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a Repubblica

Sandro De Riccardis

LA REPUBBLICA: 23 ottobre 2001 — pagina 16 sezione: MILANO

Smari Abdel Malek, scrittore arabo, da dieci anni a Milano, ha nel colore azzurro degli occhi e nella sua carnagione chiara il segno di un destino. Perché fu così che iniziò a combattere i pregiudizi del mondo e le certezze a poco prezzo in vendita al mercato sempre prospero del luogo comune. Rivendicando le sue radici. Difendendo le sue origini da chi proprio non voleva credere che un arabo potesse avere quel colore della pelle e gli occhi così azzurri.
«I primi tempi a Milano nessuno mi credeva quando dicevo che ero algerino - dice Sembrava impossibile che un bianco potesse venire dall’Africa».
E oggi che assiste a una specie di cortocircuito della storia e vede i luoghi comuni abbattersi pericolosamente sulla sua civiltà, Abdelmalek, 49 anni, arabo di Costantina, nord dell’Algeria, si trova a difendere il mondo musulmano da una rappresentazione che non gli pare reale.
«Al mondo non ci sono solo i paesi islamici e quelli occidentali. La realtà è molto più complessa. E anche all’interno dello stesso mondo arabo ci sono i religiosi e i laici, gli integralisti e i moderati, i comunisti e i liberali, i ladri e gli onesti. Chi parla di scontro tra culture, parla di qualcosa che non esiste».
Abdelmalek è a Milano da quasi dieci anni. Ha conosciuto la fame e il freddo, la generosità dei poveri e l’indifferenza dei benestanti.
Frammenti della sua storia tra l’Algeria e Milano sono sparsi in 'Fiamme in paradiso' (ed. Il Saggiatore), il libro che ha scritto un anno fa e che racconta un’integrazione fallita, la storia di un clandestino, Karim, che cerca a Milano il riscatto sociale e invece [si] trova… vittima casuale di un pezzo di storia italiana che non gli appartiene.
Come Karim, Abdelmalek ha lasciato oltremare «un mondo in cui niente ha senso se non la sentenza del destino che si compie». Dice di aver trovato anche in Italia una buona dose di intolleranza, «Gli integralisti dell’occidente, vittime della stessa mistificazione di considerare il diverso come nemico».
Ha letto le pagine della Fallaci. Ha saputo dei leghisti di Lodi che hanno profanato il terreno destinato a una moschea. Ricorda le parole del cardinal Biffi e del presidente Berlusconi sulla superiorità della civiltà occidentale.
«La realtà è diversa. La storia è fatta di mille contaminazioni. Gesù Cristo era un extracomunitario, Sant’Agostino un algerino. La vostra lingua è piena di parole arabe e nel mio dialetto ho scoperto molte parole italiane».
Tra i primi posti che conobbe a Milano ci fu, ovviamente, la moschea di viale Jenner. «Ma sono ormai anni che non ci metto piede», ricorda. Perché «essere musulmano non significa solo avere la barba, indossare un certo vestito, recitare determinate preghiere. Io volevo un mondo più aperto, ero attratto dalla cultura occidentale, cercavo il confronto con realtà diverse».
Nel suo libro Abdelmalek parla delle guide spirituali della moschea come di «poliziotti della coscienza», di «voci della certezza collettiva», ma non crede a quello che legge in questi giorni sui giornali, all’Istituto di viale Jenner come base europea di Al Qaeda.
«Da anni certi giornalisti cercano di far passare la tesi che la moschea sia un covo di terroristi. È una mistificazione. Non escludo che tra centinaia di persone normalissime, siano passati da viale Jenner anche integralisti o terroristi. Anzi, è quasi ovvio».
Della sua esperienza dei primi anni, Abdelmalek ricorda i discorsi del vecchio imam Anwar Shaaban, che «invitava i fedeli ad aiutare i fratelli musulmani in Bosnia e Cecenia». In ‘Fiamme in Paradiso’ troviamo infatti Khaled, che racconta a Milano il suo viaggio tra l’Afghanistan e la Bosnia durante la guerra nella ex Jugoslavia, «imbarcato sulla nave della jihad per difendere i fratelli musulmani».
Ma, dice Abdelmalek, non si può parlare di una comunità islamica arruolata nell’esercito dei fanatici di Bin Laden.
«I musulmani di Milano sono gente normalissima che fa qui quello che ha sempre fatto anche in patria: frequentano la moschea, s’incontrano e parlano della famiglia, del lavoro, dei problemi di ogni giorno. Alcuni non sanno nemmeno scrivere, tanti non sanno nulla di cosa accade nel mondo. Ed è un fatto negativo: mi chiedo se l’ambizione della nostra comunità sia davvero così bassa». Da otto anni Abdelmalek organizza a Milano corsi di arabo per italiani, a cui partecipano anche figli ‘italiani’ di musulmani in cerca delle proprie radici.
«Il modo migliore per garantire l’integrazione è conoscersi reciprocamente. L’America può insegnarci tanto su questo. L’undici settembre loro sono stati umiliati. Se il mio paese fosse stato colpito in un modo così violento, anch’io avrei chiesto di reagire». È difficile accettare lezioni di diritti umani da chi ha praticato l’imperialismo, ma questo non é un buon motivo per dimenticare che l’America ha accolto tutte le razze del mondo. Anche gli arabi. E gli indiani, senza i quali la Silicon Valley non sarebbe mai esistita».
Sul valore dell’integrazione, Abdelmalek sta scrivendo il suo prossimo libro. «Una raccolta di brevi storie sulle contaminazioni tra i costumi italiani e quelli arabi. Perché qualunque civiltà chiusa in sé stessa non può che soffocare».
IL LIBRO Speranza di fuga approdo precario - Karim fugge dall’Algeria, da una falsa democrazia che imbavaglia parole e azioni e dal fanatismo del terrorismo islamico. Fugge da un futuro sempre più simile al passato. E da un destino comune a un’intera generazione: «Anche chi arriva alla vecchiaia, da noi penserà di avere vissuto pochi anni, perché molto della sua vita è stata ripetizione. E in quel ripetersi monotono, un giovane non sa più dire se ha già vissuto molto o poco, perché fin dove è arrivato è una vita che non si è mossa, una quasi morte».
Smari Abdelmalek racconta in ‘Fiamme in paradiso’ (ed. Il Saggiatore, £ 25.000) la storia di Karim, un viaggio dalla periferia del mondo a Milano, la grande metropoli da cui alcuni suoi amici gli raccontano di una vita migliore. Ma Milano sa dargli soltanto una vita precaria e clandestina. Karim «aveva conosciuto la vera fame e l’autentico freddo; abitava la strada e, condividendola con tutta la corte di emarginati, travestiti, ladri, barboni e semplici stranieri come lui, aveva imparato il coraggio e anche una garbata gentilezza verso tutti».
Un viaggio in una città sorda e indifferente, in cerca di un riscatto che, per Karim, non arriverà mai. (s.d.r.) - SANDRO DE RICCARDIS

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(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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