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Presentazione de l'Occidentaliasta alla Claudiana

Abdelmalek Smari

Presentazione alla Claudiana – intervento di AbdelMalik Smari

Il foulard di Nabokov o Dissezione di un testo

La scrittura di questo romanzo (L’occidentalista) è stata per me una specie di sfida. D’altronde cos'è la vita se non è la sfida alla morte, questa bestia cieca che passa e ripassa in un campo prezioso per falciarne indifferentemente le vecchie radici ed i teneri germogli.
Infatti importa poco a questa bestia se le sue vittime sono di tenera età o già stanche e che cercano di aggrapparsi ancora alla vita e ai colori dei vivaci tramonti.
Cerchiamo di sfidare la morte, non solo quella fisica ma anche quella morale, quando le forze del nichilismo e della disperazione ci assalgono da ogni parte ed il loro veleno ci trapassa l’anima da parte a parte ad ogni istante; quando sono pane quotidiano nostro l’ingiustizia, la miseria, l’ignoranza, la mediocrità, l’odio, le guerre, l’oppressione del gruppo e del numero, lo spietato passar dei giorni... L’arte è a questo punto di vista una forma di resistenza e di sfida a questa morte multiforme. Scrivere "L’occidentalista" è stata per me un’avventura piena di sfide che ho superato con fatica, dubbi ed estrema ginnastica mentale per evitare di cadere nella trappola dei luoghi comuni e ripetere gli stessi cliché che mi ero accinto a combattere.
L’ho fatto con pazienza, speranza e costanza tali che - ad atto compiuto - apparivo come un cavaliere pietoso e patetico.
Allora mi sono fermato a considerare l’opera nella sua integralità e mi sono messo a ridere. L’ironia è il nostro patetico quando non riesce più a convincerci.
L’ironia è la prima reazione difensiva di fronte all’angoscia che l’estraneità della novità innesca in noi. Un esempio che trovo eclatante e molto originale è ciò che ho chiamato il “foulard di Nabokov”. Questo autore usa un’espressione che non lascia indifferente: descrivendo il movimento di un foulard nel collo di un personaggio che sbandiera al vento, lo paragona alla coda di un cane che prima del padrone riconosce l’amico!
Essa, l’ironia, consiste nell’assembrare i contrari facendo svaporare lo scandalo in bollicine d’indulgenza e di piacevoli sorrisi.
Così, alla luce di questa scoperta, ho stanato un aspetto ludico dell’atto di scrivere e di colpo ogni particolare delle vicende divenne leggero, ironico. Con l’ironia si uccide il patetico e la noia. Ma la prima di tutte le sfide fu quella di non disperare davanti alla sentenza di chi detiene per un momento il tuo destino.
L’antenato de "L’occidentalista" era una piccola raccolta di brevi racconti che avevo riunito sotto il titolo "I ragazzi dell’Atlantide".
Forte dell’esperienza e del non-indifferente successo di Fiamme in paradiso ed essendo legato con un contratto a “il Saggiatore”, ho pensato di pubblicare quei racconti.
E così avevo proposto a questa casa editrice la cosiddetta raccolta che subito essa rifiutò, col motivo che il pubblico preferisse un romanzo che un mosaico di storielle poco serie, a meno che esse vengano da qualche fonte sicura, voce già messa alla prova.
Rinunciai allora alla mia impresa.
E meno male perché sarei andato avanti accontentandomi di poco. Le difficoltà non sono sempre tutto ostacolo; anzi, spesso ci portano a perfezionare le nostre opere.
Allora decisi di trasformare la raccolta in un romanzo. Ovviamente, tra la versione originale e la versione finale c’è un abisso di differenze.
È stato una specie di lavoro faraonico, nel senso proprio dell’espressione: l’unificazione del territorio finora spezzettato, di quel mosaico di brevi racconti, della gente disparata che li popolava, della lingua, del destino, del senso di vita che aggregavano questa gente.
Ora quella gente è omogenea, coesa, solidale, dispone di un territorio, di una bandiera, di una lingua comune; gestita da una unica amministrazione, osserva la stessa religione e gli stessi canoni morali; ubbidisce ad un unico faraone, adora un unico dio.
Non era il caso di andare a cercare un romanzo buttando via il frutto di mesi di lavoro, di fatiche e di speranze.
Poiché poi quei racconti erano scritti più o meno nello stesso periodo e quindi richiesti da più o meno le stesse esigenze e lo stesso stato d’animo, ho pensato allora che già in sé e così come erano essi possedevano una specie di unità organica tra di loro.
Adesso che ci penso, mentre li scrivevo, notai che un racconto attirava l’altro. La spiegazione ne è che alla fine del racconto mi accorgevo che avevo ancora delle cose da dire. Mettevo quindi in cantiere uno nuovo e così nacque la raccolta.
Quando giunse il momento di romanzarli, mi sono trovato di fronte ad un progetto pappabile di romanzo che avevo arricchito di seguito.
Unità organica e coerenza non significano affatto monolitismo. Il romanzo è ricco di spunti e di interrogativi sull’umana sorte.
È un tentativo d’esplorare la natura dell’uomo che è la stessa anche se essa si nasconde sotto le vesti della ricchezza materiale o della povertà, dello snobismo o della modestia, dell’intelligenza o della menzogna, della mistificazione o dell’alienazione, dell’impegno o dell’indifferenza, dell’angoscia e delle paure o della gioia, del dolore o della salute, della giovinezza o dell’età matura, degli uomini verdi come dice Edmond Morris o degli angeli…
Perché l’uomo oscilla tra gli splendori dell’intelligenza e della poesia da una parte e dall’altra parte le infinite miserie della mediocrità intellettuale, della disperazione, dell’alienazione e della crudeltà. E non è per questo che egli sia buono o cattivo.
Lui è e riflette ciò che è.
L’altra sfida è stata di tentare un’innovazione stilistica al livello della forma. Questo me lo ha permesso la concezione a spirale del tempo che è diversa da quella lineare del mio primo romanzo “Fiamme in paradiso.
Se si guarda bene, non c’è ne “L’occidentalista” un prima o un poi netti: perché il tempo adoperato è un tempo consumato. Le faccende non accadono, sono già lì a guardarci come il nastro di un film che una volta registrato, esso si da’ tutto insieme e d’emblée.
La fine e l’inizio, il prima e il dopo, sono già presenti in partenza. Sono il nostro intervento e il nostro movimento attraverso i sentieri obbligati delle vicende della storia, che ci restituiscono artificialmente il tempo, che fu suo, del film, ma che non c’è più.
Questo è stato possibile nel caso de “L’occidentalista” grazie alla co-presenza della vita e della morte, dove ognuna di queste due iper-entità - tra cui la nostra esistenza è combattuta tramite la paura e la speranza - tende a mettere da parte le sue peculiari caratteristiche per splendere al meglio, alla grande, interamente.
È come guardare da lontano due oggetti di colori contrastanti: uno di gioia e l’altro di cupa tristezza. Tutti e due gli oggetti cancellano, ognuno, il proprio colore e si vestono di un velo azzurrino, tipico delle lontananze ispiratrici di nostalgie e di inquietudini.
Uno può rilevare una contraddizione in questo mio discorso sul tempo e mi può dire: “Tu neghi l’esistenza del tempo, ma non ti imbarazzi di usarne il concetto!” In realtà non si tratta di negarlo ma di darne una nuova concezione, a mio parere, piena di promesse. È un modo insolito di presentare le cose solite; e allora tutto sembra nuovo ed un “prima” si crea e un “dopo” anche e una sacralità lorenziana e un impulso sveviano e una magia nabokoviana e insomma tutto un universo psichico si costituisce e prende forma.
Così si creano nuove prospettive e nuove vedute, e così anche l’insetto prende il sopravvento sull’entomologo e si mette ad osservarlo, e ci fa ridere, e ci inquieta e ci fa riflettere.
Un’altra sfida che questa volta “L’occidentalista” condivide con “Fiamme in paradiso” e, anzi, sembra continuarne il compito è la demistificazione dei cliché e dei sentieri epistemologici strabattuti come il cosiddetto integralismo islamico, le guerre tribali, la condizione della donna e la povertà in Africa, e il falso pietismo...
Tutti sono argomenti-feticci - grandi habitué di una certa classe di intellettuali presunti impegnati, dei talk-show televisivi e delle grandi testate… tutti al servizio dell’impero i turno.
Questa demistificazione tende a mettere in crisi le vociferazioni di questi servi guardiani dei templi che confondono l’impegno sociale con il "caritas urget".
Gente che monopolizza l’impegno guardando in un’unica direzione cioè: verso il terzo mondo e la fila delle sue miserie. Miserie che questi falsi impegnati hanno scelto di scrutare (ma possono veramente scegliere?) e che hanno disposto selettivamente e in modo tale da mascherare la responsabilità loro e quella dei loro padroni nel generare la miseria del mondo.
Uno fra gli strumenti della demistificazione è l’analisi critica dei fatti sociali che vengono spesso - per economia o per pigrizia mentale - presentati come dei blocchi monolitici di cosiddette verità stabilite ed indiscutibili.
È un libro quindi di messa in crisi per eccellenza: niente che sia umano in quelle sue vicende, sfugga al suo sguardo: dalla religione all’arte, alle perversioni delle ong, alla storia, all’intimità dell’uomo e persino a questa sua brama d’essere non solo dio ma l’unico e il più alto dio.
Questo strumento ci permette di creare delle brecce e crepature in questi mastodonti epistemologici negativi per entrarci dentro, vedere cosa c’è davvero e illuminarne gli interni bui.
Così le realtà vengono rese alle loro essenzialità di giustizia, di ragionevolezza, di libertà e di dignità. Disintegrare questi clichè e pregiudizi, queste false cittadelle dell’ignoranza, si basa praticamente sulla conoscenza personale, non per sentito-dire ma approfondimento, dei particolari da cui si traggono nuove nozioni e strumenti di conoscenza e di intelligenza del mondo.
Frugare dentro un dato personaggio, nella sua memoria, nelle sue paure, nei suoi modi di intelligereil mondo e di condursi nei suoi confronti o interagire con esso, è questa l’una fra le maggiore sfide di questo romanzo.
Ogni personaggio, scopriamo, è un universo in sé. Legarlo o fonderlo in qualche tribù significa annientare non solo le sue verità ma anche la sua esistenza stessa.
Così scopriamo anche che lo snobismo borghese attraversa gli strati più precari della società; che il cosiddetto antisemitismo degli arabi o musulmani non è così scontato; che un dato ethos di un dato gruppo o popolo non corrisponde alla realtà dei fatti…
Questi sono alcuni esempi, fra tanti altri, di demistificazioni e di abbattimento dei cliché e luoghi comuni.
Ho cercato di fare del mio romanzo un poema, ed era in sé un’altra grande sfida. La poesia non è solo bellezza di forma, di immagini e di stile ma è anche e soprattutto eleganza delle idee e trascendenza dei valori che queste idee veicolano; è con queste idee eleganti che si possono combattere la bruttezza della mediocrità, della menzogna, dell’ignoranza, del disprezzo...
La poesia non è solo rime e armonia dei ritmi e di sonorità ma è ogni discorso dignitoso, giusto, solidale, sincero, fatto di amore e di indulgenza, di lucidità, d’impegno, d’intelligenza...
Ma serve la poesia? Sì e come! Essa è come un laboratorio dove si sperimentano nuove prospettive per il futuro e nuovi modi di dire, di sentire, di agire e di riflettere prima, durante e dopo tutto questo ethos per trovare un modo di adeguare e far adottare queste scoperte alla vita quotidiana per stimolarla, scuoterla e risvegliarla dalla noia, per rinnovarla, iniettandole gioia e dolcezza, nostalgia e speranza, senso e… poesia, appunto.
La poesia forse non serve per chi vuol fare i soldi, ma serve sicuramente ad insegnarci come creare la vita, perché i destini sono sempre inediti cioè sempre e necessariamente creati.
La poesia ci permette di anticiparli anche per farne dei migliori destini.
La poesia è anticipare la vita che non c’è ancora; è afferrare quella che si svanisce o tende a scomparire; è evocare quella che già non c’è più … così essa crea il tempo.
Ah, il tempo, la bella e crudele illusione dove l’essere può godere di una storia, di una distesa e della sensazione di vivere un’esistenza dilatata con tanto di senso di volontà, ma che è anche precaria e inesorabilmente evanescente...
Creare il tempo è stata una grandissima rivoluzione umana, prima e più grande ancora di quella del fuoco o dell’agricoltura.
È stata una rivoluzione sine (alcun’altra rivoluzione) non, senza la quale il processo di hominizzazione non sarebbe stato possibile; l’uomo è uomo perché ha una coscienza. E la creazione del tempo non era che l’espressione di questa coscienza.
Dopo la sessualità, l’uomo si annoiò e tra altre cose creò il tempo. Tempo che gli permetterà d’estrapolarsi dall’anonimato e dalla confusione simbiotica per uscire verso la luce dell’esistenza o, se vogliamo, verso l’auto-contemplazione l’auto-creazione.
Il tempo permette uno spasso negli eventi in corso o quelli compiuti o quelli appena sfiorati dalla nostra immaginazione.
Creare il tempo è creare l’umanità dell’uomo strappandolo dalla confusione, dalla non coscienza, dalla piatta esistenza animale. La poesia è tutto questo ed è anche questa fantasia di cui parla Bartolo Cattafi:
fantasia è estrarre dal contesto
la figura più piatta
aspettare che pian piano alzi la cresta.

La poesia, per parafrasare ancora Bartolo Cattafi
comunque è fatt(a) come la lava e il mare
di elementi che esistono in natura.

La nostra quotidianità e la nostra sensibilità sono la materia prima della nostra arte e della nostra poesia. Oggigiorno è un po’ difficile ignorare la presenza degli immigrati a Milano.
Questa presenza irruenta, dilagante secondo certe lingue, non può non invadere l’universo della scrittura dove lo sfondo e la cornice è Milano.
Ma non per questo dobbiamo chiamare uno scritto di questo tipo un testo sull’immigrato o l’immigrazione.
Questa non può costituire un genere letterario; sarebbe assurdo come è assurdo dire che esiste un genere letterario dei fumatori, un altro di quelli che vanno in piscina, un altro di quelli che hanno gli occhi verdi, un altro di chi ha cinque fratelli ecc…!!
Da questo punto di vista il mio è un romanzo che cerca di afferrare il destino di una persona alle prese con i propri desideri e la repressione/oppressione del numero e del gruppo.
E poi l’immigrato non è uno sfollato di guerre e di miseria, ma è mosso solamente dal lusso di proteggere la propria libertà, trovarle un altro spazio dove può realizzarsi man mano che essa cresce - e cresce sicuramente – per fare dell’individuo grezzo, un uomo di libertà.
Questo uomo si rende poi subito conto che nemmeno quel nuovo spazio gli sia sufficiente e va avanti così alla conquista di altri spazi, persino quelli virtuali, purché gli permettano di sentirsi appagato di tanto in tanto.
Questo uomo sarà sempre in una specie di territori degli altri. A casa sua tende ad essere altrove! È altrove? Tende ad essere a casa sua!
Così, egli è sempre altrove e, quando visita l’uno o gli altri territori non può non portare con sé dei regali di senso e di poesia. In due parole: è un esiliato attivo, necessariamente attivo.
Assomiglia ad un elettrone libero o, meglio, ad uno spermatozoo temerario e generoso che piega le distanze immani e sfida le fatiche del perpetuo viaggio e dell’agitazione che lo percuote ininterrottamente per portare il seme di una nuova vita, di una nuova speranza, in una terra spesso acida, ostile ma sempre e necessariamente assetata.
Questo uomo vive un perpetuo balletto di scambi in cui, chi da’ riceve interesse e principale e si trova così ancor più ricco e arricchito.
Basta solo consultare i grandi movimenti delle persone celebre (Didone di Cartagine, Abderrahman il fondatore della dinastia omeiyade in Spagna) e dei popoli attraverso la storia.
Spostarsi è la metafora stessa della vita.
Non dico che l’esilio non possa essere un tema di predilezione per la poesia, ma solo quando esso è voluto e ricercato, cioè quando esso è frutto di libertà e di scelta lucida e premeditata. A volte uso una data parola, la stessa, in dei contesti diversi per vedere quali e quanti significati può portare.
La lingua è anch’essa un tabù che lo scrittore sfida, questa sfida si rivela più acutamente quando si ha a che fare con la lingua degli altri, ma sottile in quella madre.
Voglio sollecitarla ma ho sempre paura di sgualcirla. Ma devo usarla, devo conoscerla, devo superarla, devo contaminarla necessariamente se devo arricchirla.
Se faccio questa dissezione al corpo del mio romanzo è che so che l’entità dell’opera è ormai corpo costituito, autonomo, intero e con un’identità sua, propria.

24-02-09

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(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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