Il mio cuore è un giardino1
“… ho ricevuto una lettera da una lettrice, che aveva letto il
mio romanzo: “Quella notte” urlando: “Sei tu…sei tu. Non
mentirmi, il protagonista sei tu!? (………). E quando, prima
ancora, era uscito il mio primo romanzo: “Frammento di un sogno”
che descriveva la vita di una donna separata che era del mio
paese, ricevetti parecchie lettere che mi chiedevano: come sei
riuscito, tu maschio, a sondare le profondità di una donna
con maestria e con pertinenza… a meno che abbia rubato il diario
di qualche donna!”
Al Hayat, 22-08-2001
Non dico che il mio romanzo sia un capolavoro, ma le diverse recensioni e segnalazioni che ha avuto sui giornali, riviste classiche o di rete, radio e persino in una rete televisiva (per un inizio, per uno scritto che avrebbe potuto anche rimanere nel cassetto come parecchi scritti dei principianti), e le diverse presentazioni a Milano e anche altrove, poi ultimamente il fatto d’interessare addirittura Sidney, in più il fatto di fare colare le lacrime a una persona che piange solo ascoltando Mozart, il fatto che ha scandalizzato per la morte del protagonista, ragazzini e persone mature, il fatto che già dalla prima presentazione al Centro Culturale Multietnico (La Tenda) ha creato una viva polemica se era un romanzo o un saggio, il fatto d’essere stato considerato geniale soltanto per la sua fine, il fatto che alcuni registi, di cinema soprattutto, si sono interessati a portarlo sul grande schermo o sul palcoscenico ed infine il fatto d’aver avuto il primo premio Marisa Rusconi; tutto ciò mi costringe a rivederlo alla luce dell’interesse che ha suscitato come un’opera letteraria decente.
Cara Crisi sono lieto di fare la tua conoscenza. Spero che sarò all’altezza di dare soddisfazione alle tue interrogazioni. Ovviamente è fuori dubbio che, davanti ad un testo, ognuno legge coi propri occhi, sente con la propria sensibilità e capisce con la propria mente. Ma il fatto che un lettore (studioso come te) mi lascia il compito e l’ultima parola da dire, per affermare o negare tutto o una parte delle proprie considerazioni, tutto ciò mi investe di una grande responsabilità. Perciò, tutto quello che dico, tranne i dati fisici e verificabili concretamente, sarà una specie di punto di vista personale, l’interpretazione umana da parte dell’autore per la propria opera. Un’opera che ormai è stata creata ed il tempo l’ha divorata lasciando alla memoria soltanto alcuni ricordi sbiaditi di una vita lontana, come le ossa di un animale divorato già da un bel po’ di tempo e scarnato.
Mi chiamo di nome Abdelmalek e di cognome Smari, ma per gli amici italiani sono Malik. Non so perché gli italiani trovano difficile la pronuncia di qualsiasi nome straniero tranne quei nomi che vengono dal mondo latino-anglosassone, e quindi dal cosiddetto mondo occidentale! Sono nato in Algeria onde mi sono laureato in psicologia clinica. Tra l’altro questa pseudoscienza della psiche -volatile e inafferrabile per natura- non mi convince più di tanto. Mi piace di più essere libero e indipendente da ogni schema che crei solo menti bigotte e sclerotiche come delle crisalidi. Leggere per me invece è una consolazione di fronte a questo mondo difficile e magico con o senza il fenomeno emigrazione-immigrazione.
Nel suo “Castello” Kafka scrisse della burocrazia. Ma nessuno, per quanto io sappia, lo ritiene come uno scrittore burocrate e per I burocrati. Invece quando Salman Rushdie nei suoi “Versetti Satanici” ha descritto la Londra delle dis-ugualienze sociali che governano la città sempre a favore di chi ha la pelle bianca (senza colore), nessuno ha visto nel suo romanzo uno scritto da e per l’immigrazione che denuncia con rara forza e pertinenza un sistema tanto oppressore quanto ingiusto. E Courbet che nel suo “Atelier” non ha fatto altro che immortalare il proprio luogo di lavoro, possiamo dire al suo proposito che il suo era un quadro di un’arte mediocre e in male d’ispirazione!? Eppure si è trovato chi vi ha riconosciuto, la pietra sacra, il santo Graal della creazione artistica.
Vedi? Scrivere, fare dell’arte in generale, è come cucinare un piatto. Questo può piacere o non al pubblico di una o di più generazioni. Questo piatto per essere delizioso e originale si serve del proprio orto e delle spezie della zona. E se lo chef considera che il piatto può essere meglio, egli va a cercare le spezie esotiche. Un maestro sufi di nome di Ghazzali del 10° secolo, riportava le parole di un saggio antico che diceva ai suoi seguaci indicando il proprio cuore: qui c’è un oceano di conoscenze, purtroppo tutte le lingue del mondo antiche e venture non potranno mai esaurire.
Cosa può rappresentare una tonnellata di volumi che cerca di rendere conto di una realtà infinitesimalmente breve e piccola di fronte a ciò che un semplice sguardo che dura lo spazio di un secondo può abbracciare? Se un romanzo può riflettere l’esperienza personale di un essere umano, vuol dire che quel romanzo è un’opera veramente emanante da un Dio vero con la D maiuscola. Oppure vuol dire che l’esperienza personale di quella persona è così insignificante, così povera che essa sfiora I confini del nulla! Poiché sappiamo che ogni giorno il confine tra gli dei e l’uomo indietreggiano di miglia di anni luci, gli dei non ci sono più, come fa un uomo ad essere dio!?
La ricerca delle origini è stata sempre un rompicapo insolubile per le grosse teste della filosofia. Sicuramente non sta a me di dire l’ultima parola in questo merito. Sarebbe più saggio invece di dire nel mio caso: “come ti è arrivata l’idea di scrivere?”, “Quali sono gli elementi che tu ritieni come pertinenti e che ti hanno spinto a scrivere?” A questo punto come risposta posso fare come hanno fatto I nostri matematici già nei tempi remoti quando crearono il concetto di zero. Quindi l’idea di scrivere questo romanzo mi è nata il giorno in cui un mio insegnante di italiano mi sollecitò di farlo.
Ero appena arrivato a Milano dove mi ero iscritto alla scuola serale per gli stranieri. Questo amico, Raffaele Taddeo che è il presidente del Centro Culturale Multietnico La Tenda, mi fece parte delle attività del suo gruppo. Parlavo male e capivo poche cose di cui mi raccontava. Ma comunque ero riuscito ad afferrare il concetto. Gli confessai allora che stavo scrivendo un diario in arabo. Deluso, egli mi disse che se fosse stato scritto in italiano, sarebbe stato meglio. “Posso provare a tradurlo se servirà a qualcosa” chiesi con entusiasmo.
Così rimanemmo. Tuttavia, la prima grossa difficoltà che incontrai non era il problema della conoscenza dell’italiano, bensì l’angoscia di dovermi mettere tutto nudo davanti agli occhi degli altri. Infatti, il diario che scrivevo era troppo intimo e scandaloso per me in prima istanza per poter esporlo come una preda vulnerabile e facile per lo stomaco affamato e insaziabile dell’altro. Allora decisi di scrivere un’altra storia fondamentalmente diversa dal diario, anche se prendeva in certi passaggi degli spunti dello stesso diario.
C’era una volta un noto pensatore musulmano che è stato combattuto dal proprio paese perché egli aveva cercato di resistere all’arroganza dei governanti locali della sua contrada e all’oppressione dei barbari dell’Oriente, I tartari ed I mongoli. Aveva preso delle posizioni politiche molto coraggiose e giuste. Era minacciato dei peggiori dei supplizi prima di rendere l’anima. Era comunque contento di servire l’Islam e di sacrificarsi la vita perché vivessero dignitosamente I suoi correligionari. Ma ecco che l’istinto della sopravvivenza suo si era ribellato, pure esso, contro di lui! Per far tacere questo istinto dei vigliacchi, egli lo sgridò con queste parole: “Se mi mettessero in prigione, io ho nel mio cuore un immenso e lussureggiante giardino. Se mi mettessero a morte, essi accorcerebbero la distanza che mi separa dal regno di Dio.” Agostiniana come presa di posizione, no?
Quando lasciai l’Algeria, ero arrivato a un punto di esasperazione estremo. Vedevo ovunque girassi il mio sguardo soltanto disperazione e mediocrità condite da discorsi scialbi e superficiali e piene di odio e di cafoneria. Vedevo l’arroganza nelle divise militari e l’opportunismo nella gente che si vestiva di questo abito dell’onta e della vergogna. Vedevo dappertutto delle schiene piegate sotto il giogo dell’umiliazione e del disprezzo. Vedevo degli occhi arrossati di dolore e sbarrati di spavento e di terrore.
Essendo la situazione così disperata, mi misi a cercare lo stesso rifugio che prima di me, Voltaire aveva cercato e trovato: vivere con un piede all’estero e con l’altro nella madre patria. Cosa ho trovato in Italia? La stessa mediocrità e lo stesso terrore da una parte (la cosiddetta comunità araba) e la persecuzione e l’arroganza dall’altra (gli italiani). Grazie al mio giardino sono riuscito a salvare una pietra orfana e preziosa, una dimensione sublime (la bene amata libertà) che purtroppo gli stessi italiani e la maggior parte della mia comunità per stupidità e per pigrizia mentale e a causa alla sua sensibilità assopita cercavano di seppellire sotto la toga scura della xenofobia e dell’oscurantismo. Grazie al piede che avevo e che ho ancora fuori dall’Italia sono riuscito, in quanto uomo e non in quanto immigrato, a riappropriarmi della dignità che mi spetta in questo mondo magico e crudele nello stesso momento.
In altri termini, io penso che la libertà dell’uomo è libertà soltanto se gli permette di prendere delle distanze dal gregge (non importa che sia la comunità araba o quella italiana,) per non essere contaminato dalla sua mediocrità, vigliaccheria, arroganza o altre bassezze.
T’invito quindi a rileggere il mio romanzo per scoprire che in materia di “dure critiche”, io non ho risparmiato gli italiani. Basta solo pensare all’ingiusto e barbaro trattamento che Karim ha ricevuto da parte di una polizia che si vuole custode e depositaria di ordine in un paese che ha creato il più grande contributo di bellezza e di idee a questa civiltà moderna, e che alcuni usurpatori dicono che essa sia strettamente occidentale!
Se ci stiamo stretti al senso etimologico della parola “integrazione” riusciamo a capire immediatamente il perché delle reazioni violente ed irrazionali di resistenza da parte degli immigrati e anche dalla parte della gente che ospita questi immigrati. Integrare vuol dire, secondo il Piccolo Vocabolario della lingua italiana, “rendere intero, completando di ciò che manca”. Per quanto io sappia all’immigrato non manca niente, né lingua né cultura, né memoria né sogno, né intelligenza né morale… insomma egli ha tutto ciò che un individuo umano dovrebbe avere come bagaglio per entrare in contatto, conflittualmente o armonicamente, con il proprio gruppo. Per cui, se l’integrazione di cui si tratta nella tua domanda intende questo, la parola ha tutte le ragioni d’essere terribile e respingibile
Gli immigrati la temono e la respingono perché essa mette in questione I loro valori, ma gli dà anche l’idea che loro non facciano parte del genere umano il quale non può ovviamente avere nessuna ragione d’esistere senza un’anima propria. Gli individui della società ospitante temono questa forma di alienazione e la respingono per l’unico motivo che essa gli toglie ogni opportunità d’essere particolari o originali.
Furbi come sono e pieni di sé, grazie alle lunghe e varie esperienze di arroganza e di pretesa supremazia che hanno avuto mediante la colonizzazione dei vari popoli da loro dominati, I francesi hanno trovato un sinonimo adeguato per rendere irriconoscibile e quindi più mite e più accettabile la loro pretesa sugli popoli colonizzati. Questo sinonimo non è altro che “assimilazione”. Così, loro erigono la legittima resistenza all’alienazione in un reato punibile con delle espulsioni, incarcerazioni, e a volte con addirittura la liquidazione fisica (basta solo pensare alla caccia dei cosiddetti integralisti islamici algerini negli anni novanta in Francia: Boukalkal abbattuto freddamente con una raffica di pallottole nella schiena!).
Poi come algerino, che ha subito e subisce ancora in e sulla propria pelle gli effetti disastrosi del colonialismo francese, non potrò mai dimenticare le leggi razziali che ci confinavano, in quanto algerini, in un sub topos a metà strada tra la scimmia e l’uomo. Per non parlare dei tentativi innumerevoli di assimilazione fagocita e propriamente biologica che la Francia aveva fatto per cancellare dal mondo degli uomini il popolo algerino e la sua cultura, durante l’era colonialista. Ecco qua un modello di integrazione perfetta ed ecco qua la semplice ragione per cui gli immigrati la respingono e la temono. Dopo ciò, non è preferibile parlare di convivenza nel rispetto reciproco dei valori degli uni e degli altri?
Mohammed Arkoun, uno studioso algerino di mitologia e di religione, dice che l’Islam è un mito. Abbiamo il diritto di giudicare un mito? Non penso; altrimenti ci troveremmo di fronte a un’infinità di miti da respingere come i sogni notturni e di giorno, le utopie e le visioni profetiche, l’invenzione tecnica e la creazione estetico-poetica, l’etica e la speranza metafisica, l’amore e la solidarietà, la libertà e la giustizia…e l'umanità così non avrebbe più una cultura e morirebbe quindi e necessariamente di conseguenza.
Essere religioso non può essere per forza sinonimo dell’essere passivo anche se alcune situazioni storiche e alcuni scritti teologici lasciano intendere che sia stato sempre così. Le guerre di religione che scottavano l’Europa del sei o settecento, se hanno dato luogo a delle popolazioni servili e passivi, hanno prodotto da un’altra parte dei grandi signori del sadismo e dell’inquisizione. I missionari che affiancavano e approvavano se non prendevano parte addirittura alla bella opera dei conquistadores spagnoli o inglesi che tentavano di sterminare popoli e civiltà di un intero continente, questi signori non erano così passivi. Così come il mio protagonista -nonostante la sua “forte religiosità”- nella sua discesa agli inferi di se stesso (per vivere meglio se stesso), non era così passivo, anzi direi che era straordinariamente attivo per la semplice ragione che quel destino l’ha scelto e forgiato lui.
Come tutte le produzioni della mente umana, la religione è stata sempre come il coltello del sacrificio. Se poi lo stesso coltello viene usato per sventrare una persona, esso perde ogni carattere di sacralità. Ma con una persona libera, la religione come tutte le altre dimensioni dell’essere si veste invece di nuovi colori freschi e ci rivela nuovi orizzonti e smisurati cieli dove brilla l’eterno sole della libertà.
Prima di fare questo viaggio dantesco, tante dimensioni con il loro vero significato erano nascosti dentro di lui, inattive, frustranti, inutili come un peso di libri sul dorso di un asino. Al ritorno del suo viaggio, Karim non faceva che raccogliere ciò che aveva seminato. Proprio come il personaggio di una favola algerina. Te la racconto in breve: “c’era una volta un principe che si sentiva soffocato dal Re, suo padre. Decise di andare in giro per il mondo. Sulla strada, incontrava vari popoli. Ogni popolo gli chiedeva di aiutarlo a uccidere chi un drago chi un serpente chi un orco chi una belva… lui, ogni volta chiedeva come ricompensa una capra, una cammella, una mucca, una cavalla e così via. Gli anni passarono e lui finì per avere l’ultimo ed il più prezioso dono per aver ucciso il drago: una principessa. Sul cammino del ritorno, egli trovò un gregge enorme di capre, cammelli, mucche, cavalli …”
Adesso, se noi consideriamo soltanto l’andata, possiamo dire che il principe era un cretino, passivo e magari masochista o vigliacco, perché è inconcepibile per noi il fatto di esporre la propria vita per rifiutare poi I frutti legittimi delle proprie azioni. Ma questa fiaba è fra le più belle metafore del senso della vita. E a questo punto il viaggio infernale di Karim sarà un’altra metafora della vita, e la morte sarà la prova che il senso della vita del protagonista è stato raggiunto nella sua pienezza e come Socrate gli rimaneva di conoscere I misteri di una nuova dimensione, la morte.
Vedi, cara Crisi, che di integrazione non se ne parla nel mio romanzo e nemmeno di immigrazione, anche se il testo manifesto (per parafrasare Freud) parla dell’una e dell’altra. Hitchcock raccomandava a chi vuole essere originale, di partire da un cliché per arrivare a un’opera originale. Quindi partire dal fatto immigrazione per arrivare a una fiction che recita con maestria le peripezie della condizione umana non ha niente di eretico o di banale. Anzi, ne è uscita una fiaba deliziosa sull’esperienza esistenziale dell’uomo tout court, in cui c’è di tutto: origine e destino, odio e amore, gioia e dolore, sogno e disperazione, angoscia e serenità, caso e necessità, dubbio e certezza, stupore e delusione, dignità e umiliazione, vita e morte, fiamme e paradiso.
A modo mio ho cercato di rispondere alle tue domande, usando una chiave di lettura intima del mio romanzo. Che questa lettura sia superficiale o pertinente non importa, perché è ciò che penso. Saluti da
1: intervista lasciata a Davide Bregola per il suo libro “Da qui verso casa”.