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villaggio globale

shirin fazel ramzanali

Raymond stava spalmando l’ultimo cucchiaino di marmellata di albicocche sul pane. Masticava lentamente quasi volesse che quel gusto dolce e particolare non finisse mai. Andava matto per la marmellata di albicocche. Un sapore che con gli anni aveva sempre associato a Monika. Ogni estate, Monika meticolosa, passava un intera giornata a preparare la confettura, e riempiva i vasetti. La cucina si riempiva del denso profumo di frutta e zucchero che bollivano lentamente.
Sua moglie era una donna che aveva sempre programmato tutto, le vacanze, la pulizia della caldaia, la spesa, il cambio della biancheria con la nuova stagione, i biglietti di auguri per compleanni e feste ai cugini, l’appuntamento dal dentista, la prenotazione della cena del loro anniversario di matrimonio, sempre al solito ristorante italiano.
Raymond l’amava molto, ma qualche volta avrebbe voluto che improvvisasse, che non fosse così prevedibile e precisa come un orologio. Non si era mai immaginato che le cose potessero precipitare in quel modo. Nel giro di tre mesi la loro vita cambiò, ospedali, esami, ricoveri. Monika non aveva più il tempo di gestire le cose come era abituata. Il tumore era stato fulmineo. Non avevano figli, e sinceramente lei non ne aveva fatto una malattia. Lui non ci pensava e così non ne ha mai avvertito la mancanza.
Per trent’anni sono stati bene insieme. Anche se Raymond aveva sempre voluto fare un viaggio in Africa. Monika aveva paura di volare. Letteralmente terrorizzata di prendere quel mezzo. Una volta da giovani avevano fatto il biglietto Hamburg - Munich, un viaggio breve per vedere se superava l’angoscia e il panico che la prendevano in aeroporto. Purtroppo all’ultimo minuto si rifiutò di salire sull’aereo. I loro viaggi erano sempre in macchina. L’Olanda, la Francia e L’Italia. Il Belpaese era la meta preferita di Monika. Amava il cibo, e il sole italiano. Trascorrevano le loro vacanze sul lago. Ritornavano negli stessi luoghi, sua moglie era felice.
Raymond aveva provato una volta a tentarla con un depliant di vacanze africane, mare, palme, safari in tenda, colazione all’alba con la vista sterminata di elefanti, ma non era riuscito a farle cambiare idea.
Raymond sognava l’Africa da quando era bambino. I racconti di esploratori,e di avventurieri lo avevano sempre affascinato. Ogni tanto faceva capolino nella sua mente il viaggio africano, ma non se lo avrebbe potuto permettere. Negli ultimi anni, con il turismo di massa il sogno africano poteva realizzarsi. Davanti a quel vuoto barattolo di marmellata, Raymond pensava proprio a questo. Si stavano approssimando il Natale e il Capodanno, e non aveva voglia di trascorrerli come aveva fatto l’anno passato. Solo davanti alla televisione o a bere birra con gli amici.
Così decise di partire per l’Africa. Si lasciò consigliare dalla giovane ragazza dell’agenzia viaggi. Era una meta sicura, mare più safari. I loro clienti erano sempre rimasti soddisfatti dell’albergo, il safari di un giorno e mezzo era contenuto nel prezzo, e il sole non sarebbe mancato. Totale giorni di vacanza nove, tutto incluso.
L’aereo decollò da Hamburg in una ventosa e fredda giornata, sul volto dei turisti era stampata l’eccitazione. Man mano che passavano le ore e ci si avvicinava alla meta, la stanchezza prendeva il sopravento, ma la voglia di scendere e di immergersi in quel tepore che gli aspettava metteva un sorriso sul volto.
Ogni tanto captava qualche battuta di gente che sbandierava che era la ventesima volta che tornavano in quel paese. Qualcuno aveva comprato perfino la casa e trascorreva mesi interi.
Raymond si sentiva a disagio in mezzo a quelle persone, lui povero era la prima volta che saliva su un aereo Non aveva paura di volare anche se al decollo aveva stretto troppo forte i braccioli dell’aereo.
Il piccolo aeroporto internazionale cercava a mala pena di smaltire quella marea bianca che si accalcava a prendere le valigie e a dirigersi verso la dogana. Il poliziotto sorrideva mentre apriva i bagagli a mano domandando:
“Jambo, avete amici, avete portato regali per i vostri amici?”
Intanto con la mano frugava con la speranza di imbattersi in qualche oggetto nuovo di zecca, piccolo stereo, camicie nuove, scarpe. Una scusa per poi farsi dare qualche mazzetta.
I turisti più scaltri intanto per non farsi aprire il bagaglio avevano tenuto pronto una banconota che allungavano con un sorriso al doganiere.
Raymond ignaro di tutto questo rispondeva con un sorriso poco convincente: “First time me Africa!”.
Lo sguardo scaltro dell’africano si illuminava di un sorriso e segnava con un gessetto i bagagli. Il caldo lambiva il corpo di Raymond, e la sua pelle si arrossava di grosse chiazze rosse, mentre aloni di sudore disegnavano la sua camicia di misto cotone.
Il pullman carico di turisti attraversava lo spazio dell’aerostazione per portarli finalmente in albergo. Intorno verdi prati, palme e qualche acacia, coronati da un cielo limpido e blu.
Man mano che si avvicinavano alla città la curiosità di Raymond saliva, non aveva idea di quanto fossero distanti dall’albergo.
La periferia con la fila i di chioschi di bancarelle sbrindellate in legno dove erano appesi, camicie, pantaloni, gonne, vestiti, magliette con le scritte più disparate DG, Nike e tutte le firme di cui andavano matti gli occidentali, ora erano a uso e consumo degli africani. Tutta roba doc, usata dai bianchi per poi essere imballata, venduta e spedita a finire il loro ultimo ciclo di vita, tra i poveri della terra.
Pile di copertoni usati accatastate davanti alle officine, ferro vecchio, bracieri artigianali che servivano a cucinare con il carbone, pentole e padelle in ferro riciclato in bella mostra per essere venduti, e una valanga di utensili in plastica colorata davano una pennellata di allegria a quel paesaggio di miseria.
Raymond muto afferrava con lo sguardo ogni centimetro di quel mondo nuovo. In centro il traffico si faceva sempre più caotico, lo strombazzare delle macchine entrava perfino dai vetri chiusi del pullman. Le persone camminavano a passo spedito, altri erano fermi ai marciapiedi. Notò l’insegna tipica del Hard Rock Café e il campanello di turisti seduti ai tavolini. Mamme con in braccio bambini dai capelli gialli chiedevano l’elemosina alle macchine fermi ai semafori. Dall’alto del pullman si vedevano solo gli occhi rivoltati di queste povere donne. Ragazzi belli giovani e sorridenti che avevano in mano la birra locale, o la Coca Cola spuntavano da grossi cartelloni. Tabelloni che pubblicizzavano sigarette di tutte le marche Marlboro, 555, erano ad ogni angolo. E la marca del preservativo scritto sotto alle note musicali ricordava che non poteva mancare a nessun party.
Finalmente lasciarono il centro e dopo qualche chilometro arrivarono al battello. Lunghe file di macchine aspettavano di salire, una volta caricato i mezzi, la voce metallica dal microfono annunciava che era la volta dei pedoni. La gente correva per salire sul battello, alcuni avevano la bicicletta e la spingevano a mano.
E così il vecchio rottame attraversò il piccolo tratto di mare, una decina di minuti. Il battello attracca e vomita il suo contenuto. Prima le automobili molte di marca giapponesi, i SUV ultimo modello , Land Rover, pullman di varie compagnie, e poi gli umani. Anche qui la stessa scena della periferia, bancarelle di vestiti usati, di cibo, di vasellame, di carbone, di contenitori di plastica, ragazzi che vendevano il giornale, le strade con grosse buche, e tante case in muratura con i tetti in lamiera, si mostrano agli occhi di Raymond. Man mano che acquistavano velocità il paesaggio cambiava, file di palme, alberi di manghi e piccole capanne si intravvedevano nascoste dalla vegetazione, Raymond tirò un sospiro di sollievo, il depliant che aveva sfogliato prendeva vita. Ogni tanto si notava una piccola costruzione in muratura dipinta come un pacchetto di sigarette. Non credeva i suoi occhi e poi le casette-sigarette si moltiplicarono. Era la pubblicità del bush, con i suoi punti vendita.
Il cancello dell’albergo si aprì con il segnale dei guardiani e il pullman entrò nel paradiso.
Raymond si trovava in un altro pianeta. Nella hall gentili impiegati in divisa accoglievano i nuovi arrivi, per poi essere scortati da cordiali portieri nelle camere con aria condizionata.
Raymond voleva godersi questa vacanza, aveva cancellato: il freddo pungente, la pioggia insistente che delle volte non scivola mai dai parabrezza, l’umidità che gli faceva scricchiolare il ginocchio, l’odore di città.
Al bar chiese al cameriere:
“You looki looki elefant, lion?”
“Nein” gli fece in perfetto tedesco il cameriere che finì con raccontargli che lui non era mai stato ad un safari. Troppo caro per gli africani, e che qui sulla costa erano rimaste solo le scimmie. Infatti l’albergo ne era pieno, se lasciavi la finestra del balcone aperta, rischiavi di trovarti quelle impertinenti che venivano a frugare nel cesto della frutta oppure rubavano i biscotti.
Raymond aveva qualche giorno per godersi il mare, prima del safari. Molti turisti si rosolavano vicino alle belle piscine, altri su un’altura di cui si godeva la vista del mare. A distanza gruppi di donne che cercavano di esporre le loro mercanzie, stoffe dai disegni variopinti, ora andava di moda il volto sorridente di Barack Obama di cui andavano orgogliose.
Raymond voleva camminare, scese in spiaggia ed evitò con cura la piccola calca di persone che cercava di vendergli qualcosa. A passo spedito affondava i sandali nella sabbia. Notò i tre ragazzi che giocavano a piedi nudi con una pallone sgonfio. Due gli corsero incontro, mentre il terzo continuava a rincorrere la palla. Raymond li sorpassò, i due ragazzini tornarono indietro. Avevano capito che quello non aveva voglia di attaccare bottone.
L’uomo voleva riempire i suoi pori del sole e della salsedine e tuffarsi in quell’oceano che cancellavano ogni stanchezza dalla sua mente. Si sentiva finalmente libero da ogni pensiero, nuotava, si fermava stava a galla per osservava l’orizzonte, era tornato bambino.
Quella natura lo accoglieva e lo cullava, Raymond a pieni polmoni grido: Sono in Africa!
Non si ricorda per quanto tempo rimase in acqua, al ritorno notò che dei tre ragazzini, solo uno era rimasto in spiaggia. Quello che giocava con la palla, Raymond si avvicina e cerca di prendergli il pallone con il piede. Non ci riesce il bambino è veloce, e gli manda un sorriso di sfida. Quel sorriso dai dentoni bianchi e gli occhi sorridenti toccano il cuore di Raymond. Lui che non aveva mai pensato o parlato con bambini. Si presenta:
“Me Raymond” dice l’uomo color gambero.
“Juma. My name is Juma” risponde il bambino.
Raymond voleva fare un regalo a Juma, un paio di scarpe, glielo propone così si incamminano verso il shopping center.
Juma con la pianta dei piedi indurita camminava veloce sull’asfalto, il suo nuovo amico lo seguiva da dietro. Il caldo si faceva sentire. Lungo la strada bancarelle di artigiani che vendevano statuine in legno. Alla vista del turista cercavano di richiamare la sua attenzione con saluti, fischi sorrisi ma l’uomo sembrava sordo. Seguiva la piccola sagoma davanti a lui.
Juma non era mai entrato nei negozi del shopping center, sapeva che era sempre pieno di bianchi. Raymond si ferma davanti a un negozio con la scritta tedesca, al bancone un altro tedesco il proprietario lo saluta. Raymond e Juma entrano. Il bambino si guarda intorno: statuine di legno, cartoline, francobolli, cappelli safari style, quadri dipinti, zucche dipinte, sandali in cuoio con le perline, giornali in tedesco e in inglese,il piccolo bazar traboccava di roba. Tutto quello non interessava Juma, lui cercava le scarpe. Raymond chiede al proprietario qualcosa in tedesco, l’omone si incammina verso uno scaffale, si abbassa e tira fuori dei sandaletti in plastica. Si rialza e tutto sorridente li porge al cliente. Raymond prende i sandaletti scarta la busta in cui erano avvolti e si volta verso bambino.
Juma alza lo sguardo, è in mezzo a queste due montagne di carne che lo guardano sorridenti. Il ragazzino non ci poteva credere, lui che per tutto il tragitto aveva sognato le scarpe per giocare a pallone, grida:
“I want ADIDAS!”
Le guance dei due uomini tremano dallo stupore e il loro sorriso si spegne.

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Anno 7, Numero 30
December 2010

 

 

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