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Cio' che leggere vuol dire

Abdelmalek Smari

Ciò che leggere vuol dire

Caro Karim,
eccomi finalmente! Scusami di averti fatto aspettare più di quanto ti avessi promesso. Ma mi capirai: la scrittura ha i suoi riti e non fa mai di testa sua. Essa esige l’ispirazione e l’aspetta. Sto parlando della scrittura bella e sentita.
In realtà ho finito di leggere il tuo libro tanto tempo fa e man mano che lo leggevo, registravo nel vivo delle impressioni ciò che svegliava in me la lettura (immagini e ricordi personali, sensazioni belle o deludenti, idee varie, nostalgia, considerazioni diverse sull’uomo, l’esilio, l’arte, la storia…) Vedi, anch’io nel mio modo di cercare la quadratura del cerchio, assomiglio un po’ al personaggio del tuo “Diritto di passaggio”!
Ma ho pensato che sarebbe stato meglio darti uno scritto completo, il più strutturato e sensato possibile, capace di rendere il più fedelmente possibile quelle impressioni. Così, infatti, non ti porto a sparpagliare la mente e a sprecare inutilmente il tuo tempo prezioso.

L’imperativo categorico di non sbagliare quando è possibile
Ho notato, penso, un errore di concordanza di tempi, a pagina 15: si tratta di questo passaggio “come se non li abbia mai incontrati…”.
Normalmente – correggimi se sbaglio – si usa il congiuntivo passato dopo il “come se” e quindi corretta, la tua espressione diventerebbe “come se non li avesse mai incontrati…”
A pagina 69, si nota un altro errore – ameno che sia voluto da parte tua perché è colloquiale – che rende brutta l’espressione, come un’escrescenza nella risposta di Uerdiya “Lo so perché siete qua!” l’escrescenza è quella “Lo” iniziale: è di più.
Un altro errore a pagina 103, che io chiamo, d’interferenza a cui è preda ogni persona che conosce più lingue alla volta, è l’articolo inadeguato davanti alla parola “zii”; deve essere “dagli zii paterni” e non “dai zii paterni”.
A pagina 110, si nota invece l’uso della parola “prima” ben tre volte nella stessa frase. Secondo me, è possibile evitare questo tipo di cacofonia.
E finisco con la pagina 111 in cui c’è un errore da non fare; si tratta dell’espressione “pizza d’asporto”. La preposizione “da” semplicemente non può essere apostrofata. Si dice correttamente: “pizza da asporto”.
Scusami di aver iniziato parlandoti di errori. Errori che non devono per forza essere tuoi, ma della stampa o della trascuranza dell’editore. Ma siccome il libro è tuo, hai il diritto di saperlo.
Scusami anche di queste osservazioni; ma la mia intrusione risponde a un mio pregiudizio, avverato tra l’altro dal comportamento negativo di alcune case editrici.
Queste case fingono l’indulgenza o, meglio, adottano il lassismo estetico-logico con gli scrittori stranieri (gli stranieri di secondo ordine), chiudendo uno o tutti e due gli occhio, su errori stupidi avvilenti di lingua o di sintassi.
Fanno queste belinate, esotismi di cattivo gusto, con la scusa di salvare la genuinità del primo getto creativo del buon scrittore allo stato selvaggio!
Getto buono e genuino, perché primitivo (pensa a: io andare, tu mangiare lui abitare…), di questo straniero… Così, pensano di ritrovare un caro paradiso perduto: l’esistenza vera e concreta del “buon selvaggio”, con la lingua sconnessa ed a-logica, brutta e confusa, inutile e ridicola, e che solo la mitica(?) esecrabile oralità può sopportarne la puzza di mediocrità!

L’oralità o l’oratura
A pagina 33, parli di fenomeno sociale, caratteristico di tutte le società umane e su cui si basa una fetta non-indifferente delle loro arti e delle loro saggezze: l’oralità.
L’oralità non può essere l’appannaggio dei popoli africani e, in questo caso preciso, della nostra società berberica.
Essa non ha più avuto l’esclusiva già da quanto cominciarono ad apparire i primi segni e disegni nelle grotte del Tassili e non solo il Tassili.
Essa non è stata quindi l’unico supporto della nostra memoria, anche perché noi, algerini (per usare un temine - generico(?) – nuovo ma più pertinente), non abbiamo forse inventato sulla scia dei virulenti fenici un nostro alfabeto, già libico e ormai tifennagh?
“Mettendo in serbo” il nostro patrimonio linguistico-culturale, ci siamo sempre accomodati dei “benefici” di quello dei nostri invasori: penso alla lingua di Apuleio, a quella di Tertulliano, di Agostino e dei loro circoli rispettivi.
Circoli, sì perché io credo che l’esistenza e la comparsa stessa di un genio come quello di questi nostri illustri avi non fosse il risultato di una generazione spontanea, di un fenomeno isolato. Il genio non è un borgne fra i ciechi, ma un super-vedente fra i più acuti vedenti (?????? ?? ???????) - come diceva mio padre, l’uomo che aveva gli occhi e il burnus azzurri.
Attorno a questi grandi uomini, c’era sicuramente un grande fermento di idee e di poesia, di morale e di filosofia, di miti e di civiltà. E se oggi noi non ci crediamo, è solo perché ignoriamo quella grande storia che era riuscita con la sua potenza e la sua estensione ad attraversare i secoli e i millenari per influenza la crema delle civiltà, quella detta occidentale.
Ci siamo sempre accomodati quindi dei benefici di questo nobile parassitismo – come dicevo – e così avemmo più tardi Ibn Rachiq, Ibn Khaldoun, Abdelkader, Mameri, Kateb, Djebbar…
È come se il solo fatto di avere uno strumento di scrittura riuscisse ad appagare la brama dei nostri antenati nel passato e quella contemporanea di alcuni fra noi: brama di scrivere. E non importa a berbericus in che lingua scrivere se ha l’urgenza di scrivere.
In fin delle analisi, la lingua sarebbe stata per i nostri avi illustri e saggissimi uno strumento, certo, ma uno strumento e basta. Perché, se noi guardiamo da vicino, in fondo in fondo, riusciamo ad avere lo stesso risultato purché la materia prima sia la nostra sensibilità, il nostro vissuto, i nostri miti, la nostra memoria.
E poi non è detto che i nostri illustri letterati e filosofi non avessero lasciato le loro impronte sulle lingue che avevano adoperato.
Cito, come semplice esempio, Agostino che è in qualche modo il fondatore del latino scolastico ed ecclesiastico.
E che dire del primo romanzo nella storia letteraria che il figlio di M’daourech, Apuleio, ha regalato all’umanità?
Non fu oratura (termine che prendo in prestito da Itala Vivan), la sua, bensì Letteratura. Comunque siamo sempre riusciti in qualche modo a fare nostra la lingua del nostro occupante o anche quella della civiltà dominante (come il greco prima e l’inglese adesso) e riusciamo sempre a crogiolare questo patrimonio comune dell’umanità e mescolarlo con le viscere dei nostri desideri e quelle della nostra cultura e ad affidargli poi la nostra memoria e i nostri sentimenti (travestiti magari ma mai annientati, appunto perché non li mancava l’altra gamba che è la nostra profonda ed immortale anima) dove anche l’oralità avrà la sua parola da dire, come in tutte le società del mondo e della storia.
E ricordati che Cartagine e la Numidia, più tardi, erano affini se non addirittura di cultura greca prima di bere dal calice della romanità. Se riesci, leggi il romanzo “Annibale” di Paolo Rumiz. Ti lascio questo link
http://74.125.77.132/search?q=cache:McdrKFG23uEJ:libreriarizzoli.corriere.it/libro/rumiz_paolo-annibale.aspx%3Fean%3D9788807017636+Annibale+Rumiz&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it
Ergo: non siamo mai stati una società tutto-orale ma anche gente del libro.
Pensa, già che ci siamo, ai nostri avi, primi convertiti al giudaismo con l’arrivo dei fenici e ai primi cristiani; sicuramente loro ebbero qualche lingua e qualche scrittura per trasmettere e preservare i loro messaggi.
E penso che l’Islam si sia basato molto su queste tradizioni par farsi ascoltare dai berberi, nuovamente conquistati, e per insegnare loro a scrivere e leggere la lingua dell’Islam che del resto non era molto lontana dal patrimonio linguistico già adoperato da loro prima dell’arrivo degli arabi e della loro lingua.
La procedura comunque – ce lo dice la storia – ha funzionato ed i berberi hanno adottato lingua e caratteri degli arabi perché già avevano una lunga tradizione di questo tipo di parassitismo nobile e sapevano già che era un parassitismo vitale e positivo perché rassicurante, inoffensivo e almeno senza rischi maggiori per l’esistenza dell’anima e del tipo berberi.

Del rigore logico come prima marcia verso le alture della giustizia
Parlando del cantante Maatoub Lounas, a pagina 23, hai dato per scontato che egli è stato “assassinato dalle forze oscure del governo algerino.” Io avrei usato il condizionale, ameno che tu sia riuscito a sapere qualcosa di sicuro sulla tragica fine del nostro grande cantante.
Ma a prescindere da questa triste faccenda, secondo me bisogna essere padrone della propria lingua. Non dobbiamo lasciarle le redini del destino del nostro pensiero e della nostra sensibilità.
Non dimentichiamo che l’uomo ha inventato la lingua per metterla al servizio dei suoi sentimenti, delle sue percezioni e concezioni, delle sue rappresentazioni, delle sue sensazioni e di tutto ciò che ha a che fare con ciò che l’antico linguaggio chiamava Anima e la nostra epoca a volte chiama Essere. Persino i surrealisti hanno rinunciato a questa servilità o schiavitù della sensibilità nei confronti del linguaggio.
Grazie alla loro cosiddetta scoperta della scrittura automatica, i surrealisti con Breton in testa si erano resi conto che il linguaggio senza disciplina (che non vuol dire censura, ciò che sarebbe allora un’altra capitolazione di fronte al facilismo) è un servo infido e pigro. Perché ci porta a dire ciò che non sentiamo davvero, ciò che non è noi, la menzogna, l’inconscia ipocrisia…
Pertanto, non c’è bisogno di cadere nel facilismo caratteristico dei luoghi comuni dando ragione, a torto, a propagande e altre mistificazioni alienanti. Ameno che tu detenga la verità sui fatti della morte di questo cantante.
Ma non penso che tu sia stato un poliziotto giudiziario, giudice, pm o qualcuno che avrebbe avuto accesso al dossier o indagato personalmente sulla morte/assassinio del caro defunto.
So che spesso i lettori non chiedono sempre agli autori di presentare la fonte delle loro dichiarazioni, vuoi per economia/pigrizia mentale, vuoi per indulgenza/indifferenza, vuoi per noia/ignoranza, vuoi perché i mass media ed i tribuni dei politici e dei predicatori vari li hanno abituati ad accettare le cosiddette informazioni sensunicali ed ingoiare le vacuità, qualunque vacuità,… ma questo non deve impedirci dal guardarci di cascare nel lassismo epistemologico e di renderci ridicoli.

Della donna in Algeria
Mi è piaciuta molto, perché bellissima, la tua considerazione sull’importanza essenziale della donna rispetto a quella di poco rilievo di suo fratello, il maschio. Donne in veste di madri che “sanno preservare, riparare…” i pezzi della memoria - pagina 29.
Ma ciò che importa di più è che tu hai saputo in un modo semplice distruggere dei miti e ricostruire sopra (e nonostante) quelle macerie altri miti più dolci ancora e più consistenti perché aggiornati. Anzi è una bellissima metafora della condizione della donna in Algeria; noialtri berberi (come i nostri fratelli di adozione, i despoti del Levante) abbiamo bisogno di poco per credere nel peggio.
E come se la nostra sostanza fosse fatta solamente di male, e quindi - in virtù del principio “similia similibus” – non ci attira che il male, non crediamo che nel male, non capiamo che il male! Nell’omicidio crediamo piuttosto alla favola degli uomini che volano che alle nostre crudeltà e alle nostre stronzate.
Crediamo più all’infamante inquisizione dell’essere più sublime, più innocente, più generoso che alla crudeltà del nostro arrogante egoismo cosiddetto virile…
Io sono convinto se avessimo nella nostra letteratura scritti di sincera moralità e se riuscissimo a fare arrivare questi raccapriccianti aneddoti di squallido gusto alla sensibilità della gente, sicuramente riusciremmo ad evitare tanta miseria e tanta stupidità e saremmo forse più educati e più civili. È questo l’impegno (o almeno una delle sue forme) nella letteratura.

Altro che saggezza!
Questo aneddoto incarna la mistificazione su cui si basa ogni forma d’organizzazione sociale; nella versione positiva e sublime è il mito, è la metafora del sogno e della poesia; nella versione negativa e grossolana è chimera, è delirio, è follia; nella versione nichilista, indifferente, è servire l’ingiustizia, è vigliaccheria, è meschinità totale…
Mi ha ricordato, come gli altri racconti tuoi, gli apologhi di un berbero algerino molto simpatico (non chiedermene il nome) e mi ha ricordato soprattutto la versione razionale di un aneddoto simile.
Si tratta di un omicidio che la gente (nel periodo buio dell’epoca coloniale e dell’arretratezza assoluta nostrana) presentava come segue:
c’era una volta tre amici che si amavano tanto. Avevano sempre fatto affari insieme nel rispetto e nella giustizia. Erano solidali ed inseparabili. Ma una sera, tornando al loro douar dopo aver trascorso la maggior parte della notte a sorseggiare caffè djezoua, a chiacchierare e a giocare a carte in un gourbi di caffè di una dachra viva rispetto al loro spoglio e lugubre douar, attraversarono il cimitero. Là sentirono un urlo e dei gemiti che uscivano da una tomba.
La voce straziante chiedeva aiuto. Due dei tre amici accelerarono i passi, ma il terzo voleva soccorrere il morto! Arrivando sul bordo, vide una mano tesa. Intrepido, il terzo amico gli diede generosamente la sua per aiutarlo ad uscire dalla tomba. Appena la sua mano giunse a quella del morto, questi volò via nel cielo portando con sé il terzo amico per sempre.
La gente aspettò anni e anni il suo ritorno ma vanamente. Questa fu la versione “volgare” del “volk”, quella dei semplici quidam.
La versione più “inn” invece dirà un’altra cosa. Questa seconda versione razionale supponeva (ma senza osar sussurrarlo a nessuna anima di quei tempi) che i due amici avessero ucciso il loro amico ed inventato quella tetra favola.
Tanto in quei momenti la gente tendeva a credere più nelle superstizioni ninna-nannanti che nella logica e la sua ragione irsuta di spine e di rompicapi.
La versione mistificatrice reggeva quindi a causa di queste mentalità arrugginite ed inutili quando non sono dannose.
Ma reggeva anche perché la mistificazione dei criminali funzionava ed era attiva: hanno trovato quella soluzione per mascherare il loro delitto, hanno saputo raccontarla e convincere quindi i creduli (tutto il douar loro e tutti i douar dintorni erano creduli), hanno pianto tanto allora e hanno continuato a piangerlo per il resto della loro vita.
Così l’ignoranza inventa le proprie arme per sopravvivere. Penso che la letteratura buona (perché esiste anche quella non buona) sia proprio quella che rende conto della versione reale degli avvenimenti, non quella ninna-nannante che è il pasto prediletto per i voraci creduli.
Solo così la buona letteratura riesce a denunciare, demistificare, combattere e sconfiggere le menzogne e le altre meschinità umane: la paura, l’ignoranza, l’irrazionalità, l’oppressione, l’odio, il parassitismo e lo sfruttamento.

Del Burnus e di berbericus
Leggendo il tuo racconto sul burnus, sono riuscito a capire l’amore che mio padre aveva per il burnus. Egli finì per farsi confezionare uno, azzurro celeste come i suoi occhi, di stoffa nobile e ricercata ma di cui non ti so dire quale tipo era.
Forse era il famoso melf, un mischio di lana e seta. Lo metteva, però, solo nelle grandi occasioni e nelle stagioni fredde. Sarà un richiamo ancestrale? Sì, adesso lo posso confermare: ho letto una volta che Ibn Khaldoun aveva detto che i berberi si riconoscono da 3 segni maggiori: tagliarsi i capelli, mangiare il cuscus e vestirsi di burnus (??? ?????? ? ??? ?????? ? ??? ???????). Mi ha fatto pensare a mio padre. Quanto a mio nonno, egli ha avuto sempre il suo.
Questo burnus, il suo uso e il discorso che ne deriva necessariamente possono costituire un legame tra la memoria personale – come l’hai dimostrato tu – e la memoria atavica del gruppo.
A proposito di gruppo: si nota l’uso frequente delle espressioni come “la mia terra” “la mia tribù” il “noi”. Una caratteristica del tuo stile che non appare bene nella tua mail-provocazione.
Questo tipo di scritto è stato forse per qualcosa nel processo di distaccarti dalla melma; ti ha esorcizzato in qualche modo e guarito dalla malattia di “gregarismo”? Comunque sia la tua risposta, il tuo discorso rimarrà coerente.

Della semplicità come suggestività e come bellezza di stile
I tuoi racconti sono belli perché tranquilli e tranquilli perché sono semplici. Tra l’altro la semplicità non deve significare superficialità ma, semmai, l’apice che un artista possa raggiungere nel proprio campo.
Raggiungere l’essenza delle cose e presentarle in una lingua non meno essenziale, limpida e sobria; sono queste alcune qualità che danno all’opera tutto il suo splendore e la sua eleganza.
“Adiu Pari” mi ricorda con grande nostalgia e tenerezza la campagna remota della mia infanzia defunta.
Quante fitte di rimpianto mi hanno scosso per quelle limpidi immagini e quei bei ricordi! Immagini e ricordi cari di una fetta abbondante di vita perduta mi sono passati attraverso i pori della mia anima assetata di conforti e consolazioni e che l’età pos-adulta non permette ahimé più di rinfrescare o di consolare!
Mi sono visto con i miei cugini e amichetti, anche loro pastorelli. Anche loro suonavano il flauto e non solo: lo fabbricavano con la semplice canna e l’essenziale paglia.
Io non ci riuscivo ed era per quello che li ammiravo o invidiavo; la frontiera non è mai chiara tra i sentimenti nel cuore dell’uomo.
Uno di loro, chi era il più bravo di tutta la compagnia, adesso passa la sua vita sotto i sedativi della miseria e dei farmaci.
La liete fine non è per tutti, e nemmeno per i più fortunati: essa è solo uno stupido ma tremendo ossimoro di menzogna e di misera consolazione.
E la poesia purtroppo non dat panem nella maggior parte dei casi. Forse lo dà solo quando si sposa con qualche potere…
Ma sì… lasciamo pure un posticino per la speranza e per i sogni…

Dell’ironia come pateticida
“Mohamed era fiero come un gallo” che sublime immagine, che bella ironia! Ecco secondo me un esempio limpido e semplice di quella semplicità di cui parlavo.
Andare a trovare una fanciulla “con un’anguria, due meloni…” mi ha scosso di franche risate… anche quest’altra espressione “non morirà se dormirà in un letto pulito!”
Eh sì, un po’ d’ironia ci vuole ogni tanto per uccidere il patetico della nostra quotidiana tragicità fatta di vacuità e di noiosa arroganza.

Stessa epoca, stesso spazio vissuti diversi
Nel marzo ’99, mentre il tuo protagonista girava in Liguria, io conoscevo già allora da quasi un anno la mia donna che è di Rapallo. Anche lei fu emigrata prima a Torino per un anno e poi a Milano dove vive tuttora.
Da quando l’ho conosciuta – eterna morente di nostalgia per il mare e non qualsiasi mare (il mare ligure soprattutto, quello della sua infanzia e tenera giovinezza) – non ha mai smesso un giorno di pensarci e di sospirare per esso. Quasi ogni fine settimana mi trascinava e mi trascina tuttora nella sua Liguria natia e cara, la Liguria del levante, per mari i monti.
Forse nel marzo di quel anno mentre scrivevi il bel racconto di Mouh, io ero lì. Forse ci siamo visti o incrociati con gli sguardi in qualche carruggio, senza saperlo ovviamente.
Suppongo questo, perché io in quei momenti avevo ancora la mania gregaria di voler riconoscere i “nostri” per far vedere alla donna, allora appena conquistata, che avevo anch’io un certo potere, una prodezza speciale, che lei non aveva, insomma la capacità di riconoscere se quelle persone fossero arabi e di che cosa stessero parlando e se fossero simpatici o antipatici… stupida scienza di voyeurismo e di delazione per eccellenza, no?
Oppure erano stratagemmi per dirle obliquamente che anch’io ho qualche terra natia, qualche cosa che vale la mia tristezza e la mia gioia?
Forse.

Motivi per scrivere e l’esilio come ospitalità attiva<
/b> I tuoi aneddoti mi hanno aiutato a trovare delle parole adeguate per dire ciò che non era che vaghe impressioni, indicibili perché inafferrabili e vice versa.
Ciò che hai scritto in genere mi ha fatto pensare all’ardente brama di scrivere che brucia nel cuor nostro.
Scrivere è alla volta motivo e mezzo non per creare la bellezza ma per indicare i sentieri che vi possano portare, per contemplarla ed estrarne la quintessenza, il nettare di gioia che essa è capace di recarci e rendere grazia con i nostri canti ed inni alla vita e a chi la fa o a ciò che la fa (dipende dalle sensibilità).
Mi hanno ricordato che le cose sono una cosa e il loro valore un’altra. Mi è venuto cioè da pensare che il tuo esiliato o esilio non è così triviale, bensì esso è pieno di tragicità, di poesia e di senso di dignità quindi.
È un esiliato che straripa di ricchezze e di generosi intenti di condividere queste stesse ricchezze con i suoi simili e co-creati andando, senza aspettare, verso di loro non per sollecitare un ché di mollica (nella nostra epoca nessuno morirà di fame, ma anche nel passato non si moriva di fame perché la provvidenziale natura ci ha sempre pensato, del resto) o di dignità (invece questa o ce l’hai dentro di te, nella tua pelle o non ce l’hai) ma di dare a chi gentilmente accetta i suoi doni e la sua amicizia e li sa ricambiare con gioia e libertà.
Questo tipo di letteratura di denuncia (penso al tuo racconto: “Vai a casa tua!”) riesce a dire le loro verità crudeli agli oppressori in un modo chiaro, ragionevole e convincente.
Questo tipo di letteratura è molto efficace persino quando affronta delle strutture più potenti e più corazzate di menzogne e di mistificazioni, come il sistema coloniale con il suo discorso assurdo e il suo cosiddetto banchetto o fardello, se vuoi.
Sistema che ti espropria della tua casa e ti ordina di andare a casa tua, verso il nulla cioè! Vale a dire “Sparisci, muori!”!!!
Mi è piaciuto anche quel modo semplice e tranquillo, pur parlando di “Una tragedia della passione”, di come la Storia viene adattata, verniciata, manipolata, a seconda dell’epoca che se ne serve.
La Storia è umana, ed è pertanto, come il suo artefice, mistificatrice. Si sa, la scrivono quelli che vincono ed impediscono ai vinti di contestare la loro versione.
Mi chiedo sempre se oggi Piero della Francesca riuscirebbe ancora a riconoscere o a vedere con lo stesso occhio qualche sua opera.
Secondo me la vedrebbe travolta, sconvolta come queste miriadi di letture che i posteri danno dell’opera di Omero, Apuleio, Dante…
Però nonostante sia un travestimento, la nuova lettura è pur sempre importante perché bisogna far luccicare alla razza umana sempre qualche mito-motore per stuzzicargliene l’appetito di superare la mediocrità, per attizzare nel suo cuore la brama di superare il momento e se stessa… come suggeriva Gramsci. Come raccomandava anche, a modo suo, Neruda quando elogiava l’ombra… che è sempre gravida di suggestioni e di belle fantasticherie.
Quel tuo bonsai, con la sua ironia speciale, mi fa anche pensare a “Il quadro” appunto di Neruda. È vero: basta un scintilla, un déclic perché si aprano mondi insospettabili e promettenti non tanto sul mondo quanto su noi stessi.
Grazie per questo regalo e buona notte!
Malik

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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