoscenza. Se odio qualcuno è semplicemente perché i suoi comportamenti si sottraggono alla mia conoscenza. Più di voi amo la vostra libertà! E ancora di più quando mi accorgo che questa libertà è imperfetta. Allora mi ritrovo in voi. Scopro il calore della vostra umanità e mi dico: siamo forse tutti stranieri sulla faccia della terra. Ogni individuo chiuso nella sua complessità e nella sua unica e insondabile realtà. Entusiasta esploravo la vostra vita ogni giorno e quando vi scoprivo alla curva di un gesto, all'angolo di un sentimento oppure nella pallida ombra di una debolezza, del tutto simili a me, piangevo di dolore per tutte le mie sorelle imprigionate da me lasciate là nei loro sette veli. Piangevo come un bambino che rompe un oggetto e si accorge di se stesso: ho imparato a vedere in voi la mia realtà.

Ma oggi sono un po' confusa. Un carabiniere mi ha portato il foglio di via, intimandomi di fare la valigia. L'ho inteso alla lettera e ho cercato dappertutto ma non ho trovato nient'altro che questo sacchetto di plastica. Sopra c'è scritto: "Difendi la natura". Col mio sacchetto devo essere ricondotta alla frontiera. Dopo tutte queste belle parole, ho scoperto di essere un'abusiva.

Ecco volevo dirvi soltanto questo, ma adesso devo lasciarvi. Bussano alla mia porta. Arrivederci e grazie!

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Anno 0, Numero 3
March 2004

 

 

 

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