El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Il tempo di un semaforo

Cristina Ferloni

Piazzale Lugano

Faccio una vita “piena di impegni”: esco la mattina presto (beh, presto…) e torno la sera tardi, dopo essermi macinata 13-14 ore tra lavoro e varie ed eventuali (meno male che esistono le varie ed eventuali).
Di conseguenza, sono sempre di corsa, e perennemente in ritardo. Ma il sabato pomeriggio si apre uno squarcio nella tirannide dell’orologio, squarcio che diventa sempre più grande man mano che avanzo nel weekend, fino a raggiungere la dimensione di una voragine la domenica sera.
È proprio quando lo squarcio inizia a formarsi che la incontro, verso le tre del pomeriggio, in piazzale Lugano.
Di solito arrivo sparata a 100 all’ora, fatalmente inseguita dallo squalo di turno che non tollera, proprio non ce la fa, che alla comparsa del cartello “stop limite 70 km/ora”, quando finisce il Ponte della Ghisolfa, non si scatti immediatamente a una velocità da Formula Uno. Ma io non gliela dò vinta: il mezzo non può competere, certo, ma proprio per questo sarò la paladina delle utilitarie usate del ’95. La mia è una missione, e pur di non obbedire all’ordine “Stai al tuo posto! Largo ai potenti!”, ormai persa nel vortice della paranoia del mio dialogo interiore, sono disposta a uccidere. Ma in fondo al serpentone della svolta a sinistra, piccola e indifesa, con in mano la sua spazzolina per pulire i vetri, c’è lei: una ragazza rom, vestita come vorrei vestirmi io se avessi fantasia, infreddolita d’inverno e grondante sudore d’estate.
La prima volta che l’ho avvistata ho pensato squallidamente di darmi alla fuga, cambiando magari corsia all’ultimo momento, oppure facendo astutamente in modo di sgommare allo scattare del giallo. Mentre pensavo questo, in un turbinio di sensi di colpa e di strofe che mi giravano in testa (“i <>Polacchi non morirono subito, e inginocchiati agli ultimi semafori…”), mi sono ritrovata fatalmente ferma al semaforo, e in una frazione di secondo la mia voce ha deciso di dire un “ciao” anziché un “no, grazie”.

Da allora, ogni sabato pomeriggio o quasi, un tassello in più si aggiunge alla nostra conoscenza reciproca:
- Dove abiti?
- E tu che lavoro fai?
- Quanto tempo! Che fine hai fatto?
- Aspetto un bambino!
- Che bello! E come va la gravidanza?
- Bene, e tu hai bambini?
- No… Sai che ho cambiato lavoro?
- Sai dove posso fare una visita medica?
- Ripasso tra mezz’ora e ti lascio il volantino di un’associazione!
- Ma… e la pancia?
- È nata la bimba!
- Che bello! Ti vedo benissimo… Come stai?
È stato strano per me, che non ho certo il dono della sintesi, costringere gli eventi più significativi delle nostre vite nei 30 secondi di un semaforo, a volte qualche secondo in più ma a prezzo di strombazzamenti feroci, di cui ho imparato a ridere anziché lanciare violentissime maledizioni agli strombazzatori: se ne ride lei, posso riderne anch’io…

L’ho incontrata ancora, nel parcheggio del Penny di piazza Schiavone, “uno dei pochi luoghi dove si può bere la birra calda”: ero appena uscita da un blitz, quando mi sento chiamare: “Ciao, bella!”. Aveva dovuto rinunciare al semaforo per colpa della pioggia, e finalmente conoscevo la bimba! Siamo rientrate insieme nel Penny, ma questa volta il guardiano ha preteso che gli lasciassi il sacchetto in custodia: ce l’avevo anche prima… Cominciamo bene, ho pensato, e intanto mi sentivo addosso tutti gli sguardi che la mia insignificante persona non aveva mai attratto in nessun blitz da supermercato.
Ma sono stati gentili con lei, contro ogni mia previsione, non so se perché aveva una neonata in braccio, o al fianco me, che ormai chiamano tutti, ahimè, “signora”, oppure perché gli abitanti di Bovisa sono solo un po’ meno peggio degli altri. Chissà.

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(ISSN 1824-6648)

Il quartiere dei destini incrociati: corso di scrittura creativa

A cura di remo cacciatori e mihai butcovan

 

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Anno 9, Numero 37
September 2012

 

 

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