FNM, stazione Bovisa Politecnico, piazza Alfieri
L’aria era livida e fresca quella mattina di settembre. Il cielo aveva uno strano odore, sapeva di cannella e garofano. Lidia Maria con passo spedito era diretta alla stazione della Bovisa. Era da poco sbucata da via don Giuseppe Andreoli in piazza Emilio Alfieri. Un percorso abituale, quasi obbligato. Eppure c’era qualcosa che non la convinceva. Avvicinandosi alla stazione un rumore sordo e intermittente, come un battito di cuore ferito, la accompagnava nella sua veloce andatura. Si impose di non farci caso. Non voleva fare tardi. La riunione di lavoro in pieno centro - a due passi dal Duomo - era fissata per le 8.30. Un orario decisamente antelucano per quel tipo di riunione. Ma tant’era: il nuovo Direttore di Sistema passava per un lumbard d’altri tempi: tutto casa e (,?) lavoro e precisione svizzera.
Mohamed non aveva dormito bene per tutta la breve notte. Quando l’orologio al quarzo giapponese strillò le quattro del mattino, era già sveglio. Ma si alzò lo stesso, a fatica. Lo angustiava una sensazione sottile che non riusciva ad affiorare alla coscienza. Era qualcosa di diverso dalla paura e dal terrore che aveva provato più volte sulla vecchia barcaccia, poco più di un gommone, con cui era giunto a Lampedusa.
Nella stanza a fianco dello stesso appartamento dell’ultimo piano di via Carlo Imbonati, Darien dormiva ancora profondamente. L’edificio era una vecchia, maestosa casa di ringhiera, costruita ai primi del novecento. L’appartamento - un sottotetto riadattato ad abitazione di fortuna - era alquanto fatiscente, ma Mohamed e Darien non si lamentavano. L’affitto, che dividevano con due ragazzi senegalesi, era abbordabile e permetteva di non dilapidare il salario che guadagnavano come muratori. Qualcosa rimaneva da spedire alle famiglie lontane.
Darien dormiva beato, quando, alle quattro e dieci, anche la sua sveglia squillò come un gallo scannato. Si piccava di essere più rapido di quel vecchio arabo che l’aveva fatto assumere alla sua stessa Ditta di costruzioni.
Sotto il portone li aspettava Khaled col furgoncino della Ditta. Khaled era l’uomo tuttofare. Aveva la patente da prima di partire dall’Afghanistan. Il suo era stato uno dei tanti viaggi della disperazione in fuga dalla guerra e dai talebani.
Quella mattina il viaggio per arrivare al cantiere era breve e non prevedeva tappe intermedie. Khaled era prudente. Aveva paura degli italiani, la cui guida gli sembrava troppo nervosa. Percorse via Carlo Imbonati fino al primo semaforo. Svoltò a sinistra in via Giulio Cesare Abba, proseguì per piazza Dergano, dove - dopo due rotonde che solo la follia urbanistica nutrita dalla ‘ndrangheta aveva potuto partorire - imboccò via Giuseppe Tartini. Al semaforo di via Filippo Baldinucci si accorse che non poteva svoltare a sinistra, quindi proseguì fino allo stop successivo, dove finalmente poté imboccare via Giuseppe Candiani. Proprio all’inizio c’era una strettoia, per cui Khaled fu costretto a rallentare l’andatura. Ma i due passeggeri non si lamentarono, erano in anticipo. Avrebbero iniziato il turno di lavoro alle 4.30. Sbucarono in piazza Alfieri mentre il cielo plumbeo odor cannella e garofano principiava a schiudersi al nuovo giorno.
Cantiere chiuso, ma Khaled aveva le chiavi. La Sirio iniziava ai piedi della scalinata che portava alla stazione. Adesso non c’era più. La storica fabbrica di glicerina e saponi profumati era stata buttata giù in pochi mesi. Svettava ancora la Ciminiera. Tutti i vecchi abitanti dello storico quartiere si erano mobilitati per difenderla.
- Via quel rudere - urlavano a squarciagola i costruttori.
- La Ciminiera non si tocca - rispondevano per le rime i cittadini della Bovisa e della vicina Dergano. La Ciminiera era il loro sangue, la loro vita, la loro storia. E anche se la fabbrica era chiusa ormai da anni, la Ciminiera no, non poteva né doveva essere buttata giù. Petizioni in Consiglio di Zona, interpellanze al Consiglio Comunale, articoli nei giornalini di quartiere, tutto l’associazionismo mobilitato in sua difesa.
Mohamed, turbato, ora sapeva perché. Darien, tranquillo anzi euforico, sapeva perché. Khaled li salutò per continuare a fare il tassista di operai - tutti stranieri - e portarli ai vari cantieri della grande Ditta.
La spianata era quasi completa; sembrava un enorme campo di calcio a una leggera profondità rispetto al ciglio della strada. Svettava sola la Ciminiera. Darien cominciò a salire su quella strana gru gigantesca, che sovrastava la Ciminiera di almeno cinque metri. In cima c’era una piccola cabina. A terra la gru aveva invece una comoda grande cabina di guida. Mohamed col groppo alla gola iniziò le operazioni della complessa macchina. Darien nulla poteva fare se prima tutte le operazioni della cabina di comando non fossero terminate. Non era solo per la sicurezza, ma semplicemente perché il generatore forniva la corrente continua alla minuscola cabina, dove lui avrebbe lavorato. Dalla sommità della gru, sopra Darien di almeno un metro, il braccio si allargava e diventava una specie di grosso uncino da cui partiva una fune d’acciaio dal diametro impressionante. La fune finiva in una sfera anch’essa d’acciaio. Acciaio speciale, lavorato per essere cinque volte più duro di quello normale.
- E sbrigati vecchio lumacone - urlò Darien dalla cima. La sua voce esplose nell’aria silenziosa del mattino.
- Disgraziato, aspetta almeno che il motore sia a regime. Che fretta hai? - gli rispose di rimando Mohamed in un italiano molto corretto, ma con una pronuncia che tradiva le sue origini arabe.
Darien azionò le leve, la cabinetta cominciò a ruotare. Si posizionò a perpendicolo con la Ciminiera e il gancio cominciò a ondeggiare. Quando la sfera raggiunse una certa velocità, Darien colpì con un primo colpo il vertice della Ciminiera.
Quel colpo materializzò in Mohamed tutta l’angoscia della notte: quella gru gli ricordava i minareti della sua terra. Distruggerla era una profanazione. Controllava i comandi con rabbia. Maledisse il giorno in cui trovò lavoro in quella Ditta. Avrebbe voluto scappare, lasciare quel matto di Darien da solo. Ma fu un attimo. Non poteva certo abbandonarlo alla sua furia distruttrice.
Darien era in preda a un delirio di onnipotenza. Gli sembrava di essere un eroe invincibile contro cui nulla potevano i nemici. Era dentro un videogioco, in cui i comandi rispondevano a meraviglia, con precisione e potenza di fuoco inimmaginabile. Darien, giovane albanese giunto in Italia con la Vlora, si era subito dato da fare. Aveva studiato fino alle superiori, sapeva l’italiano meglio di molti lumbard, poteva continuare gli studi all’università, non era mica stupido, tutt’altro; ma preferiva il lavoro manuale. Il suo diploma di perito meccanico gli permetteva di fare lavori di alta specializzazione. Guidare quel mostro con precisione non era da tutti. Per esempio, Mohamed non ne era capace. Si trovava meglio nella grande consolle giù da basso, dove i comandi si traducevano in lenti movimenti della macchina che non avevano bisogno di una particolare precisione.
Il lavoro di distruzione procedeva con lena, ma la torre era dura da addomesticare. Avevano fatto male i calcoli quelli della Ditta. Con quella macchina e con Darien ai comandi erano sicuri di finire l’opera di demolizione entro le 7.00, prima che iniziasse il flusso ininterrotto di pendolari che dal nord scendevano come lanzichenecchi a occupare tutti i posti di prestigio del quartiere. Ma avevano fatto i conti senza la forte fibra della Ciminiera. Ogni colpo era una ferita, ma pochi calcinacci caracollavano a terra. Vanificata la speranza di finire in fretta, il direttore dei lavori aveva permesso ai due operai di fare una pausa, quando i primi pendolari cominciavano a scendere dalla stazione.
Quando Lidia Maria fu a metà del piazzale, rallentò il passo e, senza volerlo, lo sincronizzò con i colpi che dalle orecchie passavano al cervello. Alzò lo sguardo e quasi urlò dalla sorpresa. Fu allora che collegò lo strano movimento del pendolo al rumore sordo. Vide con orrore il potente maglio scagliarsi contro la Ciminiera. La Ciminiera che da tanti anni faceva parte del suo orizzonte. Affrettò il passo, corse addirittura fino a metà della scalinata. Si fermò e urlò.
- Maledetti, cosa state facendo? - ma nessuno le diede retta. Non la gente che scendeva dalla scalinata, non gli operai e tecnici che erano dentro il cantiere.
- Vigliacchi - disse ormai con una flebile voce solo mentale - avete iniziato i lavori di notte, perché alla luce del sole vi sareste vergognati.
Cosa faccio adesso. Vado alla riunione o cosa. Impiegò solo un attimo e senza darsi risposta girò sui tacchi, rifece la strada appena percorsa e si catapultò a casa, in via Giudice Donadoni. Prese la sua piccola Olimpus e un rullino e tornò velocemente sui suoi passi, ma più tranquilla. Sapeva ormai che la Ciminiera avrebbe opposto fiera resistenza prima di cedere. Iniziò a scattare già dall’angolo di via Andreoli, una foto via l’altra. Non le interessava certo la foto d’arte in quel momento ma solo testimoniare quella distruzione insensata. La fotografò da tutte le parti, col maglio in tutte le posizioni. Le immagini avrebbero addirittura potuto essere viste in sequenza, come nella scatola magica, a ricrearne il movimento, come una vera macchina da presa. Finì il rullino in pochi minuti. Ripartì con l’altro. Scattò e scattò e lo consumò rapidamente. Alla fine esausta decise di andare alla sua riunione. Arrivò con notevole ritardo, seguì distrattamente i vari interventi, ma la sua mente era alla Ciminiera. Come previsto, la riunione – dopo una breve pausa pranzo – un panino e una birra al bar d’angolo – proseguì nel pomeriggio. Finì alle cinque. Finalmente riprese la strada di casa. Metrò fino in Cadorna, poi trenino fino alla Bovisa. Aveva il cuore in gola. Non sapeva a che punto fossero arrivati i lavori di demolizione. Con piacevole sorpresa vide che ancora più di metà della Ciminiera era in piedi. Si ricordò di avere in tasca la piccola Olimpus. Ritornò indietro verso la stazione. Il giornalaio era ancora aperto e aveva i rullini. Ne comprò due da 36 pose e con calma sostituì il primo. Scattò le foto con estrema lentezza. Ormai non aveva più fretta. La tragedia si sarebbe consumata, ineluttabilmente. Andò a casa con il fermo proposito di tornare l’indomani per finire anche il secondo rullino. Ma non le fu possibile. La mattina dopo, il cielo sapeva ancora di cannella e garofano, ma la Ciminiera non c’era più. Il cielo piangeva una pioggia sottile.