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intervista per la tesi di Giuliano Buzzao

Giuliano Buzzao

intervista per la tesi di Giuliano Buzzo

Cosa pensa della cultura letteraria italiana e cosa della cultura letteraria araba e di quella francese? A quale si sente di appartenere maggiormente?

Leggendo le domande, ho notato che ci sono dei concetti che necessitano d'essere precisati e ben definiti prima di usarli nelle risposte. Il primo di questi concetti è l'espressione cultura letteraria. Questa può avere tanti sensi e tanti rimandi epistemologici, ma io la interpreto come la condizione della letteratura e dei letterati nell'Italia a me nota, quella di oggi e che io condivido con gli italiani. Io lavoro nelle Librerie della Feltrinelli e vedo più o meno quanti libri stranieri entrano ogni giorno nelle nostre banche-date: senza parlare del flusso enorme dei libri tradotti, domina di gran lunga l'inglese, poi viene il francese abbastanza dignitoso, poi vengono zoppicando il tedesco, lo spagnolo, il russo e il portoghese.. la presenza degli altri paesi che rimangono o è rara o è nulla (come l'arabo). Questo significa che la cultura letteraria italiana cerca prima di tutto d'essere italiana, poi tende a contemplare quella anglo-americana; e a mimetizzarla quindi, e in questo l'Italia non è purtroppo differente da tutti i paesi del mondo che sono anglo-americanamente contaminati. Ma l'Italia per me non è solo quella di oggi. E la mia patria letteraria non è solo l'Italia; perciò io riesco in un modo o l'altro a sfuggire all'egemonia della cultura, dell'epoca, della lingua o del genere dominanti. Leggo Sallustio, Boccaccio, Macchiavelli, Leopardi, Gramsci, Calvino, Baricco... leggo saggi, narrativa, poesia, storia, politica, scienza, filosofia... E poiché sono capace di leggere in altre lingue, cerco di comportarmi con loro nello stesso modo in cui mi comporto con la produzione letteraria italiana. Quanto al rapporto che io ho nei confronti delle lingue che ha appreso, direi che sono esse che mi appartengono e non io ad appartenere ad esse. Sono stato io con tanti sacrifici e tante fatiche (e continuo ancora oggi e continuerò domani e nel futuro) a conquistarle, a domarle, ad esplorarle, ad usarle, a rispettarle, ad amarle, a difenderle, a costruire loro nel profondo del mio cuore un sicuro e caloroso nido.

Perché scrive in italiano? Era scrittore anche prima di venire in Italia?

Io scrivo (anche) in italiano perché prima di tutto vivo fra gli italiani sul territorio italiano. In secondo luogo scrivo in italiano perché conosco abbastanza bene la lingua italiana. E poi la conoscenza di una lingua è come un muscolo: bisogna allenarlo sempre, altrimenti si affloscia e rischia l'atrofia. Terzio, scrivo in italiano perché sarebbe mancare di rispetto alla gente che mi ospita e mi rispetta. Quarto, come potrei non scrivere in italiano, se io dovessi pubblicare in una casa editrice italiana per un pubblico italiano?! Come dicevo, l'italiano non è la mia unica lingua di scrittura; scrivo anche in arabo e in francese (vedere il mio blog www.malikamin.over-blog.net ) A meno che lo “scrivere” voglia dire pubblicare libri, in questo caso, fino adesso io non avrei scritto che in italiano. Ma ho i cassetti pieni non solo di sogni e non solo di prosa e non solo in una lingua sola. Se ero scrittore già prima che arrivassi in Italia? Dipende dal significato del termine Scrittore: aver amato la scrittura? Sì. Aver scritto delle cose in Algeria? Sì. In arabo o in francese? In entrambe le lingue. Aver pubblicato qualcosa? No.

Quanto è importante per lei essere straniero ed essere scrittore? In che rapporto stanno secondo lei queste due sue caratteristiche?

Essere straniero, forse lo sono stato all'inizio quando ero arrivato. Allora non conoscevo la lingua, non avevo amici, non avevo casa, non avevo lavoro, non avevo dritto ai servizi, non potevo spostarmi liberamente, non ero in regola con i documenti di soggiorno legale, non conoscevo gli usi della popolazione autoctona, non apprezzavo (perché li ignoravo) alcuni dei suoi gusti e sapori ed alcune delle sue maniere, non capivo le sue battute, le sue idee, le sue paure, gioie e ossessioni, le particolarità regionali del paese, la sua memoria, la sua storia, la sua mentalità, la sua geografia, le sue leggi, la sua letteratura (e lo stesso si può dire dell’atteggiamento degli italiani verso di me e verso ciò che rappresentavo per loro)... allora sì che ero straniero perché ero estraneo a tutto ciò e tutto ciò mi era estraneo... Ma adesso non vedo nessuna estraneità né stranità. Mi sento a casa mia. Quando mi trovo in Algeria e che si avvicina il giorno del ritorno in Italia, rispondo alla domanda dei miei parenti o amici “Quando torni a casa tua?” io capisco che per “casa tua” intendono l'Italia. Io stesso penso ormai nello stesso linguaggio. Mi smentirà la realtà aministrativo-legale, ma quella è per me ormai una semplice etichetta; posso anche lasciarla appiccicata su qualche mio documento... può servire alla storia della nostra epoca. Ma ammettiamo per assurdo che io mi consideri ancora come straniero, questa mia stranietà non sarà mai una mia caratteristica, al massimo essa sarà una circostanza anomala anche se necessaria perché essa è là provvisoriamente. Quanto all'essere scrittore, io mi ritengo tale per tanti motivi. Il più interessante ed importante consiste nel fatto che amo scrivere alla passione, non passa un giorno senza che io scriva al mino una riga o un pensiero, al massimo una decina di cartelle. Vengono altri motivi come quello dell'amore che ho per i libri e gli scrittori pertinenti, o come il fatto di aver pubblicato (anche se erano due o tre scemate) qualcosa che qualcuno ha letto e che può darsi che a qualcuno sia piaciuto. C'è anche il motivo non indifferente, quello di scrivere non solo sul mondo e le sue cose ma anche sulla scrittura stessa. Infine, but not the last, ne è testimone il fatto che io continuo a scrivere con la stessa energia, la stessa passione e la stessa gioia... Ma neanche la scrittura può essere una caratteristica; è un'arte. E l'arte è molto ricca perché la possiamo ridurre ad “una” (cosa?). Una caratteristica può essere anche statica, ma la scrittura è viva. Ça bouge et fait bouger l'univers et elle ne cesse pas de nous chatouiller. Quanto al rapporto che questi due termini (stranità e scrittura), esso è della stessa natura che possa avere il rapporto tra una parola araba di cinque lettere e una parola finnica di cinque lettere, cioè: nulla se non il potere magico dell'atto di scriverle e metterle in una frase, l'una accanto all'altra. In altre parole io scrivo e vivo spesso in un paese lontano da quello in cui sono nato e cresciuto. Punto

Lei pensa in arabo e scrive in italiano? I suoi romanzi a che mondo appartengono?

Vassilis Alexakis scrisse: “La lingua madre non è altro che la prima lingua straniera che impariamo.” Io penso e credo ormai che i nostri sentimenti e le nostre idee, materia prima delle nostre parole, nascono paradossalmente in un luogo, nel nostro essere profondo, che nessuna luce di qualsiasi lingua può giungere. Come le stelle, le vediamo dalla nostra buia terra ma esse non ci vedono, così anche il nostro mormorio profondo di sentimenti e di idee vedono delle stelle che sono parole e le investono, e proprio nel momento in cui ha luogo quel investimento, ci rendiamo conto della nascita di una parola o comunque, in quel momento, al nostro bisogno, parola risponde. Poi siccome io penso e credo ormai che avere una lingua è come averne mille, e avere mille lingue è come averne una, perché per economia energetica il nostro intelletto non potrà permettersi il lusso di confezionare ad ogni istante un armadio nuovo per ogni parola nuova ogni gruppo di parole nuove che noi acquisiamo, ma cerca di badare piuttosto al come renderne l'uso quasi spontaneo e fluido. Perciò fa in modo che tutto ciò che gli arriva si deve integrarsi al file esistente e diventare ipso facto operativo. Perciò io sarò libero di scegliere in che lingua mi esprimo e non in quale penso. E poi cosa vuol dire per quegli strati bui ed informi “acchiappare” una parola-stella invece di un’altra che ha pure lo stesso significato (come nell’esempio della parola amore, hubb, love, amour ed altre ancora)? E quante parole arabe o francese o inglesi sono entrate nell’uso della lingua italiana e sono finite per essere italiane? Tante! È ovvio che la lingua non si limita ad essere un thesaurus o glossario, è soprattutto un veicolo di una sensibilità, è una organizzazione mentale, è una memoria, è un modo d’essere nel mondo e di concepire questo mondo… certo, ma lo stesso vale all’interno della stessa lingua: l’esempio più avvincente e più vicino che mi viene in mente è l’italiano stesso, frutto di un’infinità di dialetti che possiamo tranquillamente considerare come vere e proprie lingue: nel recentissimo film “Benvenuto al sud” si vede una scena in cui un lombardo si fa tradurre il napoletano… Il mondo a cui appartengono i miei romanzi (e tutti gli altri miei scritti non pubblicati o non pubblicabili) sono le lingue a cui li affido, il genere che li avvolge, il pubblico che li accoglie o li respinge ed infine il destino dove andranno a finire. Ma se vogliamo essere più chiari, direi che è meglio considerare l’identità di un libro come si considera quella di un film: se il produttore (editore) è italiano e l’autore è di un’altra nazionalità, il libro sarà italiano e l’autore sarà di quella data nazione. A questo punto, i miei due romanzi sono italiani ma io, il loro autore, sono algerino.

Cosa pensa del concetto di “letteratura migrante” così come si è venuto a formulare in Italia?

“Una cosa migrante” giunge al mio intendimento come “una cosa in continuo spostamento”. Se è questo il significato, l'espressione “letteratura migrante” non ha più senso chiaro perché tutte le letterature saranno migranti nel senso che esse non smettono mai di nascere , crescere, evolversi, invecchiarsi e morire. Ma non penso che l'aggettivo “migrante” abbia quel senso; la letteratura migrante come concetto è nato per distinguere due realtà che non dovrebbero mai mischiarsi. È letteratura migrante, la produzione letteraria di Malik; è letteratura tout court la produzione di Donna Leon. Eppure entrambi vivono e scrivono in Italia! Mi si direbbe che la Leon scrive nella sua lingua originale, non vuole che i suoi libri vengano tradotti in Italiano, è una scrittrice affermata e poi – non dimentichiamocelo! - non è chiunque, è una Wasp. Ecco il punto... la letteratura migrante è un'espressione che dimostra: o la pigrizia mentale di coloro che l'hanno coniata e che cercano di imporla, o la scarsa immaginazione (degli stessi critici e studiosi), o il disprezzo che (questi stessi critici e studiosi) hanno nei confronti degli scrittori di seconda categoria (terzomondani) e la necessità che hanno di escluderli dai paradisi dell'arte vera, sublime, creativa, esploratrice di nuovi orizzonti di civile e dolce vita, divina insomma... ecco il punto... ma cosa ha in sostanza il concetto di Letteratura migrante? Essa consisterebbe (nella mente dei suoi geniali - ma tondi lo stesso – ideatori) nel registrare le necessità e i disagi primari di quei disgraziati di immigranti: la nostalgia per il sole, per gli abiti e cibi “tradizionali”, per il piacere di vivere lontano dal tempo e dal dovere d'essere autonomo, per ritornare alla vita gregaria, per sfuggire alle responsabilità di usare la dura e spietata mentalità scettico-razionale che regna padrona sulle menti “occidentali” in somma per ritornare allo stato del buon selvaggio! La letteratura migrante consisterebbe anche (nella mente dei suoi geniali - ma tondi lo stesso – ideatori) nel testimoniare della brutalità/bontà dei cattivi/buoni italiani/occidentali, nel rivendicare il permesso di soggiorno, nel rivendicare il diritto a fare il/la colf, l'uomo di pulizia, la donna di servizio, il buffone folklorico, la danzatrice del ventre, il pestato dalla polizia, la stuprata da una banda di marocchini, il dissidente del regime (quale?), il terrorista islamico, il poligamo, il portare il velo, il dog-sitters ed altre fangate e stupidaggini. Ora ditemi voi, dove possiamo respirare, in mezzo a questo fango, un'aria pura di arte, di sublime, di dolce vita, di spirito e di creatività? Sicuramente non nella letteratura detta migrante, ma in quella, pur disumana e arrogante, della Leon e pari... eppur...!

Domande sulle opere

La sua opera prima è stata abbondantemente tagliata durante l'editing. Quanto pensa abbia influito, e in che modo nella complessiva dell'opera e nel suo significato? Perché è stato tagliato secondo lei, tutto il materiale riguardante l'Algeria?

La soluzione di certe problematiche a volte risiede nel descriverle. Allora, Fiamme in paradiso pubblicato è stato ridotto di circa un terzo rispetto alla versione originale. Quando l'editor mi aveva informato di questo taglio, la mia reazione fu di ribellarmi. Ma Luca Fontana era determinato e me ne ha spiegato i motivi. Devo dire che mi aveva convinto, ma io non volevo cedere. Parlai di questo problema con Raffaele Taddeo e lui stesso mi disse di accettare: “Tant'è un'opera prima. Pubblicare con questa casa è una vera opportunità!” ed io accettai ma a condizione di partecipare attivamente alla scelta del materiale “utile” da quello da “scartare”. Fontana operava su più fronti: linguistico, contenutistico, tecnico-stilistico ed architettonico. Fontana fu per me non solo un editor ma soprattutto il primo maestro di scrittura. Mi ha insegnato tante nozioni sull'arte di scrivere. Mi diceva che le parole che dobbiamo adoperare in un racconto devono essere attuali, quelle parole vicino a tutti, immediate, simpatiche, significative quindi ed amate. Mi diceva che la lingua che avevo usata era “carabinieresca”. E rideva della parola “recarsi” che avevo usato tra tante altre bizzarrerie invece di dire semplicemente “andare”. Sul piano contenutistico, mi diceva che bisognava mostrare non dimostrare o spiegare. Mi insegnava di non usare mai le note esplicative in un romanzo; e quando sentivo la necessità di una tale nota, lui m'insegnava il modo elegante e non invasivo di farlo. Mi diceva che appunto la parte algerina del romanzo non poteva interessare gli italiani. Per essere capito da un pubblico non basta solo parlare la stessa lingua di questo pubblico ma soprattutto parlargli di cose che gli interessavano da vicino. Sul piano tecnico-stilistico m'insegnava semplicemente di non cercare di imitare nessun linguaggio e nessun autore; che dovevo seguire il mio intuito ed ascoltare me stesso. M'insegnava anche che la presenza di ogni cosa dovrebbe avere un legittimazione persino gli oggetti! Mi è rimasta impressa la storia dell'ombrello che, da oggetto del protagonista, diventò esso stesso protagonista! Infine l'organizzazione architettonica della storia; grazie alla tecnica del flashback, Fontana arrivò a “recuperare” il materiale algerino creduto perso! Altri tre particolari: il titolo e la dedica all'editor e il primato del carattere economico. All'inizio, anche il titolo doveva essere cambiato. L'editore aveva proposto “Sette inferni, otto paradisi”. “E' un verso di una poesia sufi, mi spiegava l'editor,. Ciò significa non ci si soffre mai senza la speranza di una salvezza. Alla fine, è il titolo che avevo scelto io, che è stato mantenuto. Luca Fontana, quando stavamo per dare alle stampe il manoscritto, mi aveva posto una condizione: dovevo scrivere un ringraziamento. Questa richiesta mi aveva stupito: “Perché adesso mi chiede ciò? Non è stato lui ad insegnarmi a non fare né introduzione né ringraziamenti?!” Ma subito dopo Luca rinunciò al ringraziamento. La grande lezione invece fu: il primo ed ultimo imperativo di una casa editrice è Vendere. Perciò bisogna che badi essa stessa alla “qualità” del prodotto. C'est à prendre ou laisser.

Il Centro Islamico che compare in Fiamme i paradiso è descritto come un luogo fortemente chiuso verso l'esterno e tradizionalista. È una rappresentazione veritiera della realtà? Lei è credente?

Il Centro Islamico degli anni in cui io lo frequentavo era più o meno così, come l'avevo descritta nel mio primo romanzo. Adesso che ne sono lontano, posso dire che forse quel Centro sarebbe stato diverso (meno squallido e più aperto), se non fosse stato menato e perseguitato dai leghisti, dai fascisti e da alcuni corpi delle forze dell'ordine italiane. Quanto alla mia credenza, io credo di credere come tutti a qualcosa come la speranza, la bellezza, la giustizia e la dignità.

È possibile leggere Fiamme in paradiso come un percorso escatologico?

Remo Cacciatori, in una sua bellissima analisi del finale di Fiamme in paradiso, mi ha attirato l'attenzione su quella soluzione geniale (è il suo termine) di superare, grazie alla morte del protagonista, appunto questo tipo di percorso. E poi io credo nell'unicità dell'essere...

Samir ha mille identità diverse. Ma per lei cosa voleva essere Samir? Che personaggio aveva in mente?

Samir è un uomo, e questo è l’insieme di mille e una teoria che mai riusciranno (le teorie ed il loro autori e fautori) ad afferrare in un modo esaustivo e appagante la sua natura, delimitarne il “perimetro” o chiuderlo in una gabbia modellante senza essere smentiti. Tutto sta stretto all'uomo… forse non ha neanche bisogno d’essere definito, identificato, frugato se non per un brama umana, troppo umana e quindi anch’essa misteriosa, di voler conoscere, d’essere necessariamente avido di conoscere e di etichettare per classificare le sensazioni e i fenomeni…

Nel testo del suo secondo libro hanno un ruolo fondamentale le donne. Come mai questa scelta?

È il segno di una mia effettiva presa di coscienza del ruolo importante, se non preponderante, delle donne nella edificazione delle nostre società. È un omaggio alle donne algerine che supportano con grande dignità la loro dolorosa condizione e lottano con coraggio, determinazione e speranza perché cambi in positivo: verso il rispetto, l'acquisizione dei loro diritti.

Perché ha scelto di intitolare il testo: L'occidentalista?

Il titolo mi è stato suggerito un po' dall'aspetto ideologico del racconto. Volevo per questa scelta abominare l'esecrabile esotismo degli apprendisti-etnologi ed esperti e falsi profeti di orientologia, islamologia e varie vacue logie...

C'è una figura ricorrente in entrambi i romanzi, quella del sacrificio. Perché ha scelto questa figura? Cosa la affascina, cosa spiega, che funzione le assegna all'interno dei suoi romanzi? Questo tòpos ha una relazione con la sua cultura d'origine?

Il sacrificio nella vita dell'uomo non è un incidente, è una dimensione fondamentale. E se lo troviamo nei miei scritti è perché la letteratura in fondo è l'espressione della complessa vita e della dimensione stessa del sacrificio. Non è dunque un fatto culturale ma un fatto umano. Oltre a questo, essa svolge una funzione letteraria: permette di dare un certo senso e un certo orientamento all'opera. Questa ultima domanda merita più riflessioni e più approfondimenti, ma per ora credo di aver esaurito le mie competenze. Detto questo, sono disposto a chiarire le ambiguità delle mie risposte o correggerne gli errori. Spero di aver risposto sufficientemente.

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(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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