Une affaire classée o Madame Bovary c’est aussi moi
Car.,
come le ho fatto sapere, ho ricevuto il numero di Maggio della “Rivista secondaria”. La ringrazio di nuovo per la gentilezza di avermela mandata e per la profusione di generosità con cui Lei ha accompagnato la sua lunga recensione di Fiamme in paradiso.
Spesso non sappiamo distinguere tra lodi e denigrazioni, ma spesso esse sono le due facce della stessa moneta: il disprezzo velato e presentato come giudizio imparziale. Non ho notato niente di ciò nel suo scritto.
Personalmente, quando leggo un libro, cerco di non cadere in questo tipo di perversione della sensibilità. Purtroppo mi trovo spesso a trasportare le sensazioni ed i sentimenti, che l’opera suscita in me, sulla persona dell’autore stesso e non sui fatti, personaggi o situazioni riportati nell’opera. L’attenzione di una critica sana e pertinente dovrebbe portare (mi corregga, se erro troppo) invece su questi elementi che rappresentano o mettono in scena usi e costumi e tratti di vita. Elementi deperibili, scadevoli in sé, che cadono in disuso già e scadono per il fatto stesso che l’opera si chiude o si conclude per sua natura in un intervallo di tempo, mentre l’autore prosegue nella vita e continua a nutrirla di novità, continua a crescere in somma.
L’opera ha, anch’essa, una vita ma solo per un modo di dire. Perciò ha bisogno d’essere rinnovata con la lettura, l’interpretazione e la ri-creazione critica per ossigenarne la vita o la storia di vita che racchiude in sé.
Essa non è un processo che l’autore intenta ai suoi simili ma è una semplice osservazione della moralità (Mores) dell’uomo; una specie di contemplazione attiva o, meglio, interattiva e che dovrebbe essere rigorosa e curata. Contemplazione dei comportamenti, delle idee e dei sentimenti che l’autore in-puta o soffia nell’anima dei personaggi e nelle situazioni e vicende liete o tragiche che fanno vivere o patire lo stesso personaggio.
Quando i sentimenti e le idee accarezzano la mia sensibilità, sono d’accordo, mi rallegro e ostento tanta riconoscenza.
Quando invece questi elementi dell’opera si rivelano indipendenti e sembrano rimare contro il mio amour-propre, allora mi scandalizzo e reagisco energicamente, per non dire istericamente.
Reagisco perché allora mi sento in diritto di accusare la persona dell’autore stesso e, se mi è possibile, giudicarla e condannarla!
E allora quanto veleno sono capace di sputare!
Da tempo, non smetto di pensare al significato della critica, alla sua utilità e soprattutto alla sua etica. Ultimamente mi sono sorpreso a pensare al suo ruolo e al modo in cui la svolgo io e, penso, non solo io. Mi è venuta l’idea di fare una scorreria nel passato della mia vita.
Mi sembra di avervi visto una tendenza, a demonizzare l’altro. Una confusione di sensibilità lunga quanto la mia vita stessa, che parte cioè fin dalla mia prima infanzia e che mi ha accompagnato sempre fino ad oggi.
Ovviamente sono sempre riuscito con qualche foglia di razionalizzazione e di giustificazione a nascondere la vergogna di questa tendenza, di questo mio egoismo nudo e crudo.
A volte mi prendo per una vittima dei complotti del malvagio Altro, a volte mi considero come l’unico illuminato sulle verità del mondo e delle cose, a volte come l’unica persona armata di buona fede e degna di fiducia.
Ma adesso mi trovo un po’ riconfortato dopo aver avuto vento del tema agostiniano della non-innocenza del … bambino!
Ho comunque letto il suo articolo con attenzione e anche con timore. Forse questa ambiguità è dovuta alla mia natura non ancora sistemata (lo sarà mai?). Quanto tempo ci vuole per capire le cose, quanto tempo per assumerle!?
Cercavo infatti le lodi e nello stesso tempo ho paura d’essere denigrato! Questa mini tensione, in parte neutralizzata dalla mia coscienza attuale, si è risolta lietamente quando arrivai alle ultime righe. Ho scoperto, grazie e attraverso le sue, le parole che ho cercato di dire malamente e con difficoltà per descrivere Fiamme in Paradiso cioè: l’avventura della vita umana attraverso le vicende della vita di un individuo.
Un individuo che non può assumere che se stesso, essere se stesso e cerca di respingere con tutte le sue forze e astuzie ogni omologazione, ogni velleità da parte della società di fare di lui una copia, un clone. Essere particolare è ciò verso cui tende l’essere, nostro, umano.
La morte del protagonista significa il giungere a questo grado di libertà. Nella stessa logica si può capire anche la ragione per cui il protagonista si è mostrato, dall’inizio fino alla fine, molto critico non solo nei confronti dei suoi e dei non-suoi ma anche e soprattutto nei confronti di se stesso.
È così critico, fino allo scetticismo, in realtà nei confronti di tutto e di tutti, perché al livello magmatico della sensibilità, l’essere non percepisce e non ascolta che il proprio ego che sarà il metro e la misura di ogni concezione e giudizio, tanto peggio se si confonde poi egli stesso e confonde l’Altro.
Non è questa forse la caratteristica fondamentale della psicologia umana e, via via, dell’arte a cui quest’ultima da’ esistenza e sostanza di vita?
Appena ho finito di scrivere Fiamme in paradiso, mi sono messo a riflettere sul significato della sua scrittura: ogni giorno che passa mi convince che vi si tratta dell’avventura umana, attraverso un personaggio inedito, un brodo culturale particolare, una concezione particolare della libertà e della dignità, delle circostanze particolari dell’esistere e del relazionarsi col mondo e con le altre persone. Karim, il protagonista, come sensibilità, è originale ed unico. È ovvio che una sensibilità del genere non si trova da nessuna parte apposto, bene nella propria pelle, perciò rimane un’anima in pena.
Come è ovvio anche che nessun ethos, che non risponde ai suoi ideali e alle sue concezioni, venga risparmiato dalla sua critica e dalle sue osservazioni.
Credo di aver notato nella Sua recensione una lucidità, un equilibrio e un’armonia nel presentare l’essenziale dell’opera e un tranquillo interroga mento rivolto piuttosto all’opera che all’autore.
Ed è giusto che sia stato così: secondo me, l’opera contiene tutto di se stessa. Non ce n’è assolutamente migliore traduttore che se stessa, fosse anche lo stesso autore.
Bisogna affidarsi all’opera quindi, perché se è in-etico giudicare l’autore, è un imperativo invece scrutare, interrogare e, direi, inquisire l’opera. Non è forse questa la funzione della critica?
E se ci capita spesso di coinvolgere l’autore stesso, il suo paese, la sua cultura, la sua memoria o la sua epoca… pazienza! Perché sarà sempre nell’ottica di chiarirci l’opera, i suoi sensi possibili, i meccanismi della creazione stessa e magari chiarire l’autore su se stesso.
Comunque tutte queste informazioni servono. Servono la cultura, aiutano alla crescita dell’autore e del critico stesso, destano la coscienza del pubblico e migliorano la qualità della vita spirituale dei gruppi umani attraverso gli spazi e le generazioni.
E perché non dobbiamo giudicare la persona? Semplicemente perché non possiamo farlo senza cadere nel ridicolo. So che per lei questo tipo di dubbi e perplessità sono ormai una questione risolta.
A me invece questa ginnastica serve ancora, nel senso che mi aiuta a formulare dei concetti su cui costruire una visione sicura, coerente e de-schizzofrenizzante quindi.
Ma perché conoscere? Per ridurre la tensione che l’istinto della sopravivenza ci crea dentro sotto forma di curiosità.
Altrimenti la nostra diventerebbe una vita con ancora più misteri e ancora più angosce; la nostra esistenza sarebbe insopportabile e noi saremmo costretti ad abbandonarci alla follia se non all’estinzione.
Saremmo allora più frammentati ancora… supporteremmo allora questa frammentazione? Frammentazione che non solo ci mostra l’edera della disintegrazione ma soprattutto ci impedisce di intraprendere ogni progetto o movimento che tendano a renderci la vita sicura, accettabile e gratificante e quindi vivibile.
Giudicare è necessità, ma abbiamo il diritto di sottomettere al nostro giudizio una persona? E noi, chi ci giudica? Lo accettiamo poi?
Uno potrà dire: “Se giudichiamo gli altri, bisogna accettare d’essere giudicati. Che male c’è?” Ma è un gioco? Non è ridicolo come argomento?
Quando ci vestiamo da entomologo, facendoci chiamare critici, e facciamo dell’autore un insetto, non rischiamo di fare dell’arte della critica una sistematica oscena e impertinente?
Criticare dovrebbe portarci a capire e presentare l’opera ed i rapporti che ha con l’autore e il pubblico da una parte e dall’altra parte con la loro cultura, la loro storia e la loro vita presente e futura.
Non possiamo giudicare la persona e non abbiamo il diritto di farlo per la semplice ragione che ci è impossibile ripercorrere la vita, tutta la vita della persona iudicanda per estrarne degli elementi pertinenti al servizio della comprensione.
Ma anche se ci si trova qualcuno capace di una tale follia, sarebbe anche capace di prevenire l’evoluzione nel tempo e quindi il mutamento inesorabile e necessario, inedito per lo più, della persona giudicabile e di quella giudicante? Si sa che tutto è in costante divenire, che non c’è di stabile che il movimento stesso.
Quanto all’opera essa è davanti a noi. È chiusa, è une affaire classée, è finita nel tempo. Tutto ciò che se ne potrà afferrare è l’illusione d’essere in costante svelarsi grazie alle nuove letture e alle interpretazioni aggiornate alla luce delle nuove conoscenze e dello schiudere delle nuove coscienze.
Ma cos’è l’interpretazione, l’approfondimento, l’interrogamento di un’opera? E cosa sono le sue risposte o confessioni se non la stessa creazione mimetico-simpatica dello stesso critico? Una creazione ex novo del critico stesso a partire dell’opera, da lui, studiata ed interrogata? Escludiamo dunque l’interpretazione che mette sempre del suo.
L’opera è quindi passiva, nel senso che di per sé, essa non può più produrre che ciò che ha già dato. Non frutta più niente che non sia già stato in essa.
Cos’è giudicare poi? Che valore ha? Anche qui bisogna fare la differenza tra la perversione di giudicare e l’impulso che ci da’ una data opera a produrre conoscenza da parte nostra e, per uno strano meccanismo di mimetismo, creativo però, arricchire quindi la cultura.
Giudicare è un atteggiamento che prima di tutto dispone i fenomeni e le persone in una specie di spazio geografico.
Poi siccome di spazio si tratta, non è necessario strutturarlo, renderlo intelligibile, dividerlo in piccole parti per renderlo meno minaccioso e più pappabile quindi, addomesticarlo ed accaparrarsene tranquillamente?
Giudicare è un atteggiamento d’arroganza perché permette alla persona di porsi come giudice irreprensibile ed incorruttibile!
Il che significa darsi per buon osservatore, onnisciente, oggettivo, di linguaggio chiaro ed onesto, cioè che rapporta fedelmente le realtà osservate e, soprattutto, - ed è qui che l’operazione di giudizio diventa perversione - arrogarsi il diritto non solo di decretare delle sentenze, ma di dire anche cosa o chi è bene e cosa o chi è male!
Quindi è questa arroganza e questa pretesa (ingiustificate, bisogna sottolinearlo?) di distribuire i valori delle cose e delle persone, di pronunciare sentenze contro la volontà stessa dell’interessato, di tacciarlo quindi di malafede, di menzogne o d’ipocrisia (quando - giustamente e per la forza delle cose - si rivela refrattario ai risultati-sentenze delle nostre osservazioni), di avere il diritto d’ingiungergli il modo di concepire il mondo, di scegliere, di parlare o di tacere… insomma violentare la dignità della persona privandola da ogni possibilità di dire se tessa, di raccontarsi, d’esprimersi, di definirsi, d’imporsi in quanto individuo, d’esistere alla fine.
Privare una persona d’essere un individuo autonomo, inalienabile, non confondibile con lo sciame dei suoi congeneri… è mancarle di rispetto semplicemente.
L’individualismo non è forse questa spinta, questo motore o, meglio, questo specchio alle allodole che alletta la razza umana e la mantiene in piedi e la fa perseverare sul cammino verso una liberazione sempre più vasta, sempre più autentica, sempre più tragica e nello stesso momento inebriante e quindi sempre bella ed attraente?
Giudicare, in questo senso, è ridurre all’inerzia l’umanità dell’uomo, è uccidere l’uomo.
Giudicare è questa brama di circoscrivere la realtà, con delle parole, per ingabbiarla in un discorso che è di nostra creazione, che ci appartiene e, di conseguenza, ci da’ il diritto di possedere la realtà stessa.
Questa riduzione ha una sua pericolosità estrema, quando viene applicata alla politica: ridurre ad esempio popoli interi a delle semplici categorie linguistiche del tipo orde, tribù, terroristi ed altri stati- canaglia…
Questa riduzione ha sempre portato ineluttabilmente all’uccisione di massa, allo sfruttamento dell’uomo, alla depredazione delle sue ricchezze, alla distruzione degli Stati, all’annientamento dei paesi con la loro memoria, le loro civiltà, le loro culture e la loro dignità.
Questa riduzione o, meglio, questa grande mistificazione ha permesso e permette tuttora una tale distruzione senza senso di colpa, ingannando e neutralizzando nelle coscienze lo sdegno, lo scandalo e paralizzando la determinazione dell’opinione pubblica internazionale di fermare tale emorragia della dignità umana.
Giudicare invece l’opera, ormai finita e quindi passiva, è farla parlare di sé ed è incitare l’Altro in quanto pubblico (chiunque entri in rapporto con essa e in qualsiasi epoca, luogo modo è considerato pubblico) a parlare di sé per reazione, per imitazione o per ispirazione; a meno che si consideri l’opera come un prodotto comune, che prende spunto in un individuo, singolare o plurale, ma che l’Altro (contemporaneo all’autore iniziale o posteriore a lui) porterà a termine.
Giudicare l’opera è quindi non solo necessario ma anche possibile perché essa non soffre il disprezzo nelle sue due facce: essa rimane indifferente alle nostre lodi o ai nostri rimproveri.
In più la sua voce ha ormai esaurito la fonte dei sensi inerenti a essa, contrariamente all’autore che, lui, è sempre là, non è finito, non ancora.
Anzi egli rischia di smentirci, tenta di corromperci, d’ingannarci, di ricattarci, di mischiare le carte, di tacere gli elementi pertinenti ed ostentare quelli di poco rilievo.
Inoltre ci sono anche i nostri vari rumori e quelli del coro… tutto ciò non può che renderci il lavoro di critica se non vano almeno molto relativo e frammentario.
Se l’universo autore ci smentisce, esso lo fa spesso non per capriccio puerile o incosciente ma a causa dell’universo infinito dei possibili imprevedibili che possono investire ed assalire ad ogni momento o attimo la sua vita cambiandola o addirittura re-inventandola.
Si aggiungono a questo i limiti cognitivi dell’uomo, la sua incostanza in quanto desiderio essenzialmente inappagabile, l’inintelligibilità fondamentale delle cose e degli esseri che ci circondano e le ambiguità linguistiche ed epistemologiche a cui ci affidiamo.
Certo, criticare sarà una specie di presentarsi all’altro ma con il libro o l’opera, sotto l’ascella o in mano.
L’autore affida alla propria opera una fetta della propria vita ma che non andrà mai oltre al punto finale.
Lui la trascende sempre, finche è vivo. E quando lui non c’è più, essa rimane ma sempre come una traccia infima della ricchezza illimitata della vita del suo autore.
L’opera è sempre stata quindi una specie di continuazione della pelle dell’autore ma non diventerà mai l’autore stesso.
A questo punto, se la vogliamo dire con Flaubert, bisogna aggiungere “aussi”. La famosa boutade diventa: Madame Bovary c’est aussi moi.
L’opera diventa una parte infima del vasto tempo che è l’autore.
Creare un’opera non significa presentarsi “onestamente”, allo stato puro. Significa interrogare il mondo e l’essere nella loro complessità in quanto spazio-tempo simbolico, epistemologico ed estetico nonché le condizioni sociali e politiche co-levatrici nel processo del parto artistico e creativo.
Leggere un testo significa, in più, coinvolgere la propria soggettività e integrarvi elementi personali come il carattere, l’esperienza del vissuto, la formazione, gli incontri, l’ideologia ed altri interessi culturali ed economici.
Giudicare l’opera è tentare di godere ed ammirare l’utilità e l’intelligenza dell’uomo attraverso il suo lato divino: la sua capacità di creazione.
Il critico della letteratura degli immigrati e, per estensione, dell’arte dei popoli dell’oriente o del sud del mondo, con la sua mania di categorizzare ad ogni costo, cerca di mettere in quarantena quest’arte e quella letteratura, come se fossero infestate da qualche malattia contagiosa.
Questo tipo di critici ha una sola maniera di vedere le cose: la sua. Purtroppo - in virtù di una legge khalduniana sull’alienazione: legge che vuole che il vinto riproduce ed assume il discorso del vincitore-, troviamo fra tanti autori di quest’aria bandita quelli che la pensano come la pensa il loro boia di giudice: contro la propria dignità.
E non è per questo che l’uno e gli altri hanno peccato, ma per l’assurdità di voler appiccicare una stessa etichetta su tutte le infinte e svariate situazioni di culture, di sensibilità e d’epoche.
Così questi critici, per mo’ di dire, hanno inibito lo slancio creatore negli autori e frustrato la speranza del pubblico.
Ad alcuni autori dicono che le loro opere sono dei semplici vagiti nello stagno esecrabile della mediocrità e della miseria.
Ad altri dicono che queste stesse opere non costituiscono che la copia di una sola opera originale che sarebbe quella primordiale (questa è tuttavia sempre calcata, plagiata, rubata a qualche prometeo, maestro che proviene ovviamente dal primo mondo)!
Ma ad entrambi dicono in conclusione che le loro opere non sono che delle semplici testimonianze a cui manca la sublimazione che da’ lo splendore all’arte e la rende degna di questo nome.
A proposito dell’autobiografismo, si dice - nella nota 1 dell’Atto III, Scena IX “Le Bourgeois gentilhomme” (Gallimard 1999) - che la descrizione che Molière da’ di Lucile non è altro che la descrizione della propria moglie. “Molière aurait fait ici le portrait de sa femme.”
È da dire quanto è difficile per l’autore di fare a meno della materia prima che sono gli elementi autobiografici.
Sì, essi ne costituiscono il campo di lavoro dell’autore e nello steso tempo la sostanza nutritiva dell’opera.
Questo tipo di critici si scelgono arbitrariamente quest’opera primordiale - tanto l’una vale l’altra, no?! - che dovrà essere esaustiva, esauriente e definitiva.
Non sanno, povere creature di critici, che ciò facendo, essi costruiscono una cella stretta dove cercano di rinchiudere delle realtà più vaste e quindi refrattarie, martirizzando la libertà, trucidando con essa l’intelligenza e la dignità dell’uomo.
A questo punto, Agostino, per effetto retroattivo, e Apuleio diventano degli scrittori nella lingua migrante(!) che gli extracomunitari parlano!
In realtà è umiliare l’arte di scrivere, e non solo l’arte di scrivere, il ficcarla nella cella stretta di letteratura della migrazione.
Insomma se siamo immigrati, siamo colleghi, parliamo una lingua identica (che si chiama migrante) e proveniamo da un paese identico ce si chiama Etnolandia!
Quante follie si fanno a causa di questo delirio di categorizzare! L’ultima fra queste cretinerie è la sentenza del giudice bavarese che ha riconosciuto come Attenuanti “etniche!” l’origine sarda di un signore che avrebbe violentato (noti l’ossimoro) la sua ex compagna!!!
Un altro bastardo partorito da questo tipo di follie è la letteratura cosiddetta francofona. Ultimamente è sorto in Francia un dibattito circa questo argomento, che ha iniziato con un certo clamore, l’anno scorso con Amin Maalouf che ci vedeva una semplice esclusione degli autori d’espressione francese, ma di provenienza terzomondiana.
Pensavo che la protesta fosse un semplice capriccio da parte del viziato Malouf, invece non era così: è ri-sorto ultimamente ed è stato esposto sulle pagine del quotidiano Le Monde, nel corso della settimana scorsa.
Si legge, più o meno questo: Con categorie come la francofonia, la letteratura migrante o della migrazione … è la dignità della scrittura prima ancora di quella dello scrittore che viene calpestata con disprezzo e con ingratitudine. È una messa in quarantena della letteratura, in dei bantoustan culturali, direbbe un Koffi Kwahulé.
Questa esclusione premeditata ed eseguita freddamente alla luce del giorno è ciò che costringe gli autori della confraternita migrante (coloro che scrivono in francofono come dice Wajdi Mouawad, lo scrittore canadese d’origine libanese) ed i loro colleghi stabilitisi in Italia o in Germania e non solo - che, loro, scrivono sempre in migrante – a rimanere nelle loro piccole ed insignificanti caselle.
È una deportazione simbolica ma non senza conseguenze gravemente dolorose e reali. Dolorose conseguenze che colpiscono questa categoria di letterati nonostante che siano sani, più sani dei loro giudici.
Esiste un trattamento più umiliante per la sensibilità dell’artista e le sue aspirazioni, più distruggente per il suo orgoglio e la sua libertà, più ledente per la sua dignità e la dignità dello spirito umano?
In conclusione, devo dire che le informazioni che contengono queste mie parole non devono in alcun modo essere scambiate per la verità stessa.
E va da sé: esse non sono utili che per attizzare il fuoco delle domande e mantenere in vita il nostro spirito.
La critica è una ginnastica fine, delicata e necessaria ed è nello stesso tempo un imperativo cognitivo, estetico e morale – vitale quindi - che non ci lascia alcuna scelta di svolgerla o di snobbarla.
Il dilemma sarà dunque: se sono capace di non giudicare o se ho paura di giudicare, non rischio di snobbare l’opera e di cadere nell’indifferenza e nel disprezzo nei suoi confronti e nei confronti della spiritualità dell’uomo?
Chiudo con queste due sentenze latine, una di composizione mia, l’altra l’ho pescata nelle Confessioni di Agostino:
1) Sapientia mediocritatis ornatur.
2) Sic ergo quaeramus tanquam inventuri, et sic inveriamus tamquam quaesituri.