Questa silloge poetica segna una svolta rispetto alle raccolte precedenti e forse rappresenta l’inizio di un nuovo ciclo poetico di Anna Belozorovitch contrassegnato anche da una più consapevole maturità formale. Fino a questo momento la poetessa di origine russa aveva sperimentato forme, modalità poetiche, aveva inseguito temi, alcuni più consistenti, altri meno, aveva ricercato il bandolo della sua ispirazione poetica, il senso della sua scrittura. Nelle sillogi precedenti un tema era sembrato emergere ed essere un punto fermo della sua indagine: Il tema dell’attesa e in special modo in Essere pioggia era sembrato il filo conduttore della manifestazione di poesia della poetessa di origine russa e lo stesso titolo dalla silloge che stiamo analizzando fa pensare che al tema dell’attesa Belozorovitch sia ancora legata. In effetti non poche poesie di questa raccolta si rifanno al tema dell’attesa. Ma che senso ha l’attesa in queste poesie? “Si chiude gli occhi per nascondere il rossore, si ha imbarazzo ora dell’aspettativa”. Questa dimensione spirituale ormai procura rossore, imbarazzo, non è più un sentimento denso di gioiosa aspettativa, legata all’essere giovane, alla spensieratezza. E’ un’attesa che si pensa non possa avvenire. “Sta nell’attesa di un finale, così come si crede/ che avverrà. E nel frattempo vivere”. Sembra quasi una disillusione, perché rimane solo il presente, il vivere, l’azione di ogni giorno. Ancora più significativi sono i versi che seguono: “Non ti capita mai? Lo hai lì, porti dentro/ e aspetti il momento perfetto./ Non arriva”. La mancanza dell’attesa si trasforma in una sua nostalgia , resa più evidente dalla consapevolezza della propria debolezza o manchevolezza: “E io non so nemmeno/ che animale sono./Non ho capito ancora/ quale porta apro/Ci fu l’attesa / di illuminare l’ora/ di scartare il dono.” E ancora “E il silenzio non mi fu estraneità/ solo il rallentare dopo la tensione dell’attesa”. Più significativi ancora di qualcosa che era importante e che si è perso sono i seguenti versi: “Chiusa per sempre la mia stanza/ quella in cui giocavo da bambina/ in cui attendevo il mio futuro/ che continuavo a chiamare mia”. E’ l’uso del tempo imperfetto che determina il ricordo e la nostalgia di un sentimento che non può più arrivare e che quando si ripresenta non dà più il senso di commozione e di felicità che una volta portava: “Ora tu non ci sei e come ti aspetto/ aspettano solo i cani sulle tombe”. E’ una nostalgia che va riconosciuta e ricompensata “lasciando che il tempo accarezzi/ le pelli pallide che hanno atteso tanto”. L’attesa è ormai qualcosa che si è posseduto, che si è avuto, lo si sa riconoscerlo senza più conquistarlo: “Sguardi fermi e affamati/ curiosi; un pensiero/ accomuna questi attimi/ sospesi, trattenuti:/riconoscono l’odore / di gioiosa e folle attesa”. Infine l’attesa che una volta era un sentimento positivo, di apertura, di luce per un futuro, per un avvenimento che avrebbe colmato e riempito, ora acquista una sensazione di cupezza e di minaccia. “Io…/uno dei tanti suoi tramonti”. Sembra che una vita gioiosa sia passata, il giorno è trascorso e ora la percezione di sé è un tramonto, che può essere bello per i suoi colori, ma che preannuncia l’oscurità della notte. “E aspettare che la vita accada è una nube piena,/ ferma, nera, proprio dietro la montagna, / tra cupole e pini impigliata, pronta”. La poesia finale definisce inequivocabilmente ogni residuo di attesa o di futuro. “Allora il destino è un modo per raccontarsi il passato/ visto in sequenza dal punto che ci ha fermati/…/ Allora il vissuto, il cammino fatto,/ è una forma di futuro”.
Ma passiamo a considerare altri aspetti della silloge che è incorniciata da due poesie, la prima Il passo, ove si esprime l’incertezza della vita in un succedersi, il cui senso e significato è ignoto: “Cosa importa. Il cammino/ è lungo il bordo del telo./ Il giorno è mettere a fuoco,/la notte è sovrappensiero ”, l’ultima in cui si mette a fuoco il legame fra presente e passato e come il futuro non sia altro che una rilettura del passato “Allora il vissuto, il cammino fatto,/è una forma di futuro:/si manifesta nell’osservazione che ci attende”. Il testo si divide in 5 parti, ciascuna delle quali tende ad esprimere un tema, una forma e struttura di poesia. L’attesa è il motivo dominante della prima sezione; l’anno con i suoi mesi e le sue stagioni è il motivo della seconda sezione, non è un caso che siano proprio 12 composizioni come i mesi dell’anno; la terza parte è centrata sull’incontro, rapporto con la persona amata; la quarta sezione presenta una tematica incerta e più difficile da definire. E’ intitolata “sasso” e forse sta ad indicare la durezza della vita. L’ultima sezione esprime il senso del continuo riavviarsi di tutte le cose, del senso dell’incertezza dato dalla non stabilità fisica dell’esistenza: “Ruota ogni cosa: solo noi/crediamo ancora d’avanzare,/da qui a oltre, prima a dopo./La verità dovrà ruotare.” Sono nove poesie, chissà se tante quante il presunto numero dei pianeti del sistema solare.
Ciò che è importante notare è l’attenzione al piano formale posta dalla poetessa. Ad esempio la quinta sezione presenta poesie organizzate tutte da tre quartine a versificazione ottonaria. Ma più che su queste geometrie interne che denotano un’attenzione particolare non solo alla singola composizione ma la volontà di organizzazione a respiro più ampio e complesso, è necessario soffermarsi sul tono delle composizioni poetiche, sulle metafore che vengono proposte. Ormai non siamo più davanti ad una proesia, cioè una poesia che si struttura a partire da una organizzazione prosaica, ormai il grumo poetico è più intenso, duraturo e con toni sempre più elevati ove la polisemicità è ormai acquista e generosamente distribuita.
E’ possibile, a partire da questi elementi, individuare una cifra poetica a questa silloge? Se l’attesa, come dimostrato in precedenza non pare più l’aspetto dominante e caratteristico, è possibile rintracciare qualcos’altro che le renda corpo unitario e significativo? Credo che si possa parlare della poesia di Anna Belozorovitch come di un rinnovato barocco o di un postmanierismo tutto del XXI secolo. Sappiamo che ogni grande mutamento storico porta come conseguenza a periodi di incertezza anche sul piano dell’arte e dei suoi canoni poetici. Si è parlato moltissimo dell’epoca appena passata di un postmodernismo e di conseguente minimalismo in arte, in qualche modo da assimilare ad un manierismo del XX-XXI secolo. Postmodernismo che poneva al centro il relativismo di ogni conoscenza e assegnava all’io il primato della configurazione di ogni verità e di ogni struttura morale. E’ solo dell’anno scorso il dibattito su un ritorno al realismo e sulla opportunità del superamento di ogni concezione che metta da parte la possibilità di una conoscenza oggettiva e reale. Ma il confronto non ha portato a risultati perchè gli studiosi, seppure schierati su posizioni diverse tuttavia mostrano incertezze e cedimenti alle posizione avverse per cui si può dire che né il postmodernismo si possa dire chiuso definitivamente, né l’avvio di un nuovo realismo sembra aver assunto posizioni stabilizzate. E d’altra parte se l’azione di un pontefice come Benedetto XVI tendeva al ripristino del primato della verità in contrasto ai vari relativismi, l’arrivo di papa Francesco I, con lo spostamento della sua azione pastorale al senso della povertà e all’attenzione alle debolezze umane sembra aver dato ancora vigore a concezioni che pongano tra parentesi ogni verità precostituita e si propongano l’azione pratica come strumento di riorganizzazione e superamento delle debolezze socio-politiche ed economiche oltre che conoscitive oggi dominanti nella vita di tutti gruppi politici e di tutti i popoli. E’ del tutto chiaro che di fronte a queste situazioni culturali anche l’arte e specialmente la letteratura ne risenta e cerchi nuove strade più rispondenti e più incisive. Anna Belozorovitch sta rispondendo a suo modo con questo suo gusto poetico a queste nuove aspettative dell’arte dove la molteplicità dei simboli e delle metafore si accompagna però ad una ricerca del bello e dell’estetico come principio rinnovatore. Questa caratteristica della poesia non è tipica solo della poetessa di origine russa, ma lo è anche di altri giovani poeti che fanno del bel verso, del simbolo, della musicalità del verso la loro caratteristica fondamentale di creazione poetica. Nelle pagine di el-ghibli ha già fatto capolino qualcuno di questi giovani poeti, mi riferisco ad esempio a Loris Ferri, Martina Chiari, Paolo Tommasi, ma penso che questa silloge poetica ne sia un archetipo e possa segnare una svolta del gusto poetico e artistico futuro, quando ci si sarà stancati delle autobiografie e delle narrazioni noir e/o consimili.
Ma vediamo in che modo possiamo parlare di un neobarocco nella poesia di Anna Belozorovitch. Si prenda la poesia “Tu eri altro con il tuo profilo”. Tutta la poesia gioca sulla diversità della percezione a seconda che l’altro (l’amato) si presenti di profilo o di fronte. “Girarsi è stato. Semplice: ruotare /il collo e accendere lo sguardo,/su di me. Girato eri altro”. Tuttavia in questa semplicità di tema, la poesia non scade mai a banalità perché la tensione poetica è elevata. Oppure si veda questa immagine strana inusitata, bizzarra, sotto molteplici aspetti: “Io sono nella polvere tra le tue pieghe/ depositatasi anno dopo anno/ con le radici fini aggrappata/avvolta alle tue lunghe braccia.” Inoltre “Il corpo altrui è un mobile/ disposto male nell’arredamento”. Si veda ancora questa poesia (La riporto intera perché significativa anche della cerebrosità dell’immagine ricavata): “E’ quando mi muovo portando ai piedi le nuove ciabatte usate da poco/ nel buio profondo di tanti volumi sospesi in un coro d’attesa vibrante/ che sento il conforto dello spostamento adeguato alle forme dei solidi intorno, che vedo il percorso fluire istintivo anche nero su nero in un solo respiro, /Capisco, allora, di essere a casa: è un corpo in più che la mente indossa” .
Un'ultima considerazione su strutture di versi che compaiono di tanto in tanto nella poesia di Anna Belozorovitch. Si prenda il seguente verso: “E un cielo nuvolo di mare”. Non è chi non senta un richiamo a Pascoli. Tale tipo di sintagma si trova anche in altre raccolte, qua e là, e ci si chiede se La poetessa di origine russa non abbia fatto lezione di Pascoli. Sappiamo che nella fanciullezza ha studiato in Italia, ma abbia fatto tesoro della sua lezione poetica tanto da rimodellarla in alcuni tratti?