El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Presentazione di Fiamme in Paradiso

Abdelmalek Smari

Il ramo dei fannulloni
Sono un uomo di libro
leggo il fior dei libri
se mi mancano gli amici
ho come amico il libro
che mi racconta storie
belle belle belle.

Fu questa la poesia che ripetevo quando seppi che dovevo affrontare il mondo sconosciuto della scuola. Me la ripetevo a memoria per sfidarla e scongiurare la sua arroganza che intimidisce I bambini e li fa piangere d’incubi e di paura. L’idea di scrivere, di diventare uno scrittore, mi era venuta appena imparai a leggere. Alunno della terza elementare, già non mi accontentavo più di aspettare che il maestro m’insegnasse le “banalità” che insegnava agli altri. Correvo sempre più in avanti. Volevo sempre sapere cosa c’era dietro la pagina a cui eravamo arrivati col maestro.
Ad un’età in cui la maggior parte dei compagni di classe non arrivavano nemmeno a ripetere correttamente una frase letta dal maestro, io potevo già leggere facilmente non solo ciò che era scritto in grossi caratteri, ma anche ciò che era scritto in quelli piccoli. Non solo potevo leggere velocemente, ma capivo già di cosa si trattasse.
A quest’età precoce, scoprii il mondo meraviglioso delle favole, delle poesie, dei racconti e delle storie affascinanti. Forse in quella stessa età invidiavo già i maghi costruttori di quel mondo meraviglioso. Persino la morte di uno zio non m’impediva di piangere e di fare un casino per andare a vedere un film al cinema. Mia mamma non voleva darmi i soldi, “perché la famiglia dovrebbe essere in lutto” mi spiegò. Però, disperata davanti ai miei pianti e alle mie urla, mi mandò dai vicini: nessuno di loro accettò di prestarmi 20 centesimi…
Quanto era grande il mio orgoglio quando mi resi conto che ormai avevo superato l’onniscienza di mio padre sfidandolo e mettendolo in scacco, quando potei per la prima volta correggere la sua ignoranza! Tuttavia, il mio entusiasmo non tardò a scontrarsi violentemente contro la solitudine a cui ormai dovevo fare fronte da solo: i francesi hanno lasciato in Algeria un vuoto nella vita degli algerini, li hanno annientati proprio. Mi ricordo che un giorno avevo bisogno di una spiegazione per una difficoltà che avevo incontrato nel fare un compito. A chi dovevo chiedere un aiuto se tutto il villaggio era analfabeta? Davanti alla mia disperazione, mia madre – che continuava, poverina di lei, a credere ancora nell’onniscienza di mio padre - mi pressava di andare a chiederglielo. Ma lui, ancora un’altra volta, confermò la sua morte e per sempre.
Un giorno – ero in terza elementare - un mio vicino, di cinque anni più grande di me, mi propose un libro in francese. Voleva andare al cinema, ma non aveva i soldi. Per fortuna io ne avevo e dovevo appunto andarvi anch’io, ma comprai il libro, rinunciando al cinema
. In quel tempo sapevo leggere in francese, ma mi era ancora impossibile capire cosa leggevo in quella lingua. Perciò lo misi da parte. Due o tre anni più tardi, se la mia memoria è esatta, un amico, che eccelleva in composizione soprattutto, mi rendeva difficile la vita. Era il mio traguardo. Volevo sempre, se non superarlo, almeno essere uguale a lui. L’imitavo nel ricercare immagini, metafore e belle espressioni, ma mai lo plagiai. A che pro l’avrei plagiato? I miei risultati scolastici nella lingua araba, terreno di combattimento per me d’esito sicuro, mi provavano che anch’io ero capace di creare parecchie di queste belle espressioni e con successo.
Mi ricordo di una sua immagine del sole. Lo chiamava “Aarus ennahar” la sposa del giorno. Non so da quale acqua l’abbia pescato. In quinta elementare mi proposi di leggere finalmente il libro. Non ce la feci e lo rimisi un’altra volta da parte. In quel momento un maestro ci aveva dato come compito, per le vacanze di primavera, di trascrivere l’attività giornaliera di quei 15 giorni di riposo. Per fare ciò, preparai un quaderno nuovo e cominciai a scrivere. In tutta la mia vita non mi sono mai applicato ferocemente, corpo e anima, a un lavoro scolastico come a quello.
Rientrato dalle vacanze, notai con stupore e delusione che il maestro aveva dimenticato di chiederci di mostrare il compito. Non rinunciai a farglielo ricordare, assumendo il rischio di passare per un lecchino agli occhi dei compagni. Il maestro mi rispose freddamente: “Ah! L’hai fatto?” poi, indirizzandosi verso gli altri: “Chi ha fatto il compito?” Nessuno, tranne me, l’aveva fatto. Un po’ più tardi, in seconda media, ebbi un’altra esperienza non meno stimolante: scrissi una specie di saggio, molto conciso. Era talmente bello, talmente intelligente e talmente profondo che l’insegnante (era poeta e aveva tradotto alcune tragedie di V. Hugo) non arrivava a credere che ne fossi io l’autore. Dopo averlo letto a tutti gli amici, mi chiese gentilmente di lasciarglielo. Sulla scia di questo successo, provai a leggere “Le soulier de sapin”, il famoso libro in attesa. Niente; non ci capivo ancora nulla. Fui deluso ma non scoraggiato. Tuttavia, se non avevo continuato a scrivere e a produrre ad un’età precoce, come promettevano la mia passione ed il mio “talento”, era perché la fiamma della candela che portavo nel mio cuore non resisteva alla violenza dei venti di scoraggiamento che soffiavano in giro nella mia vita. Intanto la mia passione per la lettura aumentava di giorno in giorno. Però, fino alla seconda superiore, leggevo solo in arabo. Nel frattempo, riuscii a leggere il libro prigioniero del mio cassetto di cartaccia. Era l’eccezione in francese.
Ho sempre sognato che sarebbe venuto un giorno in cui anche io avrei fatto parte della stirpe degli scrittori, dei poeti, dai saggisti. Sognavo di creare anche io delle belle parole e delle metafore solari come facevano i romantici libanesi. Fino alla maturità ero sempre il primo nella lingua e letteratura araba, nonostante il disprezzo che alcuni insegnanti avevano per la letteratura. C’era uno che la chiamava la branche des faignants, il ramo dei fannulloni! Dall’entusiasmo alla delusione, e dalla delusione all’entusiasmo, trascorrevo la mia vita di senso e di sensibilità, come diceva Jane Austin. Destino crudele che avevo poi lasciato in eredità al tragico Karim, come aveva avvertito Taddeo Raffaele, quando mi disse che il mio protagonista assomigliava agli eroi di Pasternack. Un giorno, scoprii il disprezzo che la mia insegnante di francese aveva per gli arabizzati. Un’altra delusione.
Questo atteggiamento da parte dell’insegnante, invece di portarmi a snobbare lei ed il suo francese, mi portò con determinazione ad approfondire la mia conoscenza in lingua francese. Impegno che mi rapì una decina di anni dalla mia vita. Ero costretto a trascurare la lingua araba. Del resto, che cosa potevo ricavare da una lingua morta? Una lingua che non serviva nemmeno per corteggiare le donne o scrivere delle lettere d’amore? Ma sotto sotto continuavo a coltivarla. Così riuscii ad ingannare i cretini vigili della francofonia e a commettere un adulterio dopo l’altro.
La grammatica araba era per me una specie di matematica; la trovavo bella, astratta, vasta infinita e che richiedeva tanta attenzione e grandi capacità di analisi e di estrapolazione. Ogni volta che riuscivo a decifrarne un mistero entravo in una specie di orgasmo. In essa trovavo un mare immenso che non era stato ancora esplorato. Leggevo sempre per “possedere” questo mare. La lettura era per me il governale e la stella. In quell’epoca conobbi un giovane studente che è diventato poi mio amico. Era un filosofo già fatto.
Fu lui ad iniziarmi alla relatività delle cose e dei valori della vita. Mi aprì il cuore e la mente al comunismo nel suo volto umano e critico soprattutto verso le stupidità e la mediocrità dell’uomo. Mi esortava a leggere tutto ed in qualsiasi lingua, perché “l’uomo è l’insieme di tutte le teorie conosciute e non”, mi diceva. Con lui, come guida, conobbi tante cose sui vari aspetti della vita culturale e soprattutto sulla filosofia esistenziale. Era per me ciò che Voltaire era per la Francia. Ah, l’università! Questa fase della vita tanto cara a un mio insegnante di storia! Confesso che, quanto a me, l’università non mi ha ispirato e non m’ispira ancora oggi nessuna nostalgia, se non per quell’amico maestro. Senza di lui, io avrei trascorso quella fase in uno stato di noia e di assenza continue. Un giorno arrivai ad un punto di maturazione psicologica ed intellettuale tale che tutto ciò che prima era per me conosciuto, familiare, certo, accettato e naturale diventò misterioso, incerto e disprezzato, se non veniva spiegato e giustificato. Così arrivai a dubitare della vita e – il colmo di tutto - dell’esistenza di Dio.
Fu così che arrivai a capire il significato profondo delle domande inquietanti e pressanti di Elia Abu Madi (un poeta libanese) nella sua poesia (Misteri)
: Sono arrivato, non so da dove sono venuto
Ma ho visto un sentiero innanzi e ho camminato.

Nella corrente di questa gran messa in questione della vita e di Dio, posi anche la questione della mia identità. Sono arabo? Sono berbero? Come faccio a saperlo? Pensai ai parenti anziani che erano ancora in vita. Avevo 22-23 anni. In quel momento cominciai a pensare sul serio di scrivere una storia sull’origine della mia famiglia. “Una storia – dicevo a me stesso - che diventerà una testimonianza del nostro passaggio sul cammino della vita”. Le peripezie degli studi all’università mi hanno distratto dal proseguire questo progetto. Lo trovavo di un’ambizione folle e smisurata per i miei modesti mezzi. Siccome studiavo psicologia e siccome ero un timido, combattuto tra i sobbalzi delle varie correnti d’apertura ad alta tensione, cominciai a mettere in questione me stesso. Per resistere e trovarmi un sentiero in quel buio, ascoltavo un maestro (Freud); mi sottoposi allora ad un’autoanalisi lunga e faticosa. Trascrivevo i miei sogni per interpretarli. Poi, avendo avvertito che i sogni non bastavano per rendere conto della mia vita e illuminare gli angoli scuri della mia psiche, già tormentata da mille paradossi e problemi dell’esistenza - a cui si aggiunse la sindrome ipocondriaca degli studenti di medicina -, estesi la mia autoanalisi alla vita della vigilia.
Trascrivevo, selezionandoli, i comportamenti che mi causavano di più disagi, incubi, dolori ed altre incomprensioni e querele. Le mie letture m’insegnarono che i sogni e le poche fantasticherie del giorno non bastavano da soli a rivelare la psicologia dell’uomo. Dovrebbe esserci anche il prodotto della mente (arte e cultura). Così, mi misi una volta per tutte alla caccia di tutte le opere che trattavano di questi prodotti dello spirito come li chiamava Paul Valery. La scoperta del surrealismo con Breton mi confermò l’idea che la vita dei sogni e le varie attività della veglia non fossero estranee le une alle altre, ma costituivano una specie di vasi comunicanti, una specie di ponte di Dalì.
Leggevo e facevo dei riassunti e delle sintesi. Cercavo di applicare i risultati al mio caso personale per interpretarlo dopo. Frequentavo le mostre di pittura ed i teatri e soprattutto polemizzavo con tutti e su tutto. Un giorno ebbi un’illuminazione: la maniera più adatta per capire come funziona l’intelletto è di farlo funzionare ed osservarlo in opera. Così arrivai alla necessità di scrivere. Ma prima dovevo superare due problemi: con quale lingua scrivere? Per chi scrivere? Conoscevo bene le due lingue, l’arabo e il francese. Almeno credevo che fosse così e lo credo tuttora. Perché il rapporto tra lo scrittore e la lingua è il rapporto che un ricco ha con la propria ricchezza. Lo scrittore non deve per forza conoscere ogni angolo ed ogni particolare della lingua, ma deve conoscere in fondo il linguaggio del suo romanzo, del suo spettacolo o della sua sceneggiatura. Ciò vuol dire che l’opera non deve soffrire a causa della mancanza di parole e delle espressioni adeguate e necessarie. All’occorrenza lo scrittore è costretto ad inventarne, e la lingua originale, di partenza, se ne troverà arricchita. Ma non deve mai concepire un’opera che vada aldilà delle sue conoscenze. È in questo senso che possedevo entrambe le due lingue, come dicevo.
Il mio problema non era questo, ma avevo l’imbarazzo della scelta. Questo era lo scandalo: da una parte, se scrivo in arabo, sarò un cittadino fedele al mio paese e rispettoso della sua anima storica e mitica. Dall’altra parte, scrivere in francese, significa garantirmi un pubblico “importante” e seguire una lingua “moderna”, ma significa anche essere un traditore, perché è la lingua del colonizzatore, un esiliato nel proprio paese. Ma io volevo scappare a queste due maledizioni. Non volevo essere tacciato di retrogrado né di medievale. Non volevo nemmeno essere scambiato per un figlio di Francia (di puttana?), per un bastardo senza autenticità. Per quanto riguarda la lingua, il dilemma si sciolse quasi magicamente; non potevo aspettare più di tanto soffrendo atrocemente. Un giorno decisi di scrivere in arabo. Col tempo, mi resi conto che a volte un tema si presentava alla mia mente in arabo, a volte in francese. Ma per chi dovrei scrivere? Questo era il mio secondo problema. Sembra banale, ma per me era molto difficile da risolvere. Dove si va a pescare un pubblico in un paese in cui gli intellettuali vengono repressi e torturati (una volta la televisione algerina ha fatto vedere un poliziotto – senza alcun grado - mentre stava picchiando un venerabile pensatore algerino che partecipava ad un sit-in) per l’unico reato di manifestare un’opinione diversa e sicuramente più sincera e più sensata?
Dove si va a pescare un pubblico in un paese in cui l’anteprima di uno spettacolo (si immagini un Gassman algerino) non susciti la curiosità di nessuno tranne quella di qualche amico del regista o degli attori? Ero quindi pronto a scrivere prima ancora che mi ci fossi messo effettivamente e con determinazione. Ma perché ho dovuto aspettare e ritardare? Cercavo un pubblico. Si può obiettare: avresti dovuto prima scrivere, poi cercare un pubblico. Ma questo è possibile soltanto nel caso di uno scrittore affermato. Per un principiante ci vuole prima il pubblico che faccia la domanda, che ordini. Per gli scrittori di una volta, i re, i principi o qualche ricco commerciante erano il loro pubblico. Per altri scrittori, un essere caro (una donna per Steinbeck) o un amico. Per me era Amel. Il suo nome vuol dire speranza. Era una mia collega. Le facevo il filo.
Era lei che mi aveva ispirato i miei primi scritti ed era lei sola, dopo di me, ad averli letti: non sapeva quale grande servizio mi aveva reso quando mi incoraggiava e m’incitava a scrivere. Allora esplose in me un fiume sempre in crescita di poesie e dei racconti. Le promisi che un giorno le avrei reso omaggio, se fossi riuscito a fare qualcosa sul serio: l’amante di Karim le ha preso in prestito il nome per immortalarla. Certo, il romanzo l’ha un po’ trascurata, ma ciò non impedisce al suo nome di durare finché durerà la vita del romanzo. “Fiamme in paradiso” nacque nella mia testa un giorno, mentre accompagnavo Taddeo Raffaele, il mio insegnante d’italiano, a casa sua.
Parlavamo di letteratura, di politica, di storia dei nostri paesi rispettivi. Sia lui, sia io, eravamo assetati di conoscerci attraverso la conoscenza delle nostre due culture. Mi ricordo che un giorno mi propose di leggermi lui la bibbia ed io il corano. Abbiamo anche provato lui ad insegnarmi il latino ed io l’arabo. Gli facevo delle domande sull’Italia, la sua lingua, la sua storia, i suoi costumi. Mi rispondeva e mi faceva le stesse domande sull’Algeria, il mondo arabo, l’islam. Dopodiché, facevamo dei paragoni per capire meglio le specificità e le particolarità dell’una e dell’altra cultura. Era trascorso un anno dopo il mio arrivo. Lui mi aveva già messo al corrente delle attività della Tenda e della nuova cultura multietnica che l’Italia stava sperimentando allora. Confesso che, fino all’inizio del secondo anno della mia vita milanese, non ero ancora in grado di capire un granché della lingua italiana, soprattutto quando veniva parlata. A volte avevo l’impressione che Raffaele mi nascondesse le parole dietro la sua barba! “Avresti dovuto provare con quelli che non avevano la barba”, vi sento dire. Ma chi poteva avere l’indulgenza di parlare ad un muro?
Invece riuscivo a capire quando leggevo. Quando Raffaele mi vide tornato l’anno successivo per continuare lo studio della lingua, mi parlò per la prima volta della narrativa nascente. L’idea mi piacque. Però, per partecipare mi vedevo lontano. Ma questa difficoltà non m’impedì di azzardare:
- Anch’io sto scrivendo un diario sulla mia esperienza di immigrato.
- In quale lingua, mi disse, lo stai scrivendo?
- In arabo, risposi un po’ risentito di averlo deluso.
- Peccato! Noi abbiamo avuto degli scrittori stranieri che hanno scritto qualcosa, ma sono sempre delle opere scritte a quattro mani. Sarebbe bello se tu presentassi qualcosa direttamente in italiano.
- Vedremo, gli diedi per unica risposta.
Il discorso finì qua.
Confesso anche che la sollecitazione di Raffaele ha risvegliato in me un vecchio mostro tremendo; come se la maledizione di conoscere due lingue non bastasse! Bisognava aggiungerci una terza! Ma subito mi sono tranquillizzato: ormai possedevo l’antidoto per ogni mostro. Allora decisi di raddoppiare gli sforzi per apprendere il più velocemente possibile la nuova lingua e in modo sufficiente, affinché riuscissi ad esprimermi abbastanza in italiano. Il diario come opera letteraria non mi soddisfaceva. Esso è utile certamente, perché è una specie di laboratorio per lo scrittore. Però, è anche qualcosa di crudo, insulso, rozzo come l’erba delle steppe e poi è scomodo per l’autore stesso e per gli altri. Il diario ci fa posare nudi. È spietato. È crudele. Volevo risparmiare a me e agli amici i rutti puzzolenti dovuti alla nausea di dover inghiottire mille sofferenze al giorno.
Ma quel “vedremo” che avevo detto a Raffaele, per me, era una promessa. Quindi dovevo onorarla. E poi avevo informato nel frattempo altri due insegnati miei (Carla e Franco). Era impossibile per il mio orgoglio fare retromarcia. Mi misi a scrivere quindi. Nel momento di creazione, le idee sono come il fumo della sigaretta nell’aria aperta. Il vento del tempo, questo lupo ladro, le dissiperà se non vengono subito imbottigliate. Inventai una storia. La mia conoscenza dell’arabo mi permetteva di non lasciare tanto spazio tra l’idea nella mia testa e l’atto di fissarla per sempre su un foglio.
La scrissi quindi in arabo per impedire al tempo di fregarmi. La versione in arabo era una specie di appunti. Infatti, non sentii nessun ostacolo durante la scrittura. Tutto scorreva come l’inchiostro nero sul foglio bianco. Questa facilità m’incoraggiava a continuare a scrivere e a pensare intensamente a come architettare la trama di fondo e a quale linguaggio dovevo ricorrere. Prima ancora di finire la storia in arabo, incominciai a tradurla. Quando arrivò l’estate del 1994, una ventina di pagine erano quasi pronte. La preoccupazione che il libro non potesse assomigliare a un romanzo, o che non piacesse al pubblico, non mi dava tregua.
Eravamo nell’ottobre del 1994. La scuola era appena riaperta. Praticamente, ogni sera andavo da Raffaele per dettargli e spiegargli i nuovi brani tradotti! Quante volte gli chiedevo anche il suo parere! In realtà mi aspettavo che lui mi dicesse che fosse stupendo. Ma niente di ciò fu. Era comunque ragionevole come atteggiamento. Non poteva pronunciarsi sul valore dell’opera, avendone letto soltanto 20 o 30 pagine. Dinanzi alla mia insistenza da disperato, una volta Raffaele mi concesse un suo parere molto positivo. Mi disse affabile: “finché i nostri due innamorati continuano a vedersi, possiamo sperare nel meglio”. La mia preoccupazione era incredibilmente ossessiva. Continuavo a rompergli la uattura, come diceva un mio amico di Bitonto. Allora mi chiese di raccontargli in anticipo la storia che avevo ormai maturato nella mia testa e nella stesura in arabo. La sua reazione era certamente rassicurante ma lui non era così ingenuo da lasciarsi impressionare da quella storia ipotetica e magari raccontata male. Occorre che l’opera sia pronta per poterla giudicare e darne un parere obbiettivo.
Nel frattempo cercavo nella mia memoria storie e romanzi che avevo letto per paragonarli alla mia storia. In quel momento stavo leggendo un romanzo di Sainte-Beuve. Era il primo romanzo che questo autore aveva scritto. Il suo libro aveva la qualità contestata dai vari critici. Era considerato pieno di difetti. Eppure è stato pubblicato lo stesso. Mentre leggevo quel libro, cercavo di capire come l’autore riusciva ad organizzare il tempo e la cronologia dei fatti e degli avvenimenti.
Ero già a conoscenza della tecnica del flash back, ma cercavo d’evitarla. La evitavo perché metteva in pericolo l’architettura dell’edificio temporale che stavo costruendo. E poi mi tentava la storia raccontata in modo lineare. Non sapevo che, facendo così, ero costretto a distruggere l’illusione del realismo che un’opera letteraria avrebbe dovuto avere secondo me. Infatti, la vita reale dell’essere umano, come ha mostrato la psicologia moderna da Bernheim a Freud, è intricata del suo oggi e dell’ieri, di tutta la sua storia, che guarda col sogno nell’occhio l’eterno domani, e degli archetipi della società e della specie in genere. Tutto ciò l’istante presente lo fonde e lo da’ d’emblée come coscienza dell’essere e del mondo. La coscienza a questo punto, se significa qualcosa, può significare l’eterna attualizzazione di questo intreccio, di questo flusso crudo, instancabile, inesauribile - se non con la morte - nelle sue esplosioni ed emanazioni di mille colori e profumi. Sartre aveva detto un giorno delle sue opere che, se erano assurde, era perché l’esistenza in sé era assurda.
L’opera letteraria, e la creazione intellettuale ed artistica in generale, rispecchiano e recitano questa geometria alla flash back della vita umana complessa e magicamente elegante. Questo non lo sapevo o non riuscivo a renderlo. Ma pensai allora che, buono o brutto, il mio libro doveva essere considerato come un’opera letteraria propria, per la passione che ci avevo messo, la vita, gli sforzi e la speranza. “L’essenziale in un prodotto letterario consiste nello scriverlo”, dicevo a me stesso. Scriverlo in mezzo a tutte queste insicurezze e difficoltà mi diede da pensare che tradurlo mi avrebbe richiesto meno tempo e meno energie e mi avrebbe dato più coraggio e più speranza. La realtà invece era altra; era il contrario di tutto ciò che mi aspettavo. Lavoravo notti intere per tradurre una pagina o due. Non smettevo di pensarci. Cercavo le parole, le espressioni, le metafore e le memorizzavo per usarle. Divoravo, per questo appunto, libri, giornali e riviste. Ascoltavo la radio e la gente quando parlava. Ricordo che in quell’epoca avevo compiuto soltanto un anno e mezzo in Italia. Non riuscivo ancora a capire la maggior parte di un discorso in italiano. A volte non mi accorgevo nemmeno se la gente stesse parlando con me o con un altro! La causa di questa mia deficienza era dovuta al fatto che la lingua italiana, a differenza della lingua francese, aveva le sue particolarità e non usava il pronome personale davanti ai verbi. Se ce l’avevo fatta in così poco tempo, era grazie appunto a questa maledetta lingua amata e temuta nello stesso momento. Questa lingua dai paradossi tremendi, combattuta tra un Camus o un Sartre civili ed umani ed un De Gobineau funesto e cafone
. Questa lingua che gli scrittori algerini in lingua francese considerano come l’unico bottino di guerra strappato e preso nel dolore dalle grinfie del tremendo drago dei franchi. Per quanto riguarda l’apporto di Raffaele, posso dire semplicemente che era inestimabile. Perciò lascio a lui il merito di raccontarlo, se vuole. Aggiungo soltanto questo: una volta ho chiesto ad una amica il significato di una parola. Lei me lo disse. Tre minuti dopo, le ho chiesto il significato di un’altra parola. Mi diede la risposta. Ma al terzo tentativo era esasperata. Non ho mai visto Raffaele esasperato dalle mille domande che gli facevo. Gli altri amici italiani, appena leggevano due o tre righe del brano tradotto, si mettevano a correggere la sintassi, l’ortografia, lo stile, la punteggiatura. Loro trovavano sempre delle cose da correggere, Raffaele no. Lui voleva mantenere vivi lo stile, il ritmo ed il linguaggio. Tutto sommato ce l’ho fatta. Era per me un’esperienza molto importante: scrivere un romanzo. Ma la mia condizione di vagabondo mi rendeva il compito ancora più arduo. Non avevo un luogo tranquillo dove lavorare. La biblioteca di via Baldinucci mi ha salvato. È là che avevo scritto e riscritto (tradotto) Fiamme in Paradiso.

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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