El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

a Emily

Emily

“Fiamme in paradiso” è il primo libro dell’autore, pubblicato nel 2000 da Il Saggiatore. E’ un’opera semplice a prima vista e forse troppo facilmente criticabile, in realtà non per forza un linguaggio semplice ed un’ altrettanta struttura testuale sono sintomo di semplicità contestuale o di scarsa capacità.
Svolgendo l’intervista che segue ho avuto modo di interagire con lo spessore ideale dello scrittore, che può darsi non abbia probabilmente le conoscenze stilistiche di un Umberto Eco, ma abbastanza esperienza per poter raccontare qualcosa ad ognuno di noi.
Questo libro può far capire quanto molto spesso una semplicità narrativa racchiuda un backstage articolato, ovviamente in questo caso lasciamo il campo dell’analisi letteraria per passare a quello della sociologia della letteratura, come più volte mi ha fatto notare Malek.
Forse la semplicità è il punto di partenza di uno scrittore “Nascente”, come afferma l’autore, “E’ meglio partire banalmente e divenire particolare, che iniziare in maniera particolare e finire banalmente (riferendosi ad una carriera letteraria).
Smari Abdelmalek non crede nella suddivisione categorica tra scrittori migranti e non; osteggia completamente la definizione “Letteratura italiana della migrazione”; ironicamente ma forse non troppo afferma che l’accetterà solo quando rientreranno nel genere anche immigrati statunitensi, inglesi ecc…ovvero coloro che appartengono al cosiddetto “Primo mondo”.
Se così non è, allora perché non chiamarla letteratura del terzo mondo?
Con molta calma Malek mi illustra il suo punto di vista distinguendo tra chi vuole essere sociologo e chi vuole essere critico letterario; la differenza è netta, se si parla di letteratura allora sarà doveroso analizzare il libro, in quanto romanzo di uno scrittore e basta; secondo Malek, ormai diventato abbastanza critico, crede che creare una sotto categoria sia un modo per preservare gli scrittori italiani e mantenerli nella propria aura; sarebbe un disonore l’essere paragonati ad un immigrato.
Ultimo punto a suo favore nella diatriba tra intellettuali, è il fatto di far valere la molteplicità delle lingue in cui scrive e quindi poter affermare che le sue opere non sono solo italiane: “Scrivo anche in italiano.”
“Sono come Basaglia, gli facevano delle domande e lui rispondeva a quelle domande ma diceva quello che voleva dire lui e basta…secondo me è quella la vera intervista, le domande saranno una specie di riferimento…”

INTERVISTA CON LO SCRITTORE ABDELMALEK SMARI

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Qual è il motivo per il quale ha cominciato a scrivere nel momento in cui è arrivato in Italia?

Io ho cominciato a scrivere in realtà da piccolo ma…sono stato pubblicato solo qui a Milano; all’inizio scrivevo delle piccole sentenze, massime o saggezze che si avvicinavano alla poesia dei bambini; poi dopo lasciai a causa dello studio, mi sono perso un po’, ma nella mia fantasia sognavo di diventare uno scrittore e quella fantasia la alimentavo con l’amore per la lettura. Quando arrivai in Italia, avevo già dei manoscritti che avevo lasciato in Algeria e qui continuavo con un diario. Allora Raffaele Taddeo, della Tenda, dal quale prendevo lezioni di italiano, mi aveva parlato della letteratura nascente e non so come ci siamo arrivati…ma gli ho detto che anche io stavo scrivendo un diario e lui mi ha chiesto se sarei riuscito a presentarlo. Gli dissi di si però era scritto in arabo e lui mi invitò a tentare di tradurlo,nel frattempo sarebbe stato una specie di esercizio per imparare la lingua italiana. Dal diario mi sono reso conto che non volevo raccontare alla gente tutti i fatti miei e così ho pensato di scriverlo sotto forma di romanzo ed è quindi nato “Fiamme in paradiso”

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Perché ha scelto di scrivere in italiano?

Scegliere la lingua di scrittura in realtà non è tanto una scelta quanto…allora nel mio caso, conoscevo l’arabo e il francese, quindi scrivevo in arabo e in francese, sono arrivato qui in Italia e ho scoperto che l’italiano mi piaceva molto e siccome sapevo che dovevo per forza viverci per anni, dovevo per forza imparare questa lingua e allora ho detto se la imparo la devo adoperare…per necessità in effetti, anche perché se avessi scritto in francese nessuno mi avrebbe capito; il fatto di parlare la sua lingua è giusto anche dal punto di vista delle buone maniere, se tu sei a casa di qualcuno, no? Comunque è sempre una ricchezza, per me le lingue sono dei tesori; dire che sono venuto qui solo nell’intento di imparare la lingua, per poter scrivere in italiano, questo non è vero, anche se Karl Marx ha detto che lui aveva imparato l’italiano per leggere la divina commedia; qualcuno potrà avere un’ idea del genere ma non è il mio caso. Io mi trovavo in Italia, avevo imparato un po’ di italiano e allora siccome dovevo anche presentare quello che avevo scritto agli italiani, mi è sembrato logico usarlo.

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Prima di iniziare questa intervista avevo pensato agli scopi, ai fini che uno scrittore del suo genere poteva prefiggersi; studiosi come Gnisci, affermano che lo scrittore “migrante” ( durante l’incontro mi sforzerò di utilizzare il meno possibile il temine, ormai entrato nel mio vocabolario, tanto odiato da Malek) scrive per sensibilizzare l’italiano alle sue sofferenze. Mi sembra che dal suo punto di vista non sia così…

Si…no…quella che Gnisci compie è una mistificazione; l’ ho conosciuto e abbiamo anche litigato via mail…comunque non mi appartiene di negargli il diritto di esprimersi o la sua capacità o anche il suo prestigio, lo ammiro per la sua vasta conoscenza. La mistificazione è come la superstizione, si basa sempre su di un fatto reale, come il sogno e tutte le proiezioni della mente, sia quelle normali che anormali e ha ragione quando dice che lo scrittore immigrato tende a sensibilizzare alla propria sofferenza, a far conoscere la propria cultura, è vero! E chi non lo fa…ognuno si presenta con il bagaglio culturale che ha; non lo so, io a volte mi presento con delle espressioni francesi e quindi uno dice subito “Ha subito l’influenza francese”; è ovvio perché appartengo all’Algeria che è stata per 130 anni francese, diciamo che faceva parte della Francia e di questo non posso sbarazzarmi, come un italiano non può fare a meno di dire, se si trova all’estero, “Facciamo la pasta”, è impossibile! Oppure non può fare a meno di ricordare il Rinascimento o Dante o Leopardi. Su questo si basa questa mistificazione…non si va oltre, è come se queste persone immigrate non avessero la possibilità di immaginare altri scopi nella loro vita da scrittori, da uomini, da donne, da architetti; io per esempio quando scrivo non lo faccio per dire “Sto soffrendo, aiutatemi”, non lo faccio. Non è un caso se la mia raccolta di poesie si chiama “Tempora et mores”, nel senso che la cosa per cui scrivo è una specie di combattimento contro il tempo e la mediocrità; sono queste due cose che si fanno, protezione artistica come facevano i greci, i romani, gli egizi…Che cosa ci hanno lasciato?E perché ci hanno lasciato le piramidi, il Colosseo e altre cose? Sono in realtà una specie di vittoria sul tempo, hanno in qualche modo immortalato la loro presenza, il loro passaggio e così per me, la parola, diciamo in quanto Malik, è un modo di immortalare il mio passaggio; quando passerà il tempo e io non ci sarò più, qualcuno prenderà “Fiamme in Paradiso” e dirà “ Qualcuno è passato nel secolo scorso e ha scritto questo romanzo…” , non so… “Aveva gli occhi azzurri perché il suo protagonista aveva degli occhi azzurri” oppure “La pensava così perché sicuramente non era tanto diverso da lui”…per dire… Per questo io scrivo; scrivo anche per un’altra cosa ma non centra niente con la sofferenza dal punto di vista individuale, ma dal punto di vista umano, come ad esempio Leopardi, che affermava che la natura è cattiva perché fa nascere gli umani e poi li lascia soffrire, li condanna a morire…Leopardi non pensava a sé stesso o per lo meno ci pensava attraverso l’umanità, così anche io…perché secondo me lo scrittore vero e quello di testimonianza, che risponde alle esigenze degli altri, hanno una differenza: il primo ha una filosofia della scrittura, pensa al linguaggio che usa, alla propria sensibilità, all’avvenire, all’arte e l’altro risponde come un’ameba, diciamo che va verso la fonte di calore e basta…Qui sto cadendo nello stesso errore di Gnisci, però sto parlando teoricamente, non dico che tutti gli scrittori immigrati siano così ma che può darsi che tra di loro ci sia quello vero.

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Le scelte stilistiche che ha fatto durante la scrittura del suo libro, sono dettate da una sua conoscenza personale o da scelte editoriali?

Quando avevo cominciato a scrivere “Fiamme in Paradiso”, come ti dicevo prima, avevo già scritto qualcosa…racconti e poesie in francese e in arabo e in più tenevo questo diario, per il quale all’inizio avevo scelto l’arabo e ultimamente sono tornato a scrivere in francese. Quindi un certo stile c’era già…il modo di usare certe parole…certe ripetizioni…metafore; il mio stile è la prima cosa che ha colpito Raffaele, che è stato il mio primo editor in quanto ha trascritto l’opera a computer,che in quel momento non avevo ancora e poi non avevo nemmeno la capacità della lingua italiana che ho adesso e quindi con il suo aiuto sono riuscito a tradurmi in italiano; se avevo un vocabolario abbastanza ricco, in quanto l’italiano è molto vicino al francese, che io conosco bene, comunque alcune frasi e parole mi rimanevano difficili. Tre giorni fa ho riguardato un capitolo della prima stesura del libro e mi sono messo a ridere di come scrivevo, perché comunque mi aveva lasciato molta libertà. L’avevo presentato alla Tenda in quella versione e Luca Formenton de “Il Saggiatore” quando l’ha letta gli è piaciuta e mi ha chiamato; l’unico problema era che c’erano molti errori e ambiguità…oppure parole non più attuali. Addirittura l’editor mi diceva che il mio era un linguaggio da carabiniere, come ad esempio l’uso di EGLI, ELLA ecc…diceva che noi dobbiamo vendere perché è un’esigenza commerciale, se noi pubblichiamo un libro con parole antiquate e sofisticate, nessuno lo andrà a leggere. Questo è il primo patto con l’editore , l’altro riguardava il corpo del testo: la priva versione era fatta in due parti, quella algerina e quella italiana. Secondo lui la parte algerina non interessava al pubblico in quanto troppo particolare, però le cose funzionali potevano rimanere. Quindi il libro inizia con una scena della prima parte e poi salta subito alla seconda. Così avevo capito che l’editor era interessato a fare certi tagli…se per la lingua era per un fattore commerciale, devo riconoscere che le modifiche apportate all’architettura del romanzo erano volte all’arte della scrittura…ovviamente un libro ben strutturato invoglia alla lettura, a meno che non sia la stranezza di un qualche autore conosciuto. Se uno non sa scrivere, in realtà crea solo del caos! Lì ho dovuto imparare, in quanto non ero mai andato a scuola di scrittura e tutto quello che sapevo lo leggevo da testi e ne seguivo l’esempio. Con l’editor avevo avuto l’occasione di studiare le tecniche di scrittura e le imparavo man mano che lavoravamo alla stesura. All’inizio non ero proprio coinvolto, davo solo delle opinioni ma pian piano ho cominciato a far sentire la mia voce…l’editor è tremendo!

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Come abbiamo già accennato,molto spesso le case editrici fanno dei tagli sulle scelte dello scrittore, impediscono la libera espressione per una fattore commerciale, lei cosa ne pensa….

Certo, è così…se presentano la tua opera come è, non possono essere sicuri; secondo me hanno anche una specie di immagine, di stile editoriale a cui tengono, inoltre siamo immigrati, non si fidano di noi, delle nostre capacità. Io insegno l’arabo e conosco persone che lo studiano da anni e non sanno scrivere neanche un paragrafo, invece io in un anno sono riuscito a scrivere un libro; è una cosa strepitosa, ma nonostante tutto non potevo pretendere niente….adesso almeno posso contestare, posso giustificare se decido di lasciar un mio scritto in un certo modo. Accetto la critica e possono anche convincermi a tagliare la metà di una mia opera, perché è solo essendo modesti che si impara; con due occhi si vede il campo in un modo, con quattro occhi lo si vede con più profondità. L’importante è non lasciar travolgere l’anima dell’opera e combattere per mantenere il proprio linguaggio, perché anche quello fa parte dell’anima…presentare la cosa nei termini tuoi è più gratificante piuttosto che usare la lingua comune.

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Quindi riagganciandosi anche al discorso di prima il fatto di usare la terminologia “letteratura d’immigrazione” può anche essere una trovata editoriale per rendere il genere più “esotico” e quindi più vendibile…

Comunque la cosa più bella che Il Saggiatore ha fatto con me, riguarda un dibattito molto acceso tra i letterati arabi riguardo ad una cosa che anche Naghib Mahfuz, premio Nobel scomparso in questi giorni, pensava; lui ha lasciato la sua opera tormentata e tormentosa…poverina, l’hanno tormentata e lei ha tormentato la classe letteraria araba. Per la nuova edizione di quest’opera ha chiamato un signore e gli ha chiesto di fargli un’introduzione in cui diceva che quell’opera non era antireligiosa, ma solo un ‘opera d’arte;ultimamente ho comprato una rivista araba mensile di letteratura, “hilal” e ci sono una decina di pagine contenenti i pareri di chi è contrario e chi è a favore dell’introduzione; questa cosa l’avevo imparata con l’editor che diceva che il romanzo non deve avere un’introduzione, a meno che non sia un’edizione per la scuola; un romanzo deve uscire da sé stesso, non deve essere spiegato, infondo uno dei caratteri fondamentali dell’arte è l’ambiguità! L’ambiguità è il fondamento della bellezza…è un atto di libertà! Ognuno deve poter vedere delle cose, magari sé stesso, quindi non puoi calpestare questa libertà; perciò Il Saggiatore non ha presentato il mio libro come un’opera d’immigrazione ma come romanzo e basta; nel caso in cui qualcuno voleva presentarlo come tale, mi sono presentato prima io, perché ero mistificato …poi ho preso atto di questa esclusione. Tutti mi hanno sempre presentato come immigrato, poiché non possono fare altro…inoltre ci sono dei convegni che si presentano proprio con il termine letteratura d’immigrazione. Basta lanciare un nome che poi rimane come marca…comunque se il fatto è così, almeno ogni volta che lo usiamo dobbiamo definirla; secondo me è il miglior modo per uscire da questa mediocrità, da quest’ingiustizia;io è quello che sto facendo in realtà, ogni volta che qualcuno mi parla della letteratura d’immigrazione devo definire in qualche modo cosa intendo io per questa espressione. Devo dire comunque sempre che sono uno scrittore algerino che scrive anche in italiano, adesso ho trovato la parola anche! Non sta solo al pubblico milanese dire se la mia opera è originale, se è un romanzo ma quando uscirà nei paesi arabi, in Francia, nei paesi francofoni, anglofoni o “tedescofoni”, allora lì, quando diventerà una cosa universale qualcuno dirà “E’ romanzo” se non lo è morirà di morte naturale; almeno nel frattempo avrei provato a lasciare all’umanità un regalo. E’ un modo di lasciare anche io un’opera da far leggere agli altri; si risponde alla generosità con la generosità. Scrivo anche per questo dovere, non devo solo essere consumatore ma anche produttore, quelli che hanno scritto hanno detto “Fateci vivere attraverso le vostre produzioni”, anche se non esplicitamente, ed è questo lo scopo dell’arte e della cultura in generale.

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come ultima domanda, sarei curiosa di saper il motivo del finale di “Fiamme in paradiso”…

Il finale in realtà non ha una risposta sola e non posso esaurirla adesso anche se ci pensassi. Ho concepito il finale quando leggendo il giornale mi sono indignato davanti alla notizia che diceva: “Morte quattro persone e un marocchino”! Come? Il marocchino non è una persona!? Mi sono detto che bisognava denunciare il fatto in qualche modo e il miglior modo era metterlo nel romanzo. La seconda motivazione era che comunque in quel momento stavo cercando un finale. Se all’inizio avevo cominciato a scrivere in maniera sicura e sapevo più o meno dove stavo andando, ad un certo punto non lo sapevo più perché in qualche modo la guida sono stati i personaggi e non sapevo più, quando finivo di scrivere una parte, come sarebbe andato a finire l’indomani. Questo è una prova del fatto che il mio libro non è una testimonianza autobiografica, è una prova che io ero estraneo a quello che succedeva in quanto autore, quindi sono arrivato alla conclusione e cercando un finale mi sono ricordato della notizia, sono andato in biblioteca e ho cercato quel numero de “Il corriere della sera” e sull’avvenimento ho immaginato un finale. Una terza versione è che il finale mi è stato suggerito da Remo Cacciatori, un critico letterario abbastanza pertinente secondo me, che conosco in quanto frequenta la Tenda. Secondo lui la conclusione ha consacrato l’opera in quanto romanzo vero e proprio; ha salvato la stesura, insomma è il finale che ha dato coerenza e lo ha staccato dall’autobiografia salvando la “romanticità” del romanzo. Per quanto riguarda il fatto di ricorrere ad una notizia… moltissimi autori come Dostoevskij in “Delitto e Castigo” sono partiti da un fatto di cronaca e così mi sono chiesto del perché non avrei dovuto fare la stessa cosa e questo mi ha salvato da quel forte dilemma. Mi chiedevo se avrebbe sposato la ragazza incontrata oppure avrebbe disperato, sarebbe andato in Francia o sarebbe tornato in Algeria? Il personaggio imbevuto della mediocrità che ha lasciato nel suo paese, che ha trovato nella comunità della Moschea, che ha trovato tra gli italiani, per lui è umana e l’unico modo per salvarsi è la morte. Tutto ciò è paradossale ma funziona nella logica del racconto, la morte è una salvezza poiché si aspetta la resurrezione.

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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