El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Sete o fame

Abdelmalek Smari

Sete o fame di dire…

“Mais toute langue en général étant pauvre de mots propres pour les écrivains qui ont l’imagination vive, ils sont dans le même cas que des étrangers qui ont beaucoup d’esprit : les situations qu’ils inventent, les nuances délicates qu’ils aperçoivent dans les caractères, la naïveté des peintures qu’ils ont à faire, les écartent à tout moment des façons de parler ordinaires, et leur font adopter des tours de phrases qui sont admirables toutes les fois qu’ils ne sont ni précieux ni obscurs ; défauts qu’on leur pardonne plus ou moins difficilement, selon qu’on a plus d’esprit soi-même, et moins de connaissance de la langue. »
Diderot – Lettre sur les aveugles.

Car.,
mi dispiace tanto di non aver potuto assistere alla presentazione del libro di S. perché proprio per quel giorno e per quella serata avevo preso un impegno!
Spero di poter rimediare un’altra volta. Spero anche di avere l’occasione di leggere ciò che tu avevi preparato per l’occasione (la tua critica-lettura) e come era andata la presentazione; mi piacerebbe conoscere il tuo parere, sicuramente, non tanto mieloso...
Un giorno prima della presentazione, avevo mandato una poesiola a S., da leggere nel momento del dibattito, ma lei forse non ne aveva colto l’importanza e mi aveva scritto invece come risposta “grazie malik... anche se non capisco bene le tue righe…”!
Ecco anche una risposta, più articolata e pertinente, alla domanda che mi avevi fatto ultimamente quando c’eravamo visti in biblioteca.
Mi avevi chiesto se continuavo a scrivere… ed io lì per lì ti avevo detto: “Sì! Scrivo mail” e forse davo per scontato che scrivevo altre cose di un altro tipo. Penso che ti avevo risposto per il tipo di scrittura che tu conosci ormai di me: la mail impegnativa.
In realtà io non smetto mai di scrivere da ormai circa un quarto di secolo. Ovviamente non posso garantire né la sensatezza né l’eleganza di quegli scritti, ma come un astro incandescente devo solo ardere, raggiare e diffondere la mia luce o il mio fuoco.
E penso che ciò sia il proprio dell’uomo in questa nostra epoca ed io da questo punto di vista mi sento uomo e mi sento di coscienza tranquilla.
Sì cara M., continuo a scrivere anche se non pubblico quasi nulla. E poi devo anche mettere un po’ d’ordine nelle cose che ho scritto, nei miei appunti, nei miei schizzi. E ciò è in sé un lavoro molto stancante e ingrato, ma lo devo fare.
Ormai ogni volta che la mia insicurezza mi fa vedere sul precipizio del trapasso, in me si desta lo sgomento all’idea di dover lasciare un caos dietro di me e di lasciare quindi un “nulla”! non è così che si ringrazia la vita o chi ce la da’. No!
Scrivo per il mio blog, ed è una fonte di non indifferenti pene e soddisfazioni anche.
Faccio degli schizzi per racconti e per altri progetti.
E scrivo poesie e trovo anche il tempo di vivere, di annoiarmi e di gioire, di sognare e di incubare, di soffrire e di sperare e consegno il tutto ad un diario.
Pensa che ultimamente una casa editrice mi ha proposto di pubblicarmi la mia raccolta di poesie “Tempora et mores”. Mi ha mandato fino a casa il contratto! ed io ho rifiutato: non le ho nemmeno dato una risposta.
Volevano stampare 100 copie e farmi comprare 70 ad 11 euro la copia! Come se io fossi l’ultimo delle scimmie rimasta ancora negli alberi… Ne abbiamo parlato di questo tetro argomento, di questi ladri parassiti, ti ricordi?
Mi capita spesso d’essere sciocco… ma mi rimane l’indulgenza di chi mi è amico, e di chi mi capisce, come consolazione…
Ti ringrazio tanto per la tua indulgenza, per i complimenti che non manchi di farmi per il mio modo di scrivere. Ed io ti dico se c’è davvero un merito, questo è da spartire tra me ed i miei “lettori”, la mia lettrice...
È che a volte non riesco a trovare nemmeno cosa dire o scrivere, se non mi viene in soccorso una persona che mi stimoli e mi apra la musetta dell’ispirazione.
Ho pensato a questa particolarità e ho fatto anche l’ipotesi che si trattasse di una specie di anomalia, di dipendenza patologica dagli altri, di sterilità spirituale e creativa, di una sorta di plagio indiretto… e mi ero anche spaventato di quest’idea.
E a volte mi si poneva addirittura il problema morale se io potessi sapere essere grato a chi mi favorisce di questo sublime dono…
Ne soffrivo un po’ atrocemente e in più da solo e in silenzio; infatti mi vergognavo di confessarlo agli altri, dopo che ne avevo misurato la meschinità quando me lo ero confessato a me stesso! Non so per quanti anni ero rimasto in questo atroce dubbio.
Solo la lettura di una lettera di Gramsci me ne aveva guarito. Anche lui aveva bisogno d’essere “stimolato” e l’aveva confessato a Tatiana, ma lui non vi riconosceva una patologia. Saggio come era, sapeva che la comunicazione si fa e si deve fare necessariamente a due (l’Io e l’altro/altri), altrimenti è solo schizofrenia o autismo.
Pensi che io abbia abbattuto questo dubbio stupido?
Certo, solo che un altro ne ha preso il posto! Quando ho letto: “Piacerebbe anche a me riuscirci, ma mi rendo conto di essere sempre troppo legata al particolare e di perdere quindi la possibilità di sviluppare una visione d’insieme, …” io ho pensato:
“Oddio! Lei mi fa scrivere pagine e pagine, mi spalanca con modeste ma pertinenti righe porte ed orizzonti incontenibili… ed io? Io non riesco a renderle la pari; anzi la lascio sempre sulla sua sete o fame di dire!”
E deduco quindi che non sono che un parasita, un egoista, un incapace della vera comunicazione e mi sento un po’ piccolo, un po’ in colpa, un po’ miserevole…
Mia zia, quando era piccola alla vigilia di andare a scuola ebbe un grave problema pratico. Allora non c’erano gli asili nidi né scuole materne per gli indigeni in Algeria: dovevano affrontare direttamente la scuola con lo shock inerente a questo impatto brutale.
Ma mia zia sembrava avere un’altra preoccupazione (forse un sotterfugio o una sorta di somatizzazione per scongiurare o sciogliere l’angoscia di fronte all’ignoto, alla novità inaudita); si chiedeva appunto rivolgendosi a sua sorella come fare in modo che la penna non le scivolasse sul foglio o non glielo perforasse!
Io, il primo giorno di scuola, avevo semplicemente pianto davanti al maestro che in più mi aveva preso in giro e mi aveva coniato un sopranome che mi aveva avvilito davanti a me stesso e negli occhi dei miei compagni fino a qualche anno fa’!
Ma la storia della tagliente penna e del delicato foglio, in qualche maniera, la vivo tuttora anch’io: mi capita quando rileggo i miei scritti, quelli che richiedono un grande impegno e una faticosa applicazione, di chiedermi come era possibile per me realizzare ciò!
Come del resto mi chiedo anche, dopo il passaggio pericoloso di un sentiero in montagna sull’orlo di un precipizio, “Come mi è stato possibile passarlo?”…
Certo, retro-guardando i nostri exploit dopo che le luci del contesto creatore si spengono ad una ad una, ci lascia, noi per primi, stupiti…
Adesso lascio da parte i miei ricordi lontani e ciò che io sento per ciò che Diderot scrive nella sua “Lettera sui ciechi” e provare a capire ciò di cui ci possiamo legittimamente lamentare cioè: la sete o la fame di dire.
“Ma – scrive Diderot - ogni lingua in genere essendo povera di parole adeguate per gli scrittori che hanno l’immaginazione viva, sono nella stessa condizione degli stranieri che hanno molto spirito: le situazioni che inventano, le sfumature delicate che vedono nei caratteri, l'ingenuità delle pitture che devono fare, li allontanano ad ogni momento dai modi di parlare ordinari, e fanno loro adottare dei giri di frasi che sono ammirevoli tutte le volte che non sono né preziosi né oscuri; difetti più difficilmente perdonabili, a seconda che si ha più di spirito sé stesso, e meno di conoscenza della lingua.”
Quanto al tuo “daimón”, mi sa che ti devi “rassegnar(e) a convivere con”: la nostra psicologia è infinitamente complessa e complicata.
La nostra psicologia assomiglia un po’ alla domanda che un vecchio conduttore della tv italiana soleva rivolgere agli ospiti della sua trasmissione, e alla risposta che vi aveva dato Gian Carlo Pajetta:
“Cosa c’è dietro l’angolo?” Chiese il giornalista.
“Un altro angolo” rispose il politico.
E ci rendiamo conto di questo covo di aporie che è la nostra psiche e ci spaventiamo anche nella maggior parte dei casi, e speriamo che essa (o i suoi mostri) ci venga presentata contro-natura cioè: come una superficie liscia, netta, senza sconcertanti rilievi e angoli…
“Così – pensiamo/chimerando – siamo sicuri che la nostra psiche non ci nasconda sorprese altrettanto sconcertanti, che accarezzi nel senso dei peli il nostro orgoglio/illusione di poter onni-conoscere e onni-potere su noi stessi…
E questa illusione, sempre che rimaniamo ‘‘modesti’’, ci permette d’essere un po’ credibili per noi stessi soprattutto!
D’altronde se noi estendiamo queste nostre “virtù” d’onni-conoscere e onni-potere al resto delle creature e al mondo, concedimelo, siamo nella mera follia, in pieno delirio…
In altre parole ci sentiamo sicuri se noi ci convinciamo che la nostra psiche (ovvero quel che possiamo essere) ci permetta di controllarci, di controllare quindi la nostra presa sul reale e di controllare soprattutto l’altro con le sue fonti d’invidia, di minaccia e d’ingratitudine…
Questa visione unitaria, difficile se non impossibile perché chimerica, perché fatta d’infiniti angoli, ci fa luccicare un altro miraggio, un’altra visione altrettanto impossibile, di sentirci uni ed uniti: unico vero baluardo contro l’angoscia di spezzamento… e meno male!
Purché rimaniamo con i piedi a terra affinché le arie che ci diamo non ci portino troppo in là rispetto all’orlo del precipizio.
La figura dello psicologo, à défaut, riempie pienamente questo ruolo dolcemente mistificatore, illusoriamente consolatore…
Però non è detto che quella parola non sia proprio quella del nostro Io, del confessore o di qualche ciarlatano (come Nabokov chiamava Freud!)… parola che ci aiuta a far maturare e tirare fuori dalle nostre profondità un senso atto ad appagare la nostra sete o fame di conoscere, di dire quindi e di potere…
Ovviamente se crediamo ai padri fondatori come Freud o Lacan… e poi come diceva Alfred de Musset, “Cosa c’importa del flacone purché si abbia l’ebbrezza!”
Ultimamente, anch’io sono passato per una crisi molto profonda; ho pensato a tutte le possibilità (a cui ho potuto pensare) di spiegazione e di “salvezza” ma tutte mi si sono presentate come valide e nello stesso tempo impertinenti, le une come le altre, e quindi nulle!
Ci vuole la serenità acquisibile secondo me con esercizi fisici, con qualche parola lucida o con qualche compressa o goccia di lexotan o tutto ciò insieme.
Dopodiché ci si metta a sbrigare le cose utili e gradevoli (prioritarie) della vita (realizzare i progetti e sognare).
E allora non penso che ci si trovi dopo ciò il tempo di annoiarsi. Se è così, un po’ d’incubi non farebbero che stuzzicare la vita e mettere in risalto la nostra gioia di viverla.
Anni fa’ conobbi Ierina, una cittadina ceca di Praga, un po’ eccentrica. Ciò che mi aveva colpito in lei fu la sua filosofia di vita: preferiva fare degli incubi che dei bei sogni!
Mi spiegò poi il motivo dicendo semplicemente che il buon sogno la illudeva e non teneva le promesse che le faceva. Invece l’incubo sarebbe una preparazione alla gioia concreta di scoprire che non si trattasse appunto che di un incubo…
Ierina sarà un tipo psicologico masochista? Può darsi, ma considerando la sua filosofia in sé, senza troppe elucubrazioni e sofisticazioni linguaggieri, potremmo dire che il suo è un modo come tanti altri che c’insegna a convivere con il fondamentalmente ostile Reale che altrimenti sarebbe comunque insostenibile…
Scusa questa tortuosità; è la fatica di voler arrivare ad esprimere ciò che sento e voglio dire… ma glissons, come dice qualcuno…
Per quanto riguarda la poesia araba, si dice che quella pre-islamica è il discorso fondatore del popolo arabo. Non è per niente che è considerata, persino dai grandi teologi, che possono essere anche grandi bigotti, la prima autorità linguistica, prima ancora del Corano!
Questo testo, a prescindere dal fatto di crederci o meno, è prima di tutto un testo sommo di poesia! Lermontov, credeva di aver scoperto in Pushkin un’originalissima e sottile procedura retorica poetizzante al massimo grado: quella di issare a “divine” le bellezze della vita o della natura, ricordandole e usandole come giuramenti sacri!
Questa procedura, il Corano l’aveva creata, che io sappia, ex novo e usata intensamente ma mai se ne sente la puzza di bruttezza o di abuso.
Anzi quella procedura lo rende ogni volta che si leggono quei passaggi ancora più dolce per i credenti e più seducente per i non credenti!
Comunque in parole povere, la diffusione del Corano - almeno presso gli arabi e gli arabofoni - è dovuta alle sole spade di quella poesia divina ed originale.
Nonostante ciò, la poesia pre-islamica è considerata come il primo riferimento per dire che una parola, una costruzione sintattica o una bellezza retorica siano o meno arabe.
Se la poesia delle limpide fonti delle origini, come appunto la poesia di un Imru’ al-Qays che tu hai intuito bene, non le riconosce, quella parola, quella costruzione o quella bellezza non verranno considerate, elette, arabe!!
Gibran era un romantico ed era rimasto romantico secondo me. Romantico nel senso che si era innamorato di una scuola, di una lingua o di un’epoca ed è rimasto lì.
Ha voluto fare il profeta ed era fallito. Voleva essere una specie di Nietzsche ma era fallito ugualmente; nel primo come nel secondo caso non ha potuto detronizzare il Nazareno né superare lo slancio dell’autore di Zarathustra.
Un’altra gaffe, di buon senso questa, è che credeva tanto alle balle rousseauite! C’era un grande critico egiziano, grande poeta anche lui, Mahmud Abbas El Aqqad, che lo aveva attaccato su un’idea erronea della giustizia e di altri valori umani: Gibran pensava naivamente che la giustizia esiste solo nella natura bruta e dimentica che essa è o non è umana.
Comunque hai visto giusto Gibran è un po’ problematico: da una parte continua a “seviziare”, dall’altra non si vede con quali armi o performance!
Ma ridimensionato, egli rimane comunque un grande poeta per il fatto che ci aveva provato. Inoltre anche lui, come Byron, non amava i turchi.
Forse è considerato grande, brillava ed era emerso fra tanti i suoi connazionali per un motivo ideologico: aveva il compito di combattere la presenza ottomana nel proprio paese e nei paesi arabi…
In altre parole aveva preso posizione per barattare la presenza ottomana contro quella inglese e francese.
Non dimentichiamo che la sua fu un’epoca di intensissime agitazioni di guerre d’occupazione e di estensione colonialiste.
Dico questo perché ho una mia ipotesi sulla cosiddetta genialità o il cosiddetto successo dei poeti e degli artisti: secondo me c’è un rapporto stretto tra il successo artistico-letterario e qualche protezione politica o colore ideologico. Non parlo poi del potere finanziario e mediatico. Gli esempi non mancano e sono anzi abbondanti.
E poi spesso non ci sono più di un posto per due geni alla volta.
Il genio è un abito che sta ad una sola persona, quando se l’indossa, agli altri rimane che da applaudire di falsa o autentica meraviglia, da sorridere di grandezza e di indulgente comprensione, da invidiare e denigrare quindi o da rassegnarsi rifugiandosi nell’indifferenza.
Il genio infine è quello che presto se ne va perché si consuma in quattro e quattro sia per la sua impazienza, sia per la sua generosità, sia per un difetto di misura; e Gibran era morto giovane ed era forse molto promettente e l’ammirazione di cui gode, forse è una specie di sfida da parte dai suoi ammiratori contro la morte che glielo aveva portato via prima che egli consegnasse loro tutto ciò che la speranza in lui prometteva loro…
Forse Gibran fu quello che fu e conta ancora oggi quel che conta perché aveva scritto in inglese, lingua “prestigiosa” (già da allora!) che gli aveva permesso di attirare sguardi e riguardi. Scriveva anche in arabo, in una linguaggio molto osé per l’epoca, sulla cosiddetta sacra trinità araba: politica, amore e religione.
Forse a suo tempo, Gibran era già per un suo contemporaneo dell’Europa (soprattutto allora assai) avanguardista un poeta di secondo ordine, figurarsi oggi che la “scienza” della poesia e la poesia stessa avevano fatto altri grandi passi nel progresso e nel perfezionamento. Forse perché fu anche pittore e frequentò per qualche tempo il grande Rodin che gli avrebbe concesso un po’ della sua barakà
Forse perché era l’unico cristiano grande poeta (o considerato tale per il resto dell’analfabeto gregge musulmano pascolante nel mondo arabo) che aveva valorizzato il Corano.
Ma oggi penso che - a parte per qualche adolescente o qualche romantico in ritardo, nello stesso mondo arabo - Gibran sia già stato molto ridimensionato.
Non ti dico quindi che sei “superba e arrogante” se io stesso come te “non riesco a trovare in quest’ultimo un grande valore poetico” anche se lo avevo letto e forse lo rileggerei per altri motivi con grande piacere e grande interesse.
Ma Gibran non era solo poeta; scriveva dei profondi racconti. Mi viene in mente uno in particolare molto ironico che prende (o si prende) in giro il tipo di artista che crede nelle caratteristiche fisiche del poeta o del genio.
Un ritratto molto significativo, angosciante, dell’angoscia della creazione artistica che non smette mai di torturare il più sereno fra i creatori…
Ciò detto en passant, questa è una tematica in sé nuova per la nuova letteratura araba che stava allora nascendo e prendendo forma e forza dopo secoli di morte clinica nel mondo arabo. Letteratura che era partita giustamente da quella piccola provincia del mondo arabo che era la grande Siria storica di cui faceva parte il Libano, paese natio di Gibran.
Forse è anche perché fu un pioniere fra i pionieri della nuova letteratura araba che gli arabi, criticamente o acriticamente, continuano fino a oggi a essergli grato.
Car., mi chiedevi nella tua ultimissima mail: dove ero? ti stavo scrivendo…

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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