Come un fiore che esce alla luce del giorno dal marcio cuore della terra
Car., “
ti ringrazio molto dell’attenzione che serbi per la mia persona. Ti ringrazio anche per aver segnalato il mio nome all’Associazione italo-algerina (non so quanto né se le possa essere utile).
Questa mia lettera è scritta a te, non contro te o contro la tua rivista; essa si vuole una modesta e titubante riflessione da parte mia sulla cosiddetta letteratura migrante (o detta anche degli autori immigrati). Letteratura di cui rifiuto il nome, perché sfigura e comprime un’esuberante e nobile realtà.
La rifiuto perché vi trovo una forma sottile e diabolicamente efficace per escludere dall’Esistenza crudelmente, spietatamente, strati e fette interi che fanno parte integrante di un corpo totale.
La rifiuto anche perché questo fenomeno non ha autonomia, non può quindi prescindere dalla realtà globale che lo avvolge e gli da’ sostanza e senso.
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Questa letteratura, tale come ce la presenta la parola (demagogicamente coniata e sostenuta), non è sufficiente per poter esistere: fuori dal movimento generale della letteratura italiana presente, essa non può aver senso né esistenza.
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Ficcarmi quindi in una cosa che non esiste, revient à dire che nemmeno io esisto, è come moltiplicare una cifra (la più grande possibile che sia) per lo zero; il prodotto darà sempre zero.
Un’altra precisazione terminologica: io rifiuto anche l’uso di una parola come Occidente. Preferisco piuttosto parlare (nel mio caso) del paese ospitante (l’Italia, versione storico-culturale però); sempre che quest’altra nozione sia chiara per me e per i miei interlocutori.
Trovo che l’uso della parola Occidente risparmia alle menti pigre e senili lo sforzo, spesso insostenibile, di capire i fenomeni umani e da’ loro l’illusione di abbracciare e quindi impossessarsi, con costi infimi, quasi dell’intero mondo!
Perché ciò che rimane di quel mondo è l’Oriente, ovviamente… che pietoso e regredito manicheismo! Che magra ambizione!
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Scusami caro Karim, se nella mia mail precedente ho omesso di fare eccezione del vostro sito per quanto riguarda questa polemica che è forse affare più mio che di nessun altro. Almeno, mi rendo conto che le sto dando tanta importanza (inutile?) e a me stesso parecchie pene inutili(?), anch’esse. Davo per scontato che tu avresti capito che non si trattava di fare alcun processo a nessuno, se non a qualche costruzione mentale tra l’altro del tutto secondaria per i paesi e per il secolo…
Nella stessa mail ho anche fatto allusione al tuo sforzo (senza omettere di complimentarmi di ciò con te) di creare una sintesi a partire da questa caotica produzione letteraria di lingua italiana per opera di stranieri che abitano l’Italia provenienti dal cosiddetto sud del mondo.
Ero sincero e ho ammirato il tuo sito e il lavoro che ci sta dietro ed il nobile obbiettivo che si intravede.
L’ho ammirato già dalla prima volta che ho visitato Letteranza. Un’altra volta ancora (adesso), ti devo confessare che ammiro molto la tua lucidità che spesso è indicatrice se non della padronanza dell’argomento, almeno della determinazione nell’impegno.
Te lo dico ingenuamente perché è da anni che sto cercando personalmente di forgiare un concetto che mi permetta - anche a me – di fare la sintesi di questa stessa produzione letteraria insolita, inedita e spesso ingrata e non grata e di cui (solamente in parte) faccio parte, nolente o volente.
Vorrei in qualche modo, quando si parla di Metref o di Melliti o di altri della categoria, che si adoperassero lo stesso linguaggio e le stesse categorie, gli stessi approcci che i critici adoperano quando parlano di Bonnefoy, Calvino, Baricco, Stephen King, Yoshimoto, Nabokov…
Vorrei che quando si parla di Ghezim, Kossi, Cristina Farah, Tawfik ed altri Pap Khouma e Saidou … vorrei che la mente dell’interlocutore/relatore non andasse deviata verso i gommoni, la prostituzione, la fame, la guerra, la delinquenza, il traffico di droga come se fossero condizioni inerenti - e per eccellenza – proprio a quella categoria di artisti; categoria a cui solo la loro provenienza dal cosiddetto terzomondo fa loro da denominatore comune…
Vorrei invece che si parlasse di arte, di scrittura, di lingua, di stile, dell’utilità dell’opera, della costruzione narrativa, della costruzione dei personaggi, dell’immaginazione, dell’ironia, del tempo quando si fa opera e speranza, di (cos’è il bello e se è utile?), dell’impegno, … insomma dell’arte e dell’etica di fare arte…
Vedi come m’inceppo e continuo a titubare in questo campo d’infinite mine epistemologiche! Oppure questi sono temi troppo seri e quindi difficili per essere assunti ed abbracciati da strette menti pigre e in più intorpidite come quegli stupidi furbi (italiani o presunti neo-italiani) che si sono auto-proclamati esperti nell’etologia mentale di una nuova etnia homo im-miger che si sta creando non a righello di qualche geometra ma dalla tastiera di un pc.
Ma so che un giorno ci arriverò perché sono convinto che è una questione di abitudini mentali: non ti nascondo che fino a ieri usavo le stesse categorie che oggi trovo infamanti.
Ma il mio orgoglio in quanto essere umano non mi lascia tregua, non mi permette di accontentarmi di ciò che ho o di ciò che sono. Devo sempre interrogare le cose e la mia propria esistenza.
Il miglior modo di sottrarre il segreto alle cose e ai fenomeni è, secondo me, mettere in crisi le mie certezze e anche ovviamente quelle degli altri. Laroui, mi sembra, ha detto che la conoscenza è critica e la critica è conoscenza.
Ma come vedi caro Karim, ogni epoca, ogni luogo, ogni persona hanno un corteo di rompicapi e di polemiche sui generis.
Quindi sottoporre un concetto (che rappresenta per esempio la categoria astrattissima perché appunto costruzione mentale dei cosiddetti ricchi occidentali) ad analisi critiche per afferrare la realtà, non è per forza deificare il sedicente concetto o ciò che si presume rappresenti.
Il nostro atteggiamento (esecrante o deificante) nei confronti di una realtà nuova non è altro che una forma di esotismo (biasimante o inneggiante).
E qui - Abou-Nouass e Freud docent -, desiderio e timore sono le due facce di una stessa medaglia di un metallo ignoto che si chiama lo stupore davanti all’ambiguità originale delle cose e dei fenomeni; il nostro stupore di fronte all’ambiguità dei concetti e delle categorie delle nostre sensibilità e dei nostri discorsi e linguaggi inerenti alle nostre posizioni e rappresentazioni.
Ecco, vorrei per esempio che un critico letterario studiasse l’ambiguità, mettiamo nell’opera di Tahar Lamri. Perché no?
Invece di chiedergli “Come mai la donna afgana del Pantchou sud-orientale, nell’epoca di Sant’Agostino cuoceva il pane, durante l’inverno solo a partire dalle sei di sera e solo sulla legna e non nel microonde?
Sarà perché gli afgani ce l’hanno con l’elettricità e gli elettrodomestici occidentali?
E in questo caso, perché allora usano gli esplosivi ed i Kalashnikov fabbricati negli Stati Uniti dell’Occidente?”
È assurdo, non è? Certo, come le presunte analisi a cui assistiamo.
Credimi, caro Karim, c’è gente che per esempio nega addirittura l’esistenza dell’angoscia esistenziale nell’essere dell’algerino solo perché è uomo orientale!
Un’altra vacuità, anzi due: da una parte il diniego totale e sfaccettato di una dimensione fondamentale (il terrore d’essere - o di scoprirsi – mortale) che è l’umanità stessa dell’uomo; dall’altra parte la presunta esistenza di un uomo orientale.
Quanto alla lingua italiana, è ovvio che essa è un veicolo delle comunicazioni tra gli stranieri in Italia e della maggior parte delle loro produzioni culturali.
E meno male che le cose siano così; perché altrimenti una situazione del genere, la possibilità di una comunicazione tra le varie popolazioni che abitano in Italia, non si sarebbe mai avvenuta ed il problema non si sarebbe posto e nemmeno il nostro discorso, penso.
Meno male che gli stranieri riescono ad imparare l’italiano e che gli italiani sono disponibili ad insegnarlo loro.
Quanto invece al pensare nella lingua italiana per uno straniero, mi sembra una forzatura stilistica(?) spinta un po’ più in là.
In una delle sue famose lettere dal carcere, Gramsci ricordava di aver avuto una crisi dovuta alla sua malattia e alla sua condizione di carcerato; crisi in cui i suoi compagni di cella lo avevano sentito parlare in una lingua straniera!
I compagni, che non sapevano il sardo e che non avevano mai sentito Gramsci parlare in sardo, pensavano si trattasse di una lingua straniera!
Non è più un segreto per nessuno che i profondi sentimenti, quelli che sono quasi somatici, quelli che si confondono con le viscere, hanno bisogno di una lingua altrettanto profonda.
Una lingua come l’italiano, nel mio caso per esempio, può essermi d’aiuto in linea di massima dopo ma non prima che la mia lingua viscerale si occupi dell’argomento-sentimento in via d’esprimersi. Una lingua terza o come l’italiano (sempre nel mio caso, acquisita cioè in quarta o quinta posizione cronologica), viene magari per tradurre in seconda o terza fase il su-detto discorso viscerale.
La lingua italiana può diventare un veicolo del pensiero, delle idee, del vissuto... sì, ma solo quando avremo una persona che nasce e cresce in un ambiente che esclude per necessità se non per natura la concorrenza di altri linguaggi.
Va da sé che questa lingua madre, o viscerale, non deve essere per forza una sola (i genitori sono due, comunque; o è così almeno nella maggior parte dei casi).
È possibilissimo che qualche autore straniero in Italia si senta a disagio o in conflitto con qualcuno o qualche categoria della cultura del paese ospitante; è altrettanto possibile che, invece, porga la mano (o il suo narrare) come una prova di buona fede e di sana intenzione da parte sua di voler dialogare o spiegarsi o chiedere spiegazione… per carità!
Solo che personalmente non mi ci riconosco, per la semplice ragione che io non mi considero in stato di guerra con o contro nessuno. E che io sappia, d’altra parte, io non soffro grazie a dio di nessuna sindrome di persecuzione.
Sono capace d’esprimermi, di assumere le mie responsabilità, di saper vivere in armonia con i tre regni, so piangere e gioire da solo o con i miei co-creati o co-esistenti, e quando ci vuole so difendermi, perdonare, farmi giustizia o vendicarmi…, in tutto ciò rendo conto solo alla mia coscienza e alla legge del paese (righellato o righellante che sia) in cui mi trovo, punto.
Tendere la mano, integrarmi, dialogare, giustificarmi, occupare la mia vita (unica, breve e prezioissima) in scemenze del genere non mi va proprio… per niente.
Sono un individualista convinto. E non esiste per me, o forse l’ho persa come i denti di latte, la credenza nel peccato originale e nella sua palla della colpa dello stesso nome.
L’arte è personale. È indelegabile. È come andare a letto e sognare o fare incubi. È come andare al cesso. È come la radiazione di un raggio di sole. È come il soffio del vento… in altri termini: tutto ciò che non sono è Altro.
Ma ciò non vuol dire che tutto ciò che è Altro sia ostile o, a me, affine. No! L’Io rimane comunque sempre fondamentalmente originale e quindi inedito; perciò ogni opera autentica è di per sé inclassificabile, inordinabile... e per questo motivo essa stupisce, spiazza e non si piega mai a nessun modello o ritmo, se non al proprio modello o ritmo.
Tornando alla tua lettere devo dire che mi hai - più che deluso (in realtà non mi hai nemmeno deluso perché non mi avevi illuso) - stupito.
Sì sono rimasto stupito dalla tua sicurezza nel paragonare il fatto d’essere-se-stesso a l’essere-in-una-gabbia! Hai mai sentito la gabbia lamentarsi d’essere gabbia, le tenebre d’essere tenebre, il serpente d’essere velenoso…?
Aggiungo anche che la tua mail mi ha fatto venire in mente che noi altri algerini (ivi compresi gli ex algerini) - nel nome di qualche incerto o falso universalismo (Islam, umanesimo, ed altri essersi grati all’occidente o all’oriente) - cerchiamo di sottrarci alla responsabilità d’essere dei cittadini di un paese chiamato Algeria.
Ci sentiamo più estranei all’Algeria che agli altri paesi!
La ragione profonda di questa dimissione storica è – ne sono convinto – l’interiorizzazione perfetta della mentalità di colonizzato che vede tutto il male in se stesso e in coloro che gli assomigliano, e tutto il bene nei suoi padroni o in quelli che glieli ricordano.
Pas question quindi d’essere arabi, mussulmani, marocchini, algerini, orientali o anti-occidentali… guai!
Miserabile consolazione, miopia storica!
Gli algerini, appunto, non hanno ancora sviluppato un senso della storia. Il concetto che hanno della storia è purtroppo famelico, primitivo, schizofrenico anche.
Essi sono malati d’antichismo, di berberismo, d’islamismo, d’arabismo, d’ottomanismo, de francismo, di revoulzionismo… e ultimamente di un certo occidentalismo camuffato sotto il burnus dell’immigrazionismo.
Ma tutti questi ismi sono delle tappe d’evoluzione storico-sociali che nessuna mente intelligente, capace quindi di sintesi (se escludo qualche avo illustre che abbiamo perso coi denti di latte), è riuscita ancora a cucirle per farne un’entità unica, sana.
Tappe che invece da noi-altri algerini o ex-algerini fungono più come fasi di fissazione nevrotica a livello collettivo.
Gli algerini non sono ancora riusciti ad operare una sintesi storica. Sintesi che avrebbe risparmiato loro la fatica vana (durante la loro storia lunga e millenaria, nonostante le tesi Radon-isti) di andare a cercarsi la loro anima a destra o a sinistra, a oriente o a occidente, a sud o a nord quando non se la diluisce addirittura nei miraggi di qualche malato universalismo.
Per questo motivo, i figli di quella terra sono rimasti nell’era della beduinità politica e della selvagità morale (come li ha lasciati Agostino, così li ha trovati e a suo turno lasciati Ibn Khaldoun) anche se vestono Ferré, guidano la Ferrari (non so nominare una macchina di lusso francese, eppure la Francia è Occidente! Che paradosso!), scoppiettano nella lingua di Voltaire o di Dante, scimmiottano l’arroganza di Indiana Jones, fanno la chahada o il segno della croce o si fanno baciare da Madonna o benedire dai Papi…
“Algerino” vuol dire tanto per me. E anche se l’Algeria (intendo l’amore per quella terra che ognuno dei popoli che l’hanno abitata, ha chiamato a modo suo) è una gabbia, io l’accetto perché io sarei un soffio d’aria che gira tra le sue sbarre, o la materia stessa di quelle sbarre e sarà comunque per me una gabbia di miele (o di cioccolato, tanto per essere anch’io moderno) che finirà inesorabilmente nel mio palato e lo addolcirà sicuramente.
Per parafrasare Jacottet dirò che il mio paese, quello che ritengo come tale, abita a meraviglia e volentieri la parola Algeria e s’accorda con essa come quegli istanti di felicità e di luce che si ritrovano nelle poesie.
Se la storia lo dice, perché dovrei scocciarmi?
« ... l’Algérie du nord n'avait pas de nom particulier avant de devenir au XVe siècle, avant l’installation des Turcs, la Régence d'Alger, domaine politique aux limites assez floues…
Dès 1831 cependant, le mot Algérie apparaît à deux reprises dans l'ordonnance royale du premier décembre créant une intendance civile…
Ainsi, c'est bien le 31 octobre 1838 que parut au "bulletin des lois" n°609 pour la première fois l'appellation officielle "Algérie" »
http://74.125.77.132/search?q=cache:Yp2of3SKgAMJ:www.alger-roi.net/Alger/alger_son_histoire/pages_liees/naissance_algerie_pn94.htm+qui+a+donn%C3%A9+son+nom+%C3%A0+l%27Alg%C3%A9rie&hl=it&ct=clnk&cd=4&gl=it
Caro Karim, poiché la palla è partita da me, la devo seguire ancora per un po’, occasione o curiosità di vedere dove andrà a finire.
Finirà la sua corsa perché tutto inizia e finisce tranne la geografia che rimane l’unica costante della storia e del tempo.
Ed è su essa che si costruisce ogni discorso non necessariamente sempre assurdo.
So che l’Algeria non è in grado di dare ciò che un altro paese (come l’Italia mettiamo) può dare, ma ciò non le impedisce d’essere una realtà.
So che si dice che era definita e tracciata da qualche demiurgo con il righello - come tra l’altro tutti i territori geografici del mondo e della storia: gli Stati uniti, Israele, la Svizzera, l’Inghilterra. Il nome stesso dei chiamati Amazigh, mauri, numidi, berberi, cabil… per stare ai nomi a noi noti.
Quanto al nome, la stessa Francia ebbe il suo per opera dei germani. Ma non per questo i francesi non riconoscono il loro paese o si vergognano d’essere francesi.
Poi, è logico che il nome viene sempre dato dall’altro. Perché il Noi, il Non-altro quindi, non si pone il problema d’essere, di non essere (a parte forse Ghazali, Shakespeare o Des Cartes), d’evocarsi o d’identificarsi: è se stesso.
È sicuro della sua esistenza e della sua identità. Non si confonde. È l’altro che ha bisogno d’identificarlo, d’evocarlo.
Il Non-altro non ne ha nessun dubbio di sé. Non ha bisogno di (né può) fare il bagno e nello stesso momento guardarsi mentre fa il bagno.
Il guardone è sempre l’Altro. Questa tematica, se la vuoi sviluppare, essa si trova nelle analisi sartriane della creazione del suo famoso Ebreo.
È che l’Algeria come territorio e come memoria è la mia unica nostalgia e musa, è il mio unico amore e orgoglio... sarà una malattia ma mai una vanità o una stupida costruzione mentale o geopolitica. Ma pare che sia un lusso proibito. Comunque rimango come il pescatore di Valery
Heureux là-bas sur l’onde, et bercé du hasard,
Un pêcheur indolent qui flotte et chante, ignore
Quelle foudre s’amasse au centre de césar.
Dico questo ma continuo a sentire la determinazione con cui avevi scritto quella recensione del mio “Fiamme in paradiso” e ciò mi rassicura ancora di più sulla tua coerenza e quindi sull’autenticità di quello che sostenevi allora e quello che sostieni ora.
Ho avvertito questo disagio – il disagio di identificarsi, di portare loro malgrado la tara delle origini -, in parecchie persone: la paura o la vergogna di appartenere o provenire dalla terra dei dannati della terra.
A volte però ci vuole un po’ di coraggio e anche di avventura per riuscire ad assumersi, assumere quella tara di cui non ne siamo che il prolungamento naturale, e che non è altro che noi stessi, e che siamo noi.
È grazie alla magia di quella serenità, di quella onestà, di quel coraggio d’essere responsabili che diamo alla nostra condizione un altro sapore, una altra consistenza per farla uscire, dalle tenebre fetide del letame o del marcio cuore della terra, come un fiore che aggiunge gioia e splendore alla luce del giorno.
Certo la razza umana è una, e dire che sono umano è più profondo che dire sono algerino, ma dire che sono immigrato non è solo alienazione ma è una menzogna, in più, mediocre.
Cos’è l’essenza dell’arte se non è la sua vocazione di far emergere l’individuo dagli inferi dell’anonimato? Di permettergli di costruirsi la propria identità e d’imporla contro il soffocante peso del numero?
Perciò rifiuto e la menzogna e il diktat dell’altro, fosse esso prestigioso come il cosiddetto occidente e il suo orribile alter-ego chiamato oriente (alleanza tra mistificatori/alienati).
Rifiuto queste categorie perché esse non esistono che nella mente malata e perversa della stessa aborrita sacrosanta alleanza citata qui sopra tra parentesi.
Quanto al sig. Radon, egli può anche pretendere di aver acceso il sole o distillato le acque degli oceani, ciò non impegnerà che se stesso e quelli che ci trovano un qualche appagamento alla loro fame mistica; la storia che so io, m’insegna invece un altro parere, diverso, può anche essere scarso o claudicante come concetto ma ha comunque la sua dignità come conoscenza o ipotesi, se vuoi.
Non è giusto né utile riempire l’Italia di una pletore d’artisti forestieri e di secondo ordine (permettimi questo snobismo alla Giulio Cesare) che le sciupano la reputazione anziché renderle qualche servizio.
E nel dire questo, io affermo una mia posizione storico-politica e non per ciò devo sentirmi ingrato verso l’Italia. Ribadisco, anzi, che l’Algeria non solo ha bisogno di me, ma anche ha diritto su di me. E stia tranquillo che questa mia affermazione non toglierà nulla al resto del mondo e ancor più all’Italia o all’occidente, se quest’ultimo esiste.
Detto questo non andrò mai, ma nemmeno col pensiero o la fantasia, fino ad accarezzare la voglia di impedire ad una persona (che la vede diversamente da me e che pretende, sogna o spera) di portare all’Italia nuove ricchezze di cui sarebbe capace.
Poi se gli altri immigrati e/o artisti saranno contenti e soddisfatti della loro condizione di schedati (marcati al ferro rovente come un bestiame), affari loro!
Se loro sono così vicini, ad un spanno dal paese della facile felicità, perché dovrei fare da guastafeste? Solo che io ho scelto di non fare parte di quel beato banchetto, io che non ho nemmeno il diritto di dire che là da qualche parte nel mio cuore esiste un grande paese, di cui sono la carne, lo spirito, la gioia ed il dolore … e che nel nome di quel Radon o del suo imperatore, lo devo ignorare, perché eliminarlo, mai potrò; tutto al più posso negare l’esistenza di quel Randon ma mai quella della mia Algeria.
Essere se stesso non è per chi ne è cosciente un’ottusità o una gabbia, bensì una bella e larga apertura del proprio cuore sulla libertà e la dignità.
Ma si può parlare di apertura se rimaniamo con il cuore chiuso a scimmiottare o papagallare tutto ciò che ci dice il Radon?
Appunto il mio “L’occidentalista” si vuole una piccola riflessione - che può essere discutibile e criticabile ma non buttabile - sulle innumerevoli e plausibili strumentalizzazioni e mistificazioni al fine di sfruttamento con bassi costi morali (senza sentirne la colpa) e penali (senza essere tradotto in nessun tribunale, pensi ai dittatori da Bush in giù) di questa orrenda ed inutile categorizzazione. Nonostante il suo sulfureo approccio, c’è chi ha visto nel mio libro un inno all’Italia. Se processo vi è, esso è contro la sola mediocrità dell’uomo, quello nudo, spoglio da ogni abito o maschera identitaria.
Certo la categorizzazione è una ginnastica mentale, un alimento naturale della mente umana, è una manifestazione, un’emanazione concreta e reale della stessa mente- direi.
Ma il problema è che la stessa mente non inventa solo sensi; ha anche delle scorie, dei déchets. È capace anche d’inventare mostruosità epistemologiche, menzogne e ridicoli assurdità.
Anche qui, libera è la persona di erigere in verità assolute queste infamanti categorie, ma io no! Sarei assai ingenuo, ma non posso credere nella bontà originale o storica del mio simile o se vuoi del mio diverso.
Ho raggiunto, penso, l’età di essere un po’ ingrato ai benfatti della mediocrità, un po’ refrattario al gentile diktat o sottile sollecito dei mediocri.
Mi dispiace per le persone del genere ma ciò non m’impedirà per niente di continuare a dormire tranquillamente, soprattutto quando la signora con gli abiti neri e la falce sfavillante dà tregua alla mia anima, al mio essere o quando dimentico gli incubi degli orizzonti bui del futuro e l’arroganza e le stupidaggini dei miei simili nella storia.
Un caro saluto. A presto!
Malik
Ps:
Se spezzi la crosta del dolore
Annegherai, canto.
Olav H. Hauge