El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

La battaglia dello stretto

Abdelmalek Smari

TRADUZIONE DI TAWFIK SAM (Abdelmalek Smari)

su testo di Rachid Boudjedra

a cura del Centro Culturale Multietnico LA TENDA Milano Giugno 1996

GENTE DOV’E’ LA FUGA? - la battaglia dello strettto

CAPITOLO I

Gialla, grigia poi gialla: la gru partiva come una freccia, sfio¬rando lo spazio del cielo azzurro con la sua ala superiore. Anzi, nuotava nel tessuto del firmamento, dividendolo in figure quadrate, spezzandolo in triangoli, quadrangoli ed anelli e e¬splorandolo con la sua ala meccanica. Gialla, grigia. Gialla, grigia. L'apparecchio passava in un andiri¬vieni continuo innanzi al sole appiattito, mentre il suo braccio fisso rimaneva inerte e legato e perdeva così il suo colore naturale e proiettava un'ombra quasi immobile sul vetro della chiusa finestra, filtro tra l'occhio e il sole. Strisce intermittenti di ombre sottili e di luce solare si accumulavano sul viso di chi guardava che rimaneva abbacinato come vi rimane chi riceva una carezza con panno di velluto passato sui suoi tratti.
Ed invece l'apparecchio (meglio la sua metà) andava e veniva in un mo¬vimento incessante, continuo, invadendo lo spazio spezzato, coerentemente con le regole della geometria e con l’intensità del suono che l'isolamento della materia vetrosa attutiva, in modo da esser quasi impercettibile.
Gialla, grigia. E di nuovo gialla; se l'occhio fosse stato chiuso sarebbe apparsa nera. I movimenti si susseguivano e si inseguivano con una routine noiosa. Tranne questo mormorio che proveniva dall'esterno che - del resto - non arrivava agli orecchi, non c'era altro che una sorta di impressioni mentali che facevano pensare al fruscio della seta ispezionata dalle dita.
La gru - pur avendo una forma intermedia fra la freccia e l'uccello - si stava movendo con un silenzio stupendo. Malgrado quel rumore imma¬ginato (l'idea dell'uccello?), essa continuava a sciare e scivola¬re, spostandosi dall'orizzonte azzurro verso l'orizzonte azzurro, esplorando lo spazio in un movimento calmo e sereno.
Gialla...Come se stesse cercando qualcosa. Sprofondata in una li¬quefazione sospetta. Impiantata in una materia strana. Poi.

Gial¬la come i cavalli, in piedi, dietro la baia dello "stretto", che portavano l'avanguardia dell’esercito, assieme ai percussionisti di tam¬buri, ai suonatori di trombe, e ai portatori di bandiere, anzi di quasi tutte le bandiere. Il resto dei cavalli, invece, era di colore granato o marrone. Erano dieci . Tutti si trovavano sulla stessa linea tranne il cavallo di un percussionista che era più avanti di 2 o 3 passi rispetto agli altri. Gli stru¬menti musicali (trombe, tamburi) erano di diverso colore, di di-versa forma e grandezza. Anche le bandiere erano diverse: c'era quella lunga e larga, c'era quella piccola e c'era quella grande. I colori delle bandiere e degli stendardi erano differenti per le diverse particolarità dei cavalieri che li portavano. C’era il rosso, il ne¬ro, il bianco, il celeste, ecc. Le divise dei guerrieri (dove sono le loro armi?) erano anch'esse di colore diverso, e così quelli dei turbanti dei soldati schierati, pronti a lanciarsi verso la pianura di "Sciarisch".
Tutti quanti guardavano davanti, verso l'occidente così che sembravano strabici come se chi aveva dipinto quella miniatura fosse stato dalla parte nordoccidentale rispetto ai ca¬valieri che stavano in piedi, pronti ad affrontare un nemico o un qualunque pericolo. Stranamente erano tutti inermi, in uno stato di aspettativa e di attesa, ma decisi. Il giallo sovrastava il resto dei colori che pure derivavano da lui, tranne alcune mac¬chie rosso-sangue, brillanti qua e là, e disperse su quella pic¬cola superficie ove si trovava concentrata quel manipolo di 10 ca¬valieri, su cavalli veri, che portavano degli attrezzi lunghi, lar¬ghi che non sembravano per nulla delle armi. Nonostante la gran quantità di giallo, il rosso-verde attirava l’attenzione più di qualunque altro colore, non perché avesse una attrazione particolare, ma perché il cava¬liere che si trovava in prima posizione montava su un cavallo barda¬to di rosso e portava un tamburo dello stesso colore.
Gialli erano anche i cavalli, anzi la maggior parte di essi. Tut¬tavia questi colori -il rosso, il giallo e il cenerino compreso - sembravano smorti, acromatici, tinteggiati, non colorati, come se si fosse passata dell'acqua subito dopo aver finito la pittura. Certamente se l’acqua non era stata la causa, la scoloritura era l'effetto del tempo, cioè dell'antichità della miniatura. Da dov'era venuta? Di dov'era? Può darsi che sia semplice immagine mentale, sempl....

Sin dal giorno della sua scomparsa, l'odore della morte non mi ha lasciato più. Ho preso l'abitudine di sentirlo ogniqualvolta mi trovo nella vecchia casa. Perfino nella mia camera, i muri della quale erano invasi dai rami del gelso nella parte orientale dove si trovava l'unica finestra. Forse l'odore della morte, che si è mantenuto non solo nella sua camera, dov'erano il letto e la tenda, ma anche nelle altre stanze e nel giardino, e perfino den¬tro il panno con cui ella confezionava i miei vestiti, ed ancora fra i pori della mia pelle e nel più profondo dei miei sogni, è uno di quegli odori che non ha nessuna caratteristica. Anzi quell'odore è una sorta di miscuglio dell'odore dei funghi di pa¬lude e del sudore che colava dai magri corpi dei lettori del Co¬rano, con la loro voce nasale, vestiti di stracci, e della canfora che si sprigionava dal sudario giallo (come il colore dei cavalli in linea davanti alla baia dello stretto?), e dell'incenso che esalava dal braciere pieno di carboni accesi fiammeggianti attorno a cui girava mia zia Mamia - la qua¬le era una delle domestiche più vicine a lei e a cui per tutta la vi¬ta aveva voluto bene, come a tutte le altre domestiche mostrando nei loro confronti amore, considerazione e amicizia (lei stessa era di origine proletaria. Non aveva dimenticato che suo padre era operaio in una ferrovia. Così lo era anche il suo unico fra¬tello)- e della formalina che veniva su dal bagno arabo che si trovava sotto la casa, ove coloro che lavavano i morti si erano appro¬priate del suo magro corpo dalla pelle fine, e dagli occhi ora chiusi per sempre e dalla bocca trattenuta da un fazzoletto che le¬gava la mascella inferiore alla testa, come se volendo parlare al momento della sua morte, avesse aperto la bocca dopo essere stata, tutta la sua vita, ridotta al silenzio e al tacere. Perciò le "abluzionatrici" erano state costrette a chiuderle la bocca, anzi a legargliela proprio.
L'odore della morte non mi ha abbandonato fin dal giorno in cui lei ha lasciato la sua vita, come se ne avesse avuto abbastanza di queste paludi verdeggianti dalle profonde gallerie che circonda¬vano come una spirale quel giardino che non smetteva mai di dare luogo alle foglie, ai rami, alle radici, ai licheni e che co¬stringeva il padrone della casa a recingere tutte le uscite con cancellate. La casa diventava ancora più scura. Assomigliava all'e¬norme hall dove c'era lui... dove passava il suo tempo seduto in una profonda poltrona che, quasi quasi, inghiottiva il suo piccolo corpo e la sua bassa statura. Sedeva, così, sul suo trono dietro una vecchia scrivania di legno di olivo. Era diventato an-che lui uno spettro macabro. Aveva perso tutto tranne la maestà e l'ascendente che usava nel gestire centinaia di poveri operai chiusi in quella gigantesca hall dove l'odore della morte (la sua morte, la morte di lei ) mi inseguiva, mi perseguitava, con la sua oscurità, i suoi licheni e la sua astratta concezione spaven¬tosa.

Qualcosa di scuro, marrone, giallo, sanguigno. Un cielo rameico. Fiamme divoranti all'orizzonte. Schegge scoppiate nell'aria. I ri¬flessi delle braci arancioni sui cavalli schierati e raggruppati. Gli occhi impauriti ed esorbitanti delle donne che fuggivano e che trascinavano i loro bambini con la schiuma alla bocca.
Di dove era questo libro? Era il libro dei testi delle traduzioni, pieno di immagini e di miniature. Li traducevo letteralmente sen¬za ricorso al vocabolario nella hall dove regnava lui (mio padre), su di me, sugli operai, sulla situazione e sulle opera¬zioni del mercato finanziario e impediva che mi servissi del vo¬cabolario: "traduci. Se sei così deficiente da aiutarti col voca¬bolario?"
Traducevo testualmente nella sua casa ove l'odore della morte mi perseguita, l'odore della sua morte e l'odore dei morti Goti, Franchi, Galli. Gli odori si mischiavano come i morti.
"Che rapporti ha lei con questi Franchi?"
Io non risposi. Lo lasciai parlare. Fiero afferrò finalmente il libro della traduzione, mise gli occhiali e lesse il titolo: “Tarik Ben Ziad alla conquista dell'Andalusia.
"E Tarik attraversò il mare nel 92 dell'Egira, con l'assenso del suo ‘commander’ Mussa Ben Nus¬seir, con un esercito di 300 arabi circa, a cui aggiunse 10.000 berberi che trasformò in soldati. Misero l’accampamento sul monte della conquista diventato più tardi Gebel Tarik. Per proteggersi costruirono delle mura. Appena la notizia gli arrivò, Laerdrik mobilitò un esercito di 40.000 uomini di cristiani e pagani. Si incontrarono nella pianura di "Sciarich". LAEDRICK perse la battaglia. I mussulmani si impadronirono degli infedeli e dei loro beni. Tarik scrisse a Mussa rendendogli conto della vittoria e delle prede di guerra. Geloso, questi replicò rimproverandolo d'aver agito senza la sua autorizzazione, ordi¬nandogli di non spostarsi finché non l'avesse raggiunto. L'inte¬rim di "Kairawan" fu dato a suo figlio Abdullah. Hussein el Fahri partì con lui. Così, nel 93 dell'Egira egli partì dal "Kairawan" con un enorme esercito costituito da arabi, mauali (musulmani non arabi che erano in condizioni di servi), berberi. Arrivati alla baia dello stretto, tra Tangeri e l'isola verde andò verso l'Andalusia. Tarik l'accolse con obbedienza e rispet¬to. Mussa continuò la conquista; arrivò fino a Barcellona dalla parte Est, ad Arbona nel centro e a "Sanam Cadesh" ad o¬vest. Sottomise tutti i territori dell'Andalusia e prese tutte le ricchezze trovate. Poi nel '96 Tarik tornò verso oriente con tut¬to il suo bottino di guerra. Si racconta che ci furono anche 30000 cavalieri prigionieri.”
Mi disse:
"Traduci deficiente: E Tarik attraversò il mare nel 92. At¬traversò “Prit”. Tarik Ben Ziad, Tarik Ben Ziad. E' inutile tradurre il nome scemo! Il ma¬re "le mer" nel 92 "en l'an 92" dell'Egira "De l'Hegire". "ça non plus tu n'as pas besoin de". La traduzione di "Con l'autorizza¬zione del suo commander Mussa". Con l'autorizzazione "avec l'as¬sentiment" non "Avec l'autorization" del suo comandante: "De son chef" non "de son prince". Scemo! So benissimo che non dai nessu¬na importanza a queste cose. Non conosci nè l'arabo, nè il fran¬cese. Niente, tranne la fanullaggine. Il lavoro invece è il tuo maggior nemico; la storia e il come i musulmani hanno conquistato l'Andalusia non sono fatti tuoi. Ahime! la lunghezza e la vanità come la scala dei cristiani. Dai continua. Leggi il resto del testo”. Mi venne in mente il suo odore, quando lei guardava da dietro la siepe, il rosaio morente e i colori insipidi dei suoi fiori ap¬passiti. Con un esercito di 300 arabi circa a cui aveva aggiunto 10000 berberi. L'odore della casa, il giorno in cui la misero nella bara.
Lo lasciai tradurre. Tacqui. Aspettò un momento, poi continuò la traduzione letterale: con un esercito di 300 arabi circa: "Accom¬pagnè de qualques 300 arabes". Poi si accorse e capì che stavo indugiando. "Mi prendi in giro? ( ma io non risposi. Feci finta di niente. Lo lasciai nuotare nel suo olio. "Io, scala dei cri¬stiani?! La traduzione letterale è idiota. L'insegnante non vuole usarla. E' un principio”.
L'odore di mia madre quando lavava i suoi capelli con shampoo e balsamo? Non mi ricordo di tutti gli odori, ma quello dello shampoo profumato non lo dimenticherò mai. ‘Lo scemo. La traduzione letterale’, ‘nuotare nel suo olio’; come a¬vrebbe tradotto mio padre questa espressione? Non è possibile perché anche i dialetti hanno il loro proprio genio. ‘Nuotare nel suo olio’. Sempre imprevedibile. Un pesce insaponato. Non temeva che mia zia Fatima e Camer, la sua terza moglie. ‘Nuotare nel suo olio’. Un pesce insaponato. Un pesce fritto nell'olio. Nuota nel tuo olio e lasciami nuotare nel mio mare. Anche qui è difficile tradurre. Che c'entrava lui nei miei compiti di scuola?. Lo faceva solo perché era innamorato della traduzione dei testi d'Ibn Kal¬dun sulla conquista dell'Andalusia e della matematiche ‘x3+x2-3x-1=0’. E gli dicevo all'improvviso "che ti mangi un grande pesce, così la finiremo con te"... (Il pesce in dialetto e in lingua lette¬raria...")

Lo zio Hussein, anche lui l'ha vinto con la sua idiozia e il suo silenzio. Faceva ciò che voleva. Quando veniva a casa, per spia¬re, ci diceva "povero vostro padre - cioè mio fratello Hassan - non ha fortuna con le donne. Quanto a me, grazie a Dio, Warda è la più cara compagna che abbia avuto in questo mondo. E' una brava donna”. Effettivamente, moriva d'amore per lei, malgrado avessero divorziato 6 mesi dopo il matrimonio. Nana, come gli piaceva chiamarla per coccolarla, tornò dunque alla casa del padre incin¬ta di mia cugina Dalila. Dopo breve tempo lo zio Hussein si risposò. Ma subito dopo ridivorziò e pretese il ritorno della sua prima moglie, cioè Warda, detta Nana. Da quel momento questo bel tipo si sprofondò nell'amore coniugale. Di¬venne artificiale, vigliacco, imbecille. Tutte le sere di ogni giorno mandava per mezzo di uno dei suoi dei figli a sua moglie un mazzo di gelsomino. Bellissima, femminile, elegante, civetta, molto civet¬ta. Di una bellezza curata. Mia madre ne era gelosa? Non lo so....

E poi:
un giorno, qualche giorno fa, solo qualche giorno fa, lo zio Hussein era in mezzo alla strada. Era in piedi, come se non avesse conosciuto che solo quella posizione, da sempre, soprattutto ora che incominciava ad invecchiare velocemente. Era eretto così, all'incrocio, con la sua alta statura e il suo viso che ha perso la sua solita bellezza , a causa di una cardiopatia che l'ha colpito qualche anno fa, abbruttendo lo sguardo dei suoi oc¬chi. Egli ha perso un po' del suo fasto e del lusso in cui viveva. Di conseguenza i dettagli del suo viso si sono contratti, i suoi tratti piegati, il suo corpo prosciugato. E’ diventato così magro che il collo della camicia sembra esageratamente largo. Ora il collo della sua camicia si vede con più nettezza. E’ largo, leggero e senza limiti. E’ una sorta di disco di car-tone da cui esce un collo sgualcito simile ai colli delle tar¬tarughe quando fuoriescono con la loro testa dalle corazze. Il suo collo di colore grigio, che fuoriesce dalle sue spalle e dal suo corpo, dopo essere diventato un mucchio molle di muscoli e di bucce appas¬site, antiche vestigia vanescenti, è ormai segnato da profonde rughe intersecate.
Questo mucchio non aveva qualcosa che lo tenesse in piedi se non i suoi vestiti. I suoi occhi tracomatosi fissavano il mio viso e spiavano la più piccola reazione di risposta, o il più sottile movimento che fosse stato emesso dai miei occhi. I suoi occhi mi ispezionavano con la stessa bassezza e con quel cinismo e¬sitante, impaurito, malefico, ipocrita, tendenzioso, mascherato. Mi sembrava in questo caso che stesse parlando con la sua bocca e i suoi occhi separatamente anzi parallelamente. Sembrava, perfino, che la bocca, mentre parlava, non avesse nessun legame con il resto del viso i cui baffi macchiati di tabacco facevano schifo a tut¬ti quelli che l'avessero guardato. Sotto i baffi sporchi, inqui¬nati da diversi resti sospetti, c'erano due labbra che, senza sosta, parlavano, si muovevano e mormoravano dicendo : "Povero vostro padre, non ha avuto fortuna colle donne. E' stato super¬ficiale, debole con loro...". Poi smise di nuovo di parlare e di chiacchierare come se stesse aspettando una risposta da me, una reazione o una qualsiasi parola che avessi pronunciato soltanto per aiutarlo, per compassione o per misericordia, ad uscire da quell'imbarazzo nel quale era caduto. I suoi occhi stavano guardando, battevano le ciglia. Non smisero di muoversi, conti¬nuavano la loro ispezione, la loro diagnosi in modo malizioso, cinico, ipocrita.
Poi all'improvviso quel bel tizio si accorse della sua situazione e continuò di nuovo a borbottare. Sembrava che la sua voce mi arrivasse dalle profondità della terra. Ripetè, dunque, balbettando artifi¬cialmente. Non gli rispondevo. Lo lasciai sprofondare nel mare delle sue frasi, parole, lettere e del suo sigmatismo, senza sen¬tirlo. Cercavo mentre delirava continuamente - “povero il vostro padre” - di guardare l'orologio dietro le sue spalle. L'orologio murale appeso sopra il portone della stazione ferroviaria. Ca¬pì la mia intenzione. Reagì. Mi sorprese. Cercò di disten¬dersi, di gonfiarsi per impedirmi di vedere l'orologio. Si alzò per essere d'ostacolo e impedirmi di vedere il quadrante dell'e¬norme orologio e di sapere l'ora. Riuscii ad evitare il suo ostacolo, tuttavia. Cercò di fare della sua magra testa, testa di un verme gigante, un osta¬colo tra me e le lancette dell'orologio, e ciò con una velocità senza pari. Cioè in meno di un lampo.. ..Vendetta.
Oppure, forse voleva prendermi in giro, provocarmi addirittura, nient'altro. E chissà? E’ scaltro. Era un vero genio nell'in¬gannare, nell’indugiare, nel compiacere. Aveva due guance simili a vecchia cartaccia e all'improvviso cominciai a dirmi " devo... prendere la sua mano, afferrarla e stringerla". Ma invano, perché mi scivolava proprio... Mi venivano in mente le lezioni della traduzione nella hall verdeggiante, scura. Un pesce insa¬ponato. "Traduci questa frase, ragazzo. Traducila in tutte le lingue del mondo. Devi risolvere quest'equazione. Veloce ragazzo". Scivolava. "3x3+3x2-3x-1=0". Dunque la mano dello zio Hussein mi scivolava. Rifeci il tentativo un'altra volta usando un po' di forza, ma sentii l’acutezza delle sue ossa. Nè pesce, nè sapone. Anzi, al contrario, una cosa solida. Sentivo le sue pro¬minenze vecchie, dure, mentre stringevano e premevano la mia mano senza che lui smettesse di parlare ed io tentassi di sbarazzarmi di lui. Non finiva di guardarmi scusandosi, tremendo, pronto a corrermi dietro nel caso in cui l'avessi lasciato per andarmene.
"Povero tuo padre. E' simpatico ed è eccentrico ma non ha avuto fortuna. No. E' scemo tuo padre... Invece io e Nana".
Notai che stava per ricominciare da capo vedendomi esitante e imbarazzato davanti a questa arroganza e a questa prepotenza. Dimenticò se stesso. Non potè più controllare lo scorrere delle sue parole. "Non ha avuto fortuna". Dopo essere stato inibito da me per qualche minuto, cioè dal momento in cui l'avevo incontrato sulla strada nella città e più precisamente davanti all'ingresso principale della stazione dei treni, aveva dato libero corso al ridere e al disprezzare. Ne aveva dato libero corso. Si era sprofondato in una risata scherzosa, vit¬toriosa, mostrando i suoi denti pieni di tartaro, sporchi e che si contavano. Balbettai, perciò, nel parlare. Mi agitai nel silenzio. Non sapevo più come comportarmi con lui in questa tacita battaglia. "Che Dio perdoni mio fratello Hassuma!" All'improvviso persi la pazienza. Dissi con voce afona piena di violenza contenuta "Per¬messo zio Hussein?". Lui reagì subito, tremando, mostrando la sua paura quando volli lasciarlo. "Permesso... ci vediamo". Rima¬se solo, colla sua bocca sdentata spalancata, meravigliata. Tornò al suo isolamento fondamentale da cui l'avevo tirato fuori, mezz'ora prima. Adesso non cercava neanche di nascondere la sua paura, la sua agitazione e la sua angoscia. "Ci vediamo... - dissi sarcasti¬camente - Fino a nuovo ordine, come dicono i burocrati". Non capiva niente di quello che dicevo. Impaurito, stupito, meravigliato. Finalmente mi permise di togliere via la mia mano dalla sua manaccia ossuta. Tornai indietro. Mi gettai indietro. M'allontanai con una grande velocità, perchè non mi sorprendesse di nuovo e mi costringesse a sentire i suoi sarcasmi e la sua logorrea. Dopo es¬sermi allontanato da lui di qualche metro e dopo aver lasciato tra noi due una distanza rispettosa, mi volsi verso di lui. Gli accennai con la mano, muovendola come una spada, burlandomi di lui, prendendolo in giro e nella mente dissi "Lo scemo! Lo scemo! Che malizioso deficiente!", mentre lui rimaneva nello stesso posto sul bordo della strada piena di gente, fisso come un palo. Lo pa-ragonai con i suoi stracci e la magrezza del suo corpo a quello spauracchio che, quando ero piccolo, mettevo sulla cima del gelso specie durante la stagione dell'allevamento dei bachi da seta che nutrivo con le più belle foglie di gelso che esistevano in tutto il quartiere. Il gelso. Lui rimaneva nello stesso posto, diritto come un palo, simile a uno spauracchio orribile, resistente, trascurato, lasciato, meschino, timoroso, impiantato nel suo isolamento eterno, sprofondato nei suoi vestiti, col viso raggrinzito, assurdo, mentre i dischi del sole e gli anelli della luce cominciavano a riflettersi fra le foglie del gelso sul suo viso, creando delle zone d'ombra sul suo corpo, facendone quello che faceva con il viso, e sui suoi vestiti in cui sembrava nuo¬tasse a forza d'essere magro. Mentre di dietro - sempre - il tessu¬to della caratteristica urbana, col suo movimento continuo e la sua attività clamorosa e la sua geometria fitta, macchiata anch'essa, rimaneva lo stesso, così come di lontano era il suo lugubre viso, gelido, frustrato, meravigliato, stupito, scialbo).

Gialla poi grigia al suo passaggio era la gru davanti al disco so¬lare ancora più spianato di quanto un occhio abbia mai potuto vedere di simile nella natura. Forse ciò avveniva a causa della convenzione del vetro della finestra attraverso il quale l'immenso cantiere edi¬lizio, di cui non si vedeva che la gru, appariva a chi si trova all'ultimo piano del palazzo, cioè al decimo. La struttura del cantiere non oltrepassava - per i lavori eseguiti - i 2 piani. Da qui non si potevano vedere gli operai nè si poteva ispezionare la costruzione a meno che non ci si avvicinasse alla finestra e ci si chinasse un po, e, nonostante il vetro, si dirigesse gli occhi verso il basso in un movimento che ri-chiedeva un po' di sforzo. Quanto alle gru gialle, era facile veder¬le. Esse passavano spesso. Anzi i loro organi mobili passavano così vicino alla finestra che la loro ombra disegnava delle righe sul viso della persona seduta dietro la sua scrivania. Così l'ombra gli macchiava le mani, il viso e una parte della metà superiore e ciò a seconda della traettoria del sole e delle diverse ore del gior¬no. Forse dunque lo spettacolo delle gru gialle, che diventavano un po' grigie quando passavano davanti al sole, davano come un sen¬timento di frustrazione. Cosa che non toglieva niente alla bellezza delle stesse gru mentre si libravano nel cielo come degli uccelli enormi che vogliono soltanto mantenere il loro lento tempo, chinandosi, attenti, prudenti e cauti.
Anzi vogliono giocare e ingannare i veri uc¬celli, spaventandoli, soprattutto prima del tramonto quando stan¬no per tornare ai loro nidi, in una maniera metodica basata sulla ripetizione e l'istinto. Essi appaiono un po' artificiali, meglio automatici, con movimenti incrociati, sistemati in modo quasi meccanico. Mentre escono dai loro nidi o quando ci tornano sono artificiali, precisi, aggruppati come spicchi d’aglio, articolati, dettagliati, scomposti..ecc; sono di cartone (come il collo dello zio Hussein?). Allora tutti i loro movimenti diventano strani, soprattutto tutta quella deformazione un po' ridicola e buffa. Magari quest'impres¬sione diventa forte se la persona inconsciamente paragona l'agi¬lità delle giraffe (cioè le gru e gli elevatori) ai movimenti im¬prevedibili degli uccelli che sono così difficili a lasciarsi prendere.
Quanto alle gru sembrava all'osservatore fa¬cile avvicinarsi a loro se per caso passavano accanto alla finestra, nasconden¬do il sole per qualche secondo, premendo sul suo viso una leggera ombra, di cui egli non si rendeva conto nella realtà, ma la sentiva in una maniera così delicata come la tenera carezza del velluto.
Come una freccia, la gru vicina alla finestra si slanciava sfiorando la volta celeste. Tuttavia il suo lento movimento suggeriva che la freccia era fissa e non si muoveva (proprio come lo zio Hussein sul marciapiede come se indossasse - per vendetta - stracci, trasformandosi in un orribile spauracchio?).
Tutto ciò non era che una illusione ottica, cosa che non impediva alla gru o meglio al suo membro mobile di tagliare il cielo, senza nessuna considerazione per gli ignari uccelli. Esse invadevano l'aria che veniva divisa, in accordo con la legge geo¬metrica, dal quadrante della finestra, fatta di vetro e di acciaio, e che impediva che arrivasse il fracasso del cantiere se non in misura limitata. Una riga gialla rugosa (dipinta) di un'ombra chiara (beige) un po' sfumata...come se essa fosse stata macchiata da qualche goccia di olio. Quant'al cantiere stesso era possibile vederlo dal posto ove si trovava, in mezzo alla stanza, dietro la scrivania. Inoltre, non si poteva sentire nessun rumore degli operai o - più precisamente - non si poteva che immaginare i loro movimenti, i loro attrezzi, e soprattutto i loro caschi brillanti e di colori diversi. Una riga gialla. Adesso l'apparecchio aveva smesso di muoversi da est verso ovest, ed era rimasto così, fisso come una freccia. Sco¬priva per la prima volta la parola POTAIN, scritta in caratteri bianchi su un fondo giallo, malgrado occupasse già la stessa stanza e vedesse la stessa gru attraverso la stessa finestra da più di un anno, cioè fin da quando era stato designato a dirigere il lavoro in questo cantiere edilizio.

Poi, lui si mise a parlare senza nessun'orgoglio o alterigia: En¬trammo in uno dei bar che i soldati frequentavano di solito, fa¬cendo finta di bere e d'essere ubriachi. Scegliemmo un angolo nel fondo della sala, osservando discretamente il gruppo dei sol¬dati, appartenenti alla legione straniera, nelle teste dei quali il vino cominciava ad avere degli effetti. Persero l'equilibrio e perfino la prudenza, la più elementare che di solito nelle loro caserme seguivano scrupolosamente, fin da quando erano arrivati in questo paese insicuro, fin da quando erano entrati in questa modesta città, situata sulle colline, come un pezzo di zucchero (il biancore delle sue case arabe). Poi aggiunse come se stesse vi-vendo queste storie nonostante fossero ormai passati più di 20 anni: "Mentre andavano l'uno dopo l'altro ai gabinetti, dovevano passare per forza vicino al gruppo costituito da me e alcuni compagni. Non posso dire precisamente quanti fos¬sero. Passarono davanti a me l'uno dopo l'altro, mentre noi fin¬gevamo ebbrezza e ilarità. Li invitammo alle nostre tavole, ma loro rifiutarono. Capimmo che non erano ancora ubriachi. Ascoltavamo i loro discorsi che erano un miscuglio di lingue di¬verse. Improvvisamente uno di loro passò vicino alla nostra tavola per andare in bagno (che era piccolo e sporco, così sporco che i clienti avevano preso l'abitudine di orinare sulle mura luride anziché nella turca di cui era dodato il bagno. Invero la gente non faceva più differenza fra le mura e lo stesso apparecchio sa¬nitario. Era sporco e puzzolente, specie le mura che e¬rano ricoperte da decine di parole incise, una sorta di slogan politici, sportivi, e perfino, in alcuni casi, d'amore: W. MOC, FLN vaincra! Jacqueline où es-tu cheire? e altri graffiti come se tutte queste mani, che avevano tracciato questi caratteri - non era più possibile scrivere nessuna parola con nessuna penna o matita a causa della grande umidità di cui era impregnata la materia - avessero la¬sciato anch'esse delle impronte sulla spessa, grassa e fluida muffa. Come se esse, con sforzi estremi, avessero voluto lasciare per le generazioni future non solo traccia di quello che li preoccupava allora, ma un insieme di scavi verosimili, sbor¬danti di angoscia latente, di ambizione, di disprezzo, di alterigia, ecc.), noi gli demmo pacche sulla spalla a dimostrargli la nostra simpatia, ma lui rimase cauto e pronto a tirar fuori la pi¬stola rapidamente, nonostante la sua ubriachezza incominciasse ad invadere i suoi occhi, per spararci, anche senza esita¬zione o sensi di colpa o altri sentimenti di questo genere".
Decideva lui. Diceva alcune parole - quando lo vide avvicinarsi - e soffiava sulle tavolette fresche d’inchiostro. Gli stese il tappeto. Gli modellò le mani con la risonanza della parola. Era la guerra.
Era la guerra.
Dov'è la sua infanzia? E' sparita. E come? Raccontava.
L'accompagnò nell'alba fin alla porta della scuola del Corano. Entrò nella moschea inferiore. La luce scendeva e il suo robone gli copriva le ginocchia. Lo vidi mentre egli sceglieva una canna1. Disse: "Scrivi". Scrisse le lettere e le ferite e i morti e gli sgozzati e le parole scolpite sulle mura e perfino sulla ter¬razza della casa. W FLN. Disse ancora: "Scrivi". Scrisse uno slogan, poi se ne andò via. Non ha dimenticato la nostalgia delle sua di¬ta inquinate col gesso dello stesso giallo della gru il cui piede è impiantato nelle profondità della terra, ed il cui braccio sfiora gli orizzonti del cielo. Disse: “Scrivi". Scrisse il tipo di appa¬recchio (POTAIN) ed il nome del suo inventore o della ditta. Non ha dimenticato il tremore delle sue dita e la polvere del gesso giallo su di loro. Cercò allora di pulirle con la stoffa del suo abito scolastico; e poi con un altro straccio.
La storia entrava nelle pie¬ghe del suo corpo grasso, floscio. Non ha dimenticato la cricca dei compagni - mentre l'abesità invadeva le sue cellule giorno dopo giorno - che lo crivellavano di burla. Lo schernivano, gridando "Babba SMINA. Babb'agina. Botti (Dud Abott). Totti ", deformando il nome dell'attore americano. Se ne andò poi. Non ha dimenticato la nostalgia delle sue dita coperta di polvere di gesso giallo.
"Mi ricorderò un giorno di questa nostalgia infantile e del forte piacere che ha la sua origine nella paura, nella parte più profonda della paura"? Fu un giorno notevole anche quell’evento che scosse il mon¬do: le donne manifestarono. Gettavano in aria le loro ceste piene di verdura marcia. Le lasciavano cadere per terra, dopo a¬ver tagliato l’aria come fossero grandi tartarughe stanche sulle teste dei soldati stranieri.
Disse "fai ricordare, perché il ri¬cordo fa bene ai fedeli. Fa bene al religioso. Dovunque siano si ricorderanno del Signore delle parole. Con un piacere quasi sessuale sulle sua labbra disse "scrivi". Scrisse i caratteri sulla tavoletta con l'inchio¬stro.
Le sue mani erano modellate dalla violenza della parola, la guerra, lo slogan (W FLN). Gli stese il tappeto. Si accomodò, annusò le sue dita diventate gialle per la polvere del gesso colorato. Sul¬la soglia della scuola del Corano, colle lacrime appena esitanti, fermo. Babb'agina. Babba smina. Botti e le parole deformate sparpagliate (Bud Abbot).
Gli disse : "Siediti". Inghiottì le lacrime che scendevano giù. Non arrabbiarti. La luce scendeva. Il maestro gli lesse un brano ambiguo , fuochi fiammeg¬gianti, donne lapidate, paradisi mielosi..(siete già stati infor¬mati delle belle donne che quest'isola ha creato dalla figlia della Grecia, ricche di perle e di corallo e di gioielli preziosi e residenti nelle corti dei re con le corone..). "Leggi il discorso famoso di Tarik". "Non arrabbiarti”. “Il padrone" "le parole cora¬niche".
Dimenticò le sue dita e le falangi, tra la meraviglia e lo stupore, sotto il ghiaccio.
Disse: "Scrivi"
Quel padrone degli af¬fari gli lesse dei versetti terrificanti. I suoi orecchi erano formati dalle urla della tragedia. Dov'era sua madre? disse: “A te la decisione. Sei tu che sai". Dov'era la sua madre? La sua infan¬zia era legata alla sua tragedia. Questo corpo infantile sbordan¬te di obesità fastidiosa. I suoi compagni non avevano pietà di lui. Babb'agina. pieno di Tammina. Da ciò derivò la sua violenza. Fu preso da euforie e da depressioni. Scrisse nella profondità del desiderio, nell'argil¬la, nell'inchiostro, nel sangue, nella febbre, nella palude. Dov'era sua madre?
Si ricorderà dell’insegnante mentre gli leggeva: E quando ti chiedono sulle mestruazioni, dì che è un male. Isolatevi dalle donne durante le mestruazioni e non av¬vicinatevi a loro finche non si purifichino. Quando si purificano possedetele dove vi ha ordinato Alla. Alla ama i pentiti e ama i puliti.
Dov'era sua madre? La sua infanzia era legata alla sua tragedia. Lui, frustrato dall’affetto di suo padre. Lui, l'obeso. E quando ti chiedono sulle mestruazioni.
Sua madre raccontava: “Le donne gettavano nell'aria le loro ceste piene di verdura marcia, lasciandole cadere per terra, dopo aver tagliato l’aria come delle grandi e stanche tartarughe, sopra le teste dei soldati francesi. Conosceva bene il piano della città. Se lo ricorderanno i soldati meravigliati, tremanti sotto i pezzi di verdura schiacciata sopra la loro testa. Il venditore di crepe Tunisine, piangeva quando vedeva quell'olio scivolare sui loro capi. I soldati morirono bruciati sotto la pioggia dell'o¬lio bollente. Era il tunisino che l’aveva fatto bollire per friggere le sue crepes molli”.
Decideva lui. Diceva: "questa guerra è difficile farla". Quando lo vidi nell'alba gelida mentre s'av-vicinava e soffiava sulle tavolette bagnate di inchiostro, le sue mai erano modellate dalla violenza della parola. "Era la guerra. Le rive del Ri¬mel bollivano di teste decapitate - vigliaccamente sotto il regno di Salah Bey che aveva resisitito dietro la muraglia della città". Dice¬va suo padre: quanti giorni...?. Se lo ricordava ancora in età adulta ora che ha attraversato gli affluenti del fiume della storia - Quanti giorni era durata la barricata di Salah Bey? I giorni erano an¬dati via così come le loro vicende e gli eventi che li riempiva¬no. “Quanti soldati accompagnarono Tarik nella baia dello stret-to? "Disse il padre: “300 arabi circa, a cui si aggiunsero 10000 berberi": La ricorda ancora la miniatura nel pieno dell'infanzia e nello scivolare dei mesi. Ora è stata sor¬passata dagli eventi. L'incendio penetrò in ogni casa e in tutti i dirupi dell'Atlante. I secoli sono penetrati nel sangue della montagna. Ha visto i conquistatori fare il giro attorno a lei. Quanti furono quelli che accompagnarono Laedrick il ge¬nerale dei goti, galli e franchi per affrontare Tarik Ben Ziad? L’aveva intuito dalla miniatura: I lancieri affluivano da tutte le par¬ti. Tra lui ed essi c'erano due trincee o due rive, tra Tangeri e l'Isola Verde. Disse : "Leggi un libro, un testo di Ibn Kaldun" Avrebbe dovuto tradurlo nella lingua dei franchi. Suo padre non poteva resistere e stare zitto. Una traduzione let¬terale. I secoli sono penetrati nel sangue della montagna. Ha visto i conquistatori aggirarsi attorno all'Isola Verde, e altri invasori si aggiravano intorno all’Algeria. 40000 soldati lotta¬rono contro Tarik e Mussa. Dal Magreb venne un uomo mascherato. I suoi occhi avevano il colore del Nilo. "Può il tatuaggio essere cancellato?"
Ha visto la città adirata; così anche le donne - E quando ti chiedono sulle mestruazioni - che erano uscite inaspettatamente. Diedero l’idea della sera coi loro veli neri come le ali scurissime dei corvi. 20000 soldati assediarono questa città nei tempi di Salah Bey. Le donne erano in lutto per essa. La preghiera del morto si sparse dappertutto nel paese. Il ven¬ditore delle crepe, il tunisino, pianse il suo olio bol¬lito sparpagliato sulla testa dei soldati uccisi.
Un bambino giocava su una terrazza con una gabbia piena di canarini gialli come il gesso.

Scrisse i primi slogan sulla terrazza. Stava per ini¬ziare una lunga battaglia con il suo corpo adiposo, sbordato a destra e a sinistra, avanti e indietro. Lui che era stato preso da bulimia nervosa. Il dottore disse: "Sei obeso ragazzo". Babb'agina, man¬giatore di tammina [un dolce tradizionale] la deformazione del nome di un attore gigante grandioso Botti (Bud Abbot), Babba Smina mangiatore di ruina2. Una lunga battaglia col corpo, fino all’inizio della giovinezza e la fine dell'adolescenza.
Un piccolo bambino giocava sulla terrazza di una casa araba, il giorno in cui le donne erano uscite in strada per manifestazione. Giocava con una gabbia piena di canarini. Die¬de loro il segnale con la musica ad orinare (per dispetto?), abilmente ammaestrati, sui berretti dei soldati.
La preghiera del morto, la preghiera dell'assente; suo fratello era assente. Vide la città arrabbiata e le donne uscirono inaspettatamente. Diedero l’idea del mattino coi loro veli e i loro commoventi slogan. Parole inghiottite nel silenzio.
L'acqua gialla dei canarini gocciolava sui soldati. Tirarono fuori le loro baionette. Ruppero ogni cosa: le cesta della verdura, la gab¬bia dei canarini, il recipiente dell'olio del tunisino, e perfino la testa di quel bambino venne separata dal suo corpo.
Parole commoventi inghiottite nel silenzio. Oggi ci sono teste che si sono addormentate e ci sono altre che si sono svegliate. Avvertì che i loro posti che mescolavano si intrappolavano. Il tatuaggio si è allargato sulle sue grosse ginocchia. I tratti del suo viso si sono ristretti. La preghiera del morto e quella dell'assente. Il padre disse: "tuo fratello"
Si rivolse ai secoli per riprendere le dita di un bambino obeso coll'azzurro delle falangi e il giallo del suo gesso e scolpire degli slogan sul pavimento della terraz¬za di una casa araba, ALGERIE VAINCRA, nella lingua del nemico stesso. Era lui che decideva. Diceva delle parole politiche. Quando vide il vecchio cieco nella scuola del Corano avvicinarsi soffiando sulle tavolette bagnate d’inchiostro gli stese il tappeto. Le sue mani erano modellate dalla violenza della guerra la violenza della parola. C'era la brutta guerra. Dov'era la sua infanzia? Si è legata alla sua tragedia e ai suoi complessi. Lui che non era accettato dai suoi coetanei per la sua obesità e anche dalla sua famiglia per le sue contraddizioni.
Dì che è un male.
C'era dunque un bambino che giocava su una ter¬razza con una gabbia piena di canarini. Diede il segnale ai suoi uccelli perché orinassero. La polizia tentò di arrestare il ribelle abile nell'insegnare la musica. Gli uccelli gialli into¬narono l'inno nazionale che avevano imparato alla perfezione da quel lontano bam¬bino. Allora i soldati gli separarono la testa dal capo.
La preghiera del morto e quella dell'assente. Lo stesso tempo. Il bambino aspettò l'arrivo di "Naus" suo fratello. Rifiutò d'andar via dal porto prima che arrivasse. Decise di subire la sofferenza silenziosa. Si impose un Diet perché i soldati non ridessero della sua obesità.
Nei tempi del¬la guerra le rive del Rimel bollivano di teste decapitate vi¬gliaccamente. Lo si sta ancora ricordando sui disegni dei conqui¬statori (Eugene de Lacroix) e sui cadaveri dei canarini.
La gabbia fu ridotta in mille pezzi, come il sole attraverso il vetro convesso della finestra. E lui dietro, adulto, lavorava serio mentre le gru passeggiavano nell'aria e strappavano il tes¬suto del firmamento.
Gialla. Grigia quando passava davanti al disco solare. Poi di nuovo gialla. Non scoprì la marca della ditta della gru se non dopo parecchi mesi la sua installazione nel cantiere opposto alla sua fine¬stra. Potain. La preghiera del morto, quella dell'assente. Aspettò molti giorni l'arrivo del feretro. Rifiutò anche - la sua salma fu messa in una cassa ornata e celata con la firma della dogana - di andar via dal porto prima dell'arrivo della bara. Il fiume della storia si divide in due tempi. Li ha scelti involontariamente, quello di prima e quello di dopo. Non aveva bisogno di un calendario per raccontargli come l'acqua, l'orina, il sangue, il corpo Botti, si espandeva come il ramo del gelso fino a quando è diventato adulto. La morte è legata al mo¬mento come la dispersione della luce, l'effervescenza dei vermi e il barlume dell'aria. Il maestro disse: “scrivi sulla tavoletta”3. Scrisse passi del Corano, degli slogan, calcolo X3+3x2-3x-1=0, geome¬tria, coniugazione, poi il Corano ancora. Allontanatevi dalle donne in mestruazione.
"Pronto Maestro"4. Aveva paura per sua madre. Disse: Decidi tu. La mia infanzia si legò al suo dramma.
Si sottomise la legge delle ghiandole lacrimale.
Poi l’infanzia si appassionò delle enciclopedie e dei vocabolari. “ Laudate pueri, nulla in mundo pax sincera in furia”. La ricerca del verbo nella frase fu una tragedia da cui non riusciva ad uscire. Tuttavia egli conosceva la relazione tra questa frase latina e la ghiandola lacrimale. Dov’era la sua infanzia? Era scomparsa. Come? Raccontò nel crepuscolo dell’alba: l’accompagnò alla scuola.
Scrisse "gialla, poi grigia, e poi gialla. E la gru partì come una fraccia. Mi sembrava fissa, poi..

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Scese in strada dopo aver preso l'ascensore per comprare un pacco di sigarette. Aveva l'abitudine di prenderle da uno dei venditori ambulanti, la maggior parte dei quali sono disoccupati. In vero non voleva uscire dall'ambulatorio, ma era costretto a farlo perché sentiva la mancanza della sua dose quotidiana di ta¬bacco. In quei giorni c'era troppo lavoro. Non riusciva ad evi¬tarlo. Pensava, perciò, che occorresse smettere di fumare. Gli venivano in mente le diete che osservava da bambino quando soffriva di buli¬mia nervosa. Voleva prendere una decisione, ma si rendeva conto che ancora una volta non ce l'avrebbe fatta, si era ripromesso di pensarci seriamente in un'altra occasione. Non appena accesa la prima sigaretta si era girato verso il cielo, guardando la finestra del suo ufficio e inconsciamente si era messo a contare i piani: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10. Lavorava al decimo e ultimo piano del palazzo situato all'opposto del cantiere che aveva aperto le sue porte un anno prima. Aveva tentato di volgere il viso di un an¬golo di 45°, di vedere la gru di cui seguiva i movimenti quoti¬dianamente. "Hai i fiammiferi?" Il giovane frugò dentro la tasca destra dei suoi pantaloni e tirando fuori un pacco sporco glielo diede. Tarik prese il pacco, l'aprì, ne tirò fuori un fiammife¬ro, accese la sua sigaretta, chiuse il pacco e lo ridiede al ven¬ditore ambulante. Ma il ragazzo disse: "tienilo pure, ne ho al¬tri". Tarik insistette per restituire il pacchetto, ma alla fine accettò. "Grazie". Aspirò l'aria. I suoi polmoni si riempi¬ono di un fumo denso. Fece qualche passo, alzò la testa di nuovo verso la finestra. Notò l'ombra di parecchie gru che si riflettevano sulla sua superficie. Cercò di contarle. Rinunciò. Pensò di smettere di fumare e considerò l’ipotesi di visitare la città di Gibilterra. Ri¬nunciò subito . Disse: "E' una vecchia mania. Devo sbarazzarmene". Gli venne in mente quando era bambino. Rise di se stesso. Tornò indietro per il suo lavoro. Disse: "Queste diete vengono tutte quante dal male che si trova nella gente e che la danneggia e l'ossessiona". Entrò nel palazzo. arrivò vicino all'ascensore. Lo chiamò. Premette sulla gente. La freccia che indicava la salita si accese. Entrò nella gabbia di ferro, alzò la testa verso l'indicatore del piano e cominciò a contare, anzi a leggere i numeri che apparivano uno dopo l'altro sullo schermo elettrico, sulla cornice della porta: 4, 5, 6. Si fermò. Si rimproverò: “Perché questa ossessione di contare?"
Poi di nuovo 6, 5, 4, 3. Il conto al rovescio: Il problema era quello dei numeri e delle equazioni matematiche". Disse: “è diventata una sorta di fissazione". L'ascensore si fermò. La porta si aprì, scese, anzi uscì. Si trovò in un enorme sala che non aveva che un'unica por¬ta. Era la porta del sanatorio. Si fermò innanzi ad essa. Accese la sigaretta che era rimasta spenta durante la salita senza la¬sciare le sue labbra. Aspirò una boccata di fumo. Gli viene in mente un insieme algebrico di terzo grado: x3-3x2- 3x-1=0.
Mise la mano destra nella tasca dei pantaloni. Tirò fuori una chiave. La introdusse nella serratura, la girò. Aprì la por¬ta, la spinse, entrò nell'ambulatorio. Spense la sigaretta in un portacenere che si trovava sulla tavola di legno duro dell'en¬trata. Si diresse verso la scrivania. L'infermiera uscì dalla stanza opposta e disse: “E' il momento del primo cliente. Abbiamo parecchio lavoro oggi. Posso introdurlo?”
Dapprima non le rispose, poi fece un cenno affermativo. Entrò nello studio senza chiudere la porta.
Gialla, grigia. E di nuovo gialla. Tornò indietro. E di nuovo gli venne in mente l'idea di smettere definitivamente di fumare e quella di passare le sue ferie a Gibilterra. Di lì altri ricordi della sua infanzia quando era bam¬bino obeso mentre aveva preso la decisione, un giorno, di sotto¬mettersi, a una dieta per non essere più preso in giro dai solda¬ti francesi durante la guerra.
Il primo paziente entrò accompagnato dall'infermiera. Disse:
"Che cosa ci fa male oggi?" Rise della sua propria frase. "Perché la forma plurale?" Disse fra sè: “Io non sento nessun male, eccetto questa maledetta sigaretta. Devo smettere di fumare davvero. Que-sto modo plurale, è da professionista, nient'altro. Un altro mo¬do. Come stiamo oggi. E' un accostamento bastardo e basso. Se mio nonno l'avesse saputo, avrebbe fatto un embargo e ci sarebbe sta¬ta l'insurrezione fra di noi. Povero zio Hussein. Era tutt’al contrario di mio nonno. Quest'accostamento vile. La fissazione è la stessa. Non cambia. Ci vuole qualche ordine: Il mangiare o le sigarette. Non sono ancora guarito dalla malattia di questo com¬plesso di obesità. Non è durata che qualche anno. L'inizio della guerra. Forse era la paura? La ghiandola tiroidea. Il giorno in cui i soldati sorpresero me e Sciams Eddin. Mia madre disse: ‘Son venuti all'improvviso’ Traduci. Traduci anche questa meraviglia, tranne la cifra. Il mio amore per le lingue, ivi compresi i dialetti popolari e berberi. Come stiamo oggi?" La vecchia infermiera alzò il soprac¬ciglio sinistro. Non accettava questo trattamento. Ci vedeva un po' di volgarità. "Ognuno al suo posto, è meglio". Alzò il suo so¬pracciglio come l'ago di un orologio murale posto su un volto lu¬gubre. "Quest'accostamento è mediocre comunque. Ho contratto l'o¬besità che mi copriva il corpo all'inizio della guerra. C'è qual¬che relazione? Il problema delle ghiandole è spinoso”.
Fece segno all'infermiera di uscire. L'altro sopracciglio si alzò. Divenne come un orologio murale i cui occhi si erano fermati definitiva¬mente.
Quando l'uno raggiunse l'altro, ella disse: "va bene Beck”.
"Ahimè" dissi, "tutte queste mediocri serial televisivi egiziani rende¬rebbero pazza questa povera vecchia signorina". Il cliente sor¬rise quando sentì la risposta dell'infermiera. Ci scambiammo un’occhiata. Per forza, facemmo lo stesso ragionamento.
“Quanti soldati assalirono la casa di famiglia? Salirono sulla ter¬razza. Lessero gli slogan scritti col gesso giallo. Sciams Eddin era più giovane di me di 4 anni circa. Suo padre è lo stesso zio Hussein. Era pronto lo zio Hussein a denunciarci. Non c'erano al¬tri che noi due a poter scrivere slogan del genere. Gli altri? Si nascosero sotto i letti. Invece mia madre era più coraggiosa. Disse: “E dopo? Ci taglieranno la testa". Sciams Eddin sputò sull'ufficiale. Questi gli diede un paio di schiaffi. Sciams Eddin era abituato a ricevere percosse ancor più dolorose.
Lo zio Hussein eccelleva nel torturarlo. Quant’agli schiaffi dell'ufficiale essi non gli avevano fatto male. Guardò per lungo tempo il militare. Questi disse: "Se non fossi un bambino ti avrei ucciso crudelmente". Tirò fuori la sua pistola. Mio cugino non si mosse. Sciams Eddin disse: “Come mai l'uomo può contrarre la malat¬tia della paura? Vorrei esserne colpito per finirla con questo af¬fannoso coraggio, per riposare un po'..." La sua testa è dura e non si spacca" disse il padre. Il figlio lo disobbediva in tutte le cose, grandi e piccole. Si rifugiava da noi, si nascondeva nel letto di zia Fatima.
L'infermiera uscì arrabbiata: “Non fa niente - Me ne vado"
Dopo qualche giorno il grasso cominciò ad invadermi. Mi sono "ingigantito". Fu la tragedia? Costrinsero me e Sciams Eddin a lavare gli slogan scritti - W le peuple algerien - sul pavimento della terrazza col gesso gial¬lo.
Mia madre riempiva i secchi d'acqua, mentre noi strofinavamo e cancellavamo le tracce del gesso giallo. Mio padre, come al soli¬to, era assente. Lo zio Hussein tremava di paura. Balbettava men¬tre parlava: Missieu...missieu le Kobtan (signor capitano)...All'indomani facemmo la stessa cosa in segre¬to, dopo che il resto della famiglia si era addormentata. Stavolta utilizzammo il gesso rosso, aggiungendo alla vio¬lenza altra violenza. Scrivemmo altri slogan che non ave¬vamo avuto il coraggio di scrivere prima. Da quello che ricordo, Sciams Eddin andava a cercare nel vocabolario. Diceva - faremo de¬gli errori e i soldati ci prenderanno in giro la prossima volta. Stai attento . Aggiungemmo nuovi slogan a quelli vecchi. "Abbat la Fransse". Mia madre disse: “volete rovinarci ragazzi? Chi ha tradotto quello slogan? Qualche ragazza senza dubbio. Quant'ai maschi, essi rifiutarono di salire sulla terrazza dopo che erano venuti i soldati.
L'infermiera se ne andò trascinando i piedi, esasperata.
" Forse si sta preparando per un ruolo in qualche film egiziano che uscirà prossimamente", disse il cliente e fece una risata. "Non è giusto, dovresti esortarla, fratello mio”. Colsi l’occasione mentre si svestiva. Mi avvicinai alla finestra. Vedevo la gru gialla. "Questo spettacolo mi fa bene" dissi. "Come le giraffe e gli uccelli. I cervi".

Egli disse: “Senza orgoglio e senza crudeltà abbiamo deciso di sgoz¬zarli senza ricevere l’ordine da nessuno. Non sapevamo come collegarci coi responsabili. Entrammo nel bar. Era pieno di sol¬dati della legione straniera. Facemmo finta d'essere ubria¬chi. Eravamo seduti vicino al bagno perché non c'era più posto libero. Ci entrai più volte a vomitare per evitare l'effet¬to del vino. Le sue mura sporche, viscose. Il bagno era di tipo turco solo che ormai non serviva più a niente. Gli ubriachi avevano l'abitudine di urinare addirittura sul muro, sia per econo¬mizzare il tempo, sia perché perdevano la coscienza. Erano davvero strani questi dettagli. Non ne rimase che l’inutile. L'accumulo delle futilità come diceva Kamel. E la cosa più strana è che la maggior parte degli individui che fecero quell’opera¬zione - e che sono ancora vivi - sono ancora oggi gli stessi in¬dividui abituali di questo bar. Il più grande di noi non ol¬trepassava i 20 anni. Non sono rimasti che i dettagli che non han¬no nè senso nè importanza. Come li sgozzammo? Come riuscimmo a farli uscire dal bar? Ho dimenticato i dettagli. Erano in 4 o 5. Dopo ci fu la grande disgrazia. Non avvisammo nessuno. Come mai ciò fu possibile nonostante non sapessimo nulla della rivolu¬zione'? Dissi:
"Ti ricordi la data precisa?"
“No. Per Dio " - ri¬sponde lui. "Alla metà del febbraio 1956".
"Cioè all'inizio?"
"Si -disse - se non mi sbaglio. La zia Baya nascose quella notte me e un mio compagno; che Dio abbia la sua anima”.
Temevo che i miei occhi si riempissero di lacrime. “Eseguimmo la nostra crudele operazione alle 11 di notte. Dopo mezz'ora ci fu la grande apocalisse. Notai che usava spesso uno stile coranico. Ha una cultura Kuttabia pura . La scuola si trovava vicino a casa, la casa di mio nonno, tempo fa”. Riprese a parlare come se stesse parlando a se stesso. La notte cominciò a calare e la luce non era stata ancora accesa. Non osai accenderla neppure io. "Ha bisogno dei suoi spettri" dissi io. "Cose di casa mia av¬vicinatevi a me". La zia Fatima chiamava "gli spiriti" i proprie¬tari di casa. Lo lasciai circondato dagli spettri. Preferii non accendere la luce, così egli non si sarebbe accorto del mio probabile pianto.
"I soldati paracadutati entrarono in città con le loro macchine e i loro veicoli blindati. Sparavano su tutto ciò che si muoveva, così ciecamente. Parecchi rimasero uccisi. Ma noi, i membri dell'organizzazione ci salvammo. Rimasi nella vostra casa. Tua madre m'era di sostegno e aiuto. E che aiuto! Era come quando lavoravo nel negozio di tuo padre. Trascorrevo i miei giorni a inchiodare le casse di legno piene di uova e d'agrumi. Le chiudevo e ci mettevo su una marca rossa del nome di zio Has¬san. L'odore della segatura di legno che usavamo per proteggere le uova da ogni danno mi perseguita fino ad ora. Così anche l'o¬dore dell'inchiostro e quello dell'aceto aspro. Tuo padre non vo¬leva che le mia dita si sporcassero dell'inchiostro. Mi sgridava e mi picchiava violentemente quando mi sporcavo”.
E lui rise. Io non lo vedevo ma sentii la sua risata echeggiare nei miei orecchi.
“Ci siamo salvati tutti quanti. Ma i morti furono tantissimi . I quotidiani dell'indomani riportarono che l'esercito francese aveva sterminato tutta una banda di fuorilegge: Un groupe de hors-la-loi anenanti! . Non uccisero che inermi innocenti. I poveri della città. In¬vece noi eravamo salvi, tutti quanti. Mi rifugiai da tua madre. Ella mi nascose. Aveva paura - che Dio abbia la sua anima - dello zio Hussein. Quanto a tuo padre, tu lo conosci be¬ne. Tu sai”.
“senz’altro".
“come sta? - disse
"Sta benis¬simo", risposi.
"Solo un mese fa gli ho reso la visita .Arriverà dice lui fini a cent'anni"
“E’ molto probabile Quanti anni ha adesso” mi chiese
“80 anni circa. E’ nato nel 1905. 81 precisamente."
“era eccentrico - aggiunse ridendo - ma riconosco che era intelligente. Era un erudito. Se almeno non si fosse comportato come ha fatto con tua madre. sarebbe stato...So¬lo il modo di trattare tua madre. Peccato...Il verosimile tratta¬mento crudele. Ma era inconsapevole per quello che faceva" “Ma è una giustificazione inaccettabile" - sostenni
“Ma ha vinto i francesi, se non fosse stato per lui noi ragazzi non saremmo en¬trati nella battaglia. Ti ricordi quante volte è stato incarce¬rato?”
“Si...Ma”.
“E' vero. Ma!”
“Ti ricordi - continuai - di quella miniatura appesa al muro dell'ufficio del suo negozio?”
“no. E' possibile....E' una cosa ambigua.”..
“No, non credo. Sai che la mia cultura è limitata. Non mi interessavo di quelle cose, allora. Invece lui, un vero uomo, un vero colto non come mio pa¬dre, il tuo zio Hussein. Che Dio abbia la sua anima. Anche lui era cattivo. Quanto era duro con noi!”
“Ma non hai dimenti¬cato quello che lui ha imparato dal Corano. Tu parli come lo maestro della scuola. Come si chiamava. Morì dopo lo scoppio del¬la resistenza”.
“Sidi Salah. - disse - Esatto!”
“Ti ricordi dell'odore di mia madre?” - dissi.

Capitolo II

Gialla come quei cavalli della miniatura che rappresentava Tarik Ben Ziad con un gruppo di ufficiali in piedi innanzi alla pianura di (dice Ben Kaldun) "Sciarisc". Il gruppo di militari non andava oltre le 10 persone, compreso Tarik, i suoi luogotenenti, i percussionisti, i trombettieri e gli alfieri. Gial¬li erano anche quei cavalli in piedi, dietro la baia dello stretto. Essi portavano i cavalieri e in primo piano Tarik Ben Ziad. Ma il resto dei cavalli era di colore granato o marrone. Erano 10 in tutto, tutti schierati sulla stessa linea, tranne il cavallo di un percussionista. Dietro il gruppo di militari, c'erano 5 bandiere:
1) una bandiera grigia di stoffa su cui era scritto in caratteri Kufi5 bianchi queste parole: “Di Allah, unico, Allah”. Ma le parole successive della Surat erano nascoste.
2) una bandiera rossa su cui erano ricamate 2 parole: “Allah” (di sopra e sotto la parola "il più grande". Una sorta di aste¬risco a quattro punti separava le due parole.
3) una bandiera pallida dove c'erano scritte parecchie parole in bianco, che non si potevano leggere a causa della mancanza di contrasto e della somiglianza dei due colori, cioè il grigio pal¬lido ed il bianco. Tuttavia se qualcuno avesse guardato bene nell'immagine avrebbe scoperto la parola di Allah sulla terza parte della bandiera, sul lato ovest.
4) Una bandiera tessuta con una stoffa nera su cui erano ricavate queste parole: “Non c'è nessun Dio al di fuori di Allah”. Il resto della frase poteva essere il seguente: “Maometto è il suo profeta”. Ma era coperta dalla testa del percussionista, il cui ca¬vallo era più avanti e che nascondeva l'ultimo quarto di questa ban¬diera.
5) Una bandiera granata su cui erano scritte queste parole. “Non c'è nessun Dio al di fuori di Allah, Mohamed..”, ma il resto della frase non si vedeva a causa della testa di uno dei soldati che accompagnavano Tarik. Si scorgeva su ognuna di queste bandiere una treccia, una sorta di stuoia di fili di cotone, fitta, conica, di colore rosa. Forse erano queste trecce (erano 10, 2 per ogni bandiera) che legavano la stoffa al quadro rettangolare. Era impossibile dire di che materia fosse. Oltre queste cinque bandiere poste alla testa del gruppo, c'erano 3 bandiere tenute ciascuna da un ufficiale luogotenente del generale conquistatore (forse era Tarif Ben Malek Ennek’i). Queste tre bandiere avevano gli stessi disegni, gli stessi quadrati, gli stesi rettangoli, gli stessi cerchi, gli stessi triangoli. Perfino i colori erano gli stessi su ogni bandiera: Il nero sovrastava sugli altri colori: lavanda, rosa e giallo pallido. Inoltre ogni bandiera aveva una treccia rosa. Sulla sinistra della miniatura nell'estremità dell'immagine, c'era uno stendardo rettangolare lungo e stretto. Era un ufficiale di Tarik che lo portava con en¬trambe le mani. Questo stendardo al centro nero era pesante. I margini erano invece dorati, decorati da motivi, da colori e da forme diverse. Lo stendardo era fatto di lana e rica¬mato con seta. Non si poteva decifrare la scrittura sia a causa del deterioramento di questa parte della miniatura, sia per una scelta dello stesso pittore. Comunque quest'angolo della miniatura era poco chiaro e a un certo punto torbido, ambiguo, in qualche modo, an¬zi, tremolante, meglio instabile.
Forse quest'ambiguità era dovuta a ragioni filosofiche e religiose. Questi motivi presenti sullo stendardo nero potevano, forse, indicare simboli dai significati misteriosi, una scrit¬tura segreta che soltanto i mussulmani conquistatori avrebbero potuto capire e che avrebbe provocato fra i loro nemici disorientamento e avrebbe confuso quel generale infedele (Laerdrick?) che voleva combatterli, mobilitando un esercito di 40000 guerrieri, la maggior parte dei quali era di goti, galli e franchi. Dunque que¬sti segni bizzarri avrebbero disorientato una qualsiasi persona che avesse avuto l'idea di resistere ai conquistatori, meravi¬gliandola e paralizzandola. Di conseguenza non avrebbe saputo nè cosa fare nè come lottare. Così gli infedeli avrebbero perso la guerra davanti a quegli arabi (100 circa) e berberi ( 10000 perso¬ne) che non sarebbero venuti come conquistatori ma come liberato¬ri inviati da Dio. Eppoi: ognuno del gruppo aveva una piccola barba, nera, dello stesso stile. Non c'era differenza tra la barba di Tarik e quella dei suoi luogotenenti o degli ufficiali respon¬sabili degli strumenti musicali e delle bandiere e degli stendar¬di, unici nel suo genere, in cui erano raffigurati quei segni bizzarri. Quanto agli strumenti di musica essi erano quattro (ma meglio dire tre, dato che il tamburo era composto di due pezzi, quasi separati l'uno dall'altro a dare l’impressione che ognuno costi¬tuisse uno strumento a parte): due trombe e un tamburo a 2 pezzi: 2 tamburi per chi di solito non dà impor¬tanza ai dettagli del quadro e che invece costituiscono, per i pitto¬ri, la parte più importante della creazione artistica (un cumulo di fu¬tilità?). Insomma gli strumenti musicali erano tre. Non era possi¬bile, però, ricorre in appello per conciliare le diverse e numerose tesi facendo di una questione estetica un pro¬blema filosofico ove il sofisma può intervenire senza possibilità di conclusione.
Si poteva dire la stessa cosa per quanto riguarda il numero dei turbanti dai colori diversi, dalle forme simmetriche o parallele, e, cosa che suscitava l'inquietudine e l'angoscia, sembrava che uno dei soldati sulla miniatura, non portasse nessun turbante. Forse aveva dimenticato di metterlo prima di iniziare quest'operazione militare perché andava di fretta. Forse anche l'assenza del turbante era dovuta a una causa tecnica conosciuta col nome di illusione ottica nel disegno e nella pittura, dato che il soldato senza turbante si trovava ai margini del disegno stesso, cioè all'estremità di sinistra. Precisamente era uno dei trombettieri. Per quanto riguarda il numero dei cavalli si poteva notare che esso era superiore a quello dei cavalieri i quali erano 10 mentre i cavalli erano 12. Perché questa differenza? Si possono fare pa¬recchie ipotesi.
Prima: Forse due cavalieri erano caduti a causa del terrore innanzi all'importanza storica di una vicenda simile, cioè la con¬quista islamica non soltanto dell'Andalusia, ma anche di tutte le regioni lì dietro il monte "bartat" e soprattutto il paese del¬l'orco.
Seconda: Forse quei due cavalieri erano rimasti uccisi durante la bat¬taglia precedente per attraversare lo stretto, ossia appena i piedi dei mussulmani avevano calpestato la terra degli infedeli, per la prima volta nella storia delle guerra sante, mentre i loro due cavalli avevano preferito seguire la carovana in maniera istin¬tiva.
Terza: Forse (anche) quei due cavalieri erano vittime dell'ottica e delle sue leggi rigidissime, perciò era impossibile per l'arti¬sta disegnarli, perché egli non li vedeva quando disegnava e ciò a causa dei vasti limiti che l'ottica impone all'occhio.
Quarta: Forse quei due cavalieri avevano lasciato le loro cavalca¬ture per il bisogno, per esempio di orinare, fare una preghiera in ritardo, riposare, curare gli zoccoli dei cavalli, cambiare le selle) o per un altro motivo impossibile a determinarlo dato che le ipotesi non hanno limiti nè fine.
Quinta: Forse.

"Ma è possibile visitare una città straniera lon¬tana, per un mero motivo narcisistico? Sei scemo Tarik. Soltanto perché hai lo stesso nome! Sei diventato pazzo? Non hai smesso di pregarmi perché ti accompagni come fece Mussa ben Nusseir che accompagnò Tarik dopo che costui era entrato nell'Andalusia. (E Tarik scrisse a Mussa Ben Nusseir della conquista e dei botti¬ni. Mosso da gelosia questi scrisse a Tarik rimproverandolo d'a¬ver proceduto senza il suo permesso e ordinandogli di non lascia¬re il suo posto fino a quando non lo avesse raggiunto). Perché vuoi che faccia il viaggio con te? Il monte Tarik (Gibilterra) se vuoi è una città che non ha niente di straordinario. Non c'è niente di particolare".
Mi prese in giro per un po'. Tentò di ridere. Si trattenne non perché fosse comprensivo ma perché era troppo malizioso. Soprattutto quando vuole avere una cosa di cui ha un gran bisogno. Allora dimentica che il suo egoismo si attacca alla persona come una pulce su pelle tenerissima! Volli con-fessarglielo. Dissi:
"Sei tornato all'epoca della dipendenza?"
Alzò il suo sguardo verso di me. Non aveva capito. Continuai:
"lascia stare. Niente. Un'idea al volo così”.
Tirò fuori dal cassetto una guida turistica e me la gettò. Lanciai uno sguardo rapido alla copertina sontuosa e ricca di colori:
"Visi¬tate Gibilterra..."
"Visitez Gibraltar".
"Visiten Ustedes a Gibraltar".
"Visit to the town of Gibraltar"..
alla copertina ricca di colori, dunque, e constatai:
"ma è una brutta città, di carattere e di costumi inglesi. Lascia stare questo vi¬le narcisismo...lascia stare questa menzogna. E’ perché ti chiami Tarik, come il conquistatore dell'Andalusia. Devi sapere Dot¬tore (con ironia?) che quel Tarik amava la carne viva... Siete già stati informati delle belle donne che quest'isola ha creato dalle figlie della Grecia ricche di perle e di corallo e di gioielli preziosi..."
Rise. Con tatto mi fece tacere. Rispose:
"Ti ricordi: Ho bussato finché non ho avuto una risposta6?"
"Questa è una proiezione mentale?- dissi- Il pozzo dell'infanzia è profondo. Smettila di dire bambinate" Non mi ha rispose. Continuò:
"E Suad ha orinato"? Che ne dici?" Dico:
“se tua moglie lo sa, - dissi - si arrabbia e incomincia ad avercela con te." E lui: " Non cercare di scappare", Suad ha orina¬to, ti ricordi?"
Per fargli smettere questa sciocchezza gli risposi con compia¬cenza:
"perciò il mio cuore è bagnato".
Rise fragorosamente co¬me un bambino, con il viso congestionato, come i¬pnotizzato.
Una leggera nuvola passò dietro il vetro opposto alla pol¬trona dove sono seduto. Non toccai la guida turistica. Rimase ri¬masta sul tavolo. La spinse furtivamente verso di me. Feci finta di non aver notato la sottile manovra. L'avvicinai di più a me. Chiesi:
"Vuoi andare dunque, alla città di sua maestà la regi¬na. Come è possibile? Gibilterra è una città completamente ingle¬se. Non c'è nessuna gioia, non è interessante". Lui rispose:
"Che te ne frega? Vieni con me e poi capirai". - rispose
"Perché non ti accompagna tua moglie? Io ho da fare".
Disse di punto in bianco, senza nessuna logica:
"Adesso parli come il professore Ben Asciur...: Essere impegnato. In ciò, c'era qualche arti¬ficio amico mio". Rise. Non ne vedevo il motivo. Tacemmo per una frazione di secondo. L'infermiera bussò alla porta. Egli non le rispose. Aprì la porta e introdusse la testa. "Il telefono...". Lo disse con una voce spezzata, poi se ne andò. Lui non le rispose.
"C’è qualche sotterfu¬gio. Dobbiamo prendere il visto, lo sai?" Si meravigliò per quello che affermavo. Disse:
"Come mai, un visto? Non è possibile. Sei sicuro? “
"perché ti meravigli?.. - aggiunsi scherzando -Forse tu pensi che sia ancora il paese dei tuoi antenati? Eppoi come ti è venuta questa esaltazione per la tradizione, fratello mio? Non dici niente? Non ci pensi già più? La terra degli antenati! Non lo è? Hai di¬menticato le lezioni di Ben Asciur?"
Non rise. Anzi mi guardò con intensità, qualche lungo secondo.
"Capirai poi, vieni con me. Conoscerai la parte nascosta della montagna di ghiaccio”.
"Dì, piuttosto, di iceberg e lascia stare le parolone. Cosa hai oggi? Vuoi uccider¬mi con l'acqua fredda...col tuo discorso di ghiaccio. Iceberg! Non è una parola francese. Allora?"
Non rispose alla battuta. Sem¬brava ubriaco, assente, lontano. I suoi occhi si riempirono di lacrime. “C’è qualcosa di sotto” riaffermai.
Sembrava strano, non era più come al solito. Disse
"bevi un caffè"
“Si "
Uscì fuori dallo studio in cui avevamo preso l'abitudine di riunirci ogni volta che volevamo rimanere da soli. Tornò con una tazza di caffè. Notai che si è pettinato. Afferrai la tazza prima che la ponesse sul tavolo. Fece due passi e si fermò dietro di me, anzi dietro la poltrona in pelle che oc¬cupavo. Vedevo la sua ombra riflettersi sul vetro della fine¬stra opposta a me. Era un riflesso triste. Lo sentii dire: "Sei geloso di me.." Sembrava che le parole non stessero uscendo dalla bocca di una persona conosciuta, ma venissero dalle cose. Forse la causa di quest'impressione risiedeva negli strati sovrapposti di aria che trasformavano - mentre calava la notte - le scritte in una sorta di pezzi di gomma bruta.
In un primo momento pensai che ciò fosse la causa che mi impe¬diva di capire quello che diceva il mio amico. Perciò non gli risposi come se le sue parole fossero inghiottite dalla oscu¬rità che cominciava a invadere a poco a poco la stanza. Ri¬masi a spiare i movimenti di Tarik attraverso il vetro della fi¬nestra, e nient’altro malgrado il cambiamento del colore della finestra che andava dal giallo melograno. Vedevo che alzava il braccio verso la libreria tastando con la mano sinistra i libri senza cambiare la posizione del corpo che rimaneva davanti alla finestra. Riuscì dopo un istante a tirar fuori un libro che era vicino a parecchi altri libri sul sesto scaffale del¬la libreria. Non l’avevo intuito, ma ero riuscito a contare gli scaffali mentre egli cercava il libro senza guardare la libreria e nonostante la scarsità della luce. Mi dicevo, mentre s'impegnava a cercare il libro perché non accendesse sulla sua scrivania la lampada, che era bellissima e di materiale pregiato?"
Mi venne in mente che gli era stata regalata da sua padre che l'aveva portata da Praga, anni prima, o da una città della Cecoslovacchia. Una volta Tarik mi aveva detto che suo padre l'aveva comperata la domenica del 12 Aprile 1934. Non dimenticherò quei numeri: 12-4-1934. Perché non li dimenticherò? Li ho memo¬rizzate da anni malgrado non abbia mai incontrato il padre di Tarik. Conoscevo benissimo sua madre a cui del resto le facevo delle visite fino a quando non arrivò il suo momento, come diceva la mia.
Prese il libro dallo scaffale. Vidi la sua ombra diminuire mentre lui apriva il volume (come me ne ero accorto?) e comincia a legge¬re:...”Geloso, questi replicò a quell'altro minacciandolo d'aver agito senza la sua autorizzazione, gli ordinò di non spostarsi fino a che non l'avesse raggiunto. L'interim di Kairwan [città della Tunisia] era stata data a suo figlio Abdullah. Hussein El Fahri partì con lui. Così nel 93 dell'Egira, egli partì da Kaira¬wan con un esercito enorme costituito da Arabi, Mauali e Berberi. Arrivato alla baia dello stretto..”.
“Non sei geloso anche tu? Perché non vuoi venire con me sul monte di Tarik?
Il fatto era molto più complesso di quanto non credessi. Conosceva la storia dell’immagine mentale? Senza dubbio la conosceva. L'interrompi “No...No..”
Ma lui non mi dava importanza. Continuava: “Ogni individuo ha la sua sola immagine mentale, unica nel suo genere, che ha la funzione di mantenere un’idea fissa nella propria vita...questa immagine è di solito incosciente nella persona che colpisce. Non aver paura, non voglio mica darti una lezione! Sappi che la mia immagine mentale è legata al monte di Tarik. Non ho altro da dirti". "Ciò è molto probabile. Ma ..." Dissi
"Non c'è ma... bisogna tenerla d’acconto e basta. Aiutami caro mio. Ho bisogno del tuo aiuto" -aggiunse.
"Ma perché proprio io?"
"Sei così scemo, oppure vigliac..Hai paura di tutto quello che è dentro di me? Dimmi, chi mi ha accompagnato durante la mia infanzia, dal scuola del Corano, al liceo, all'università? Chi era seduto accanto a me duran¬te le lezioni del professore Ben Asciur?" (La storia, ragazzi, state attenti alla storia...è infernale ragazzi)”.
"OK. Maestro. Il Corano è dalla tua parte.
Decido io " Era proprio questo che diceva il mio mae¬stro quando lo vedevo avvicinarsi e soffiare sulle tavolette bagnate d’inchiostro. Mi stese il tappeto, mi minacciò:
“Hai imparato a memoria il capitolo: E quando ti chiedono sulle mestruazioni, dì che è un male. Isolatevi...le mie mani erano condizionate dalla forza della parola / la guerra. Era la guerra. Dov'era la mia infanzia? E' stata sprecata, è spa¬rita. E come?
Raccontavo nel crepuscolo:
“Mi accompagnò all'alba fin al¬la porta del della scuola. Entrai nella moschea inferiore. La luce scendeva ed il mio robone mi copriva le ginocchia. Vidi il maestro mentre sceglieva una penna per me. Disse: “Scrivi il capitolo". Poi andai ad annusare di nascosto l'ascella di mia mamma mentre alzava le sue braccia verso la corda su cui stendeva al¬cuni stracci di forma strana...Dalle donne, durante le mestruazioni non avvicinatevi al loro fianco fin quando non si purificano. quando si sono purificate possedetele da dove vi ha ordinato Allah. "Mia made è pura immacolata" Lui mi schiaffeggiò. "Figlio di pu..." Disse mio padre. "Immacolata" replicai. Mi schiaffeggiò una seconda volta. Dissi: "Immacolata, dalle sue ascelle esala un gradevole profumo di rose conservate da secoli". Mi schiaffeggiò. Mi portò alla hall del della scuola. Disse: “Questi è sotto la tua responsabilità. Mi devi rendere conto soltanto con la pelle, le ossa, e il sangue ( il sangue delle mestruazioni?) “Mia madre è pura”. Il maestro violentò l’alluce dei miei piedi colpendolo col bastone, con la violenza della parola, della guerra; e il mio robone mi copriva le ginocchia. L’ho vidi mentre sceglieva per me una corda, un bastone, una penna. Disse: “Scrivi”. Scrissi una parola di dolore, coll’inchiostro rosso; poi ci camminai sopra. Raccontai all’alba color melanzana, al crepuscolo color verde come la bile dell’agnello alla festa del Sacrificio, al crepuscolo tinteggiato di un verde non compreso nella gamma dei 7 colori. Volli sorprenderla. Alzò le sue braccia verso la corda da stendere. A sua insaputa annusai le sue ascelle che esalavano di acqua di rosa. C’era troppa acqua e poco olio di oliva. Dopo avermi ferito disse ancora “scrivi”, mentre il mio robone mi copriva i piedi. Facevo fatica a camminare. Mio padre, padrone del bollo con cui erano sigillate tutte le casse delle uova e degli agrumi da esportare verso tutti i paesi del mondo coi nomi delle città destinatrici compresa quella di Gibilterra, disse: “Dunque mi renderai conto colle ossa, la pelle e il sangue. Quest’è il mio sangue sulle tue guance, l’ho visto’.7 Non ricordavo la sensibilità delle mie dita superiori e di quelle inferiore e dell’altra voluttà: sulle narici il gusto del profumo dell’acqua di rose mischiato a quello di zenzero che suo padre - operaio delle ferrovie - aveva portato.
Lo vedevo vendere i giornali segreti del partito sui treni, quando il partito era stato messo al bando. In realtà il partito era stato posto nell’illegalità da quando era sorto; vendeva quasi sempre i giornali del partito e distribuiva i suoi manifesti in tutte le regioni del paese. Portò l’acqua di “zenzero” in un piccolo flacone. Disse: “questa porta fortuna ai poveri”. Lei vi mise dentro alcune foglie di rosa e la conservò per tutta la sua vita. E l’altro piacere raggiungeva le mie narici col suo gusto profumato, le mie ciglia colla vista della pelle crostosa. Mia madre è pulita. Pulite sono anche le sue ascelle, depilate colla pasta di aceto bollito per giorni e notti intere. Mi ricordavo del maestro. Lei disse: “non arrabbiarti, se tuo nonno fosse ancora vivo ti rimprovererebbe. E’ il tuo maestro, l’insegnante del Corano. Non arrabbiarti”.
“In quel giorno non mi adirai ma oggi lo sono”.
“Dimenticai le mie dita quando mi recai alla scuola tra lo stupore e l’eresia. Mia madre era pura quando alzava le braccia per stendere i suoi stracci speciali. Nella mia bocca c’era gusto salato e la traccia di carbone dei suoi peli erano ancora impiantati sulla sua pelle ascellare. Ora la mia rabbia derivava dalla profondità della febbre, dalla menzogna e dal non detto. Come se le fosse stato possibile capire - casta com’era - il lapsus linguae, oppure il lapsus dell’uomo? L’uomo, io che ero stato scacciato dalla scuola coranica. Lei mi medicava le dita colle foglie del gelso con cui davamo da bere e da mangiare ai nostri bachi domati. Questi mi facevano scoprire... Da bere e da mangiare. I bachi di seta mi facevano scoprire godimenti ancorati nel desiderio di alcune zone di cui fino ad allora non ero riuscito a farmene un’idea. I bordi del “Rimel8 bollivano di teste decapitate in maniera crudele. La terra ne era piena. I soldati erano venuti e avevano pulito ogni angolo di terra. Costruirono delle guarnigioni sui loro monti e sui bordi dei precipizi. Li riempirono di armi e di munizioni e di un incerto spavento e di un odio orribile. Me la ricordo ancora quella città dove mia madre allora era preparata. Dall’altra parte veniva un rumore. Che cosa leggevano questi uomini sulla morta, sopra la sua fossa? La luce pendeva sulla fossa. La luce da questa morta buttata via nelle tenebre della tomba, come si butta un secchio. Sulla superficie dell’acqua comparvero le foglie delle rose. Me lo ricordo ancora. Quei bordi del Rimel con i sentieri ripidi che andavano verso le colline . Dunque mi ricordo ancora l’infanzia e lo scorrere dei mesi. Ora è piena di tombe e di incubi. Faceva il giro di tutte le case ove gli invasori erano venuti per umiliarci. Però incontrarono la resistenza dei lancieri che erano venuti da ogni valle e da ogni parte. Due trincee li separavano. Due mari erano dietro di loro. Venne un uomo colla maschera. Vidi la città arrabbiata, manifestando, manifestatasi mentre loro erano uscite inaspettatamente. Confezionarono la sera coi loro veli neri così che la legione straniera credette che i corvi avessero invaso la città. Quant’ai traditori e vigliacchi, persino gli sceicchi ed i giudici, tutti quanti, reputavano che si trattassero di uccelli di morte9.
Lo zio Hussein coglieva tutte le occasioni per picchiarci e tormentare le donne. Ma mia madre non tornò indietro finché non venne un fidai (uno dei miei cugini) che aveva lavorato nel negozio del mio padre. Mio cugino lavorava tutto il giorno per mettere i bolli sul legno delle casse delle uova e degli agrumi per esportarle verso tutti i paesi del mondo compreso Gibilterra, il cui nome era snaturato, ma ciò non faceva arrabbiare mio padre. Non protestò contro quello snaturamento. Chi può negare che le tracce di mia madre siano state disseminate nella tomba e si siano scomposte nell’acqua precaria della palude, dopo aver consacrato tutta la vita a conservare un piccolo flacone di un’acqua di zenzero a cui aveva aggiunto qualche petalo di rosa e qualche goccia di olio estratto dal vecchio e trascurato olivo nell’altra parte del giardino a cui nessuno, dopo la morte del nonno comunista, aveva tagliato i rami”.

Curiosi ci stavano ascoltando. Quando guardai uno di loro egli accennò ai suoi amici di cambiare la direzione dei loro sguardi. Risposero subito facendo finta di giocare a carte. A sua volta Tarik si alzò. “Vieni?” Di nuovo salimmo sulla macchina, malgrado fosse ad un posto all’ombra, il caldo che si era addensato a grappoli, ci spaventava. Appena ci siamo seduti il sudore è cominciato a colare sulla mia fronte in un primo momento, poi su tutto il corpo. La macchina procedeva lentamente. Tarik aprì il finestrino vicino a me, ma invano. Quando arriviamo al distributore di benzina non c’era nessuna strada alla nostra destra come ci aveva detto il padrone del caffè. A trenta all’ora proseguii la corsa. Non scoprii nessun’altra strada mentre le case di campagna diminuivano e si disperdevano; vidi una vecchia casa. Mi sembrava che fosse di stile arabo. Appena mi avvicinai risi di me stesso. Tarik mi capì. Sorrise e si accontentò di muovere il capo da destra a sinistra. Osservò attentamente la strada e gli edifici sorti qua e là. All’improvviso e dopo un quarto d’ora ci trovammo di fronte ad un incrocio. Voltai a destra secondo le indicazioni ambigue del barista. Attraversai i campi di cotone. La macchina cominciò a vibrare e a scuotersi. La strada era malmessa. Era un sentiero scarsamente asfaltato. Tarik accese una sigaretta. Dissi:
”Ti riesce impossibile smettere di fumare. Non ce la farai”.
“ce la farò - rispose - oggi non ho fumato che cinque sigarette”.
”Ma non sono ancora passate le undici.”
“Hai ragione” disse.
“Lascia stare e guarda davanti a te. La strada è tutta buche e ostacoli”.
Vidi davanti a me. I campi di cotone erano scomparsi lasciando al loro posto una terra deserta, secca. Sentii che il calore aumentava di intensità. Pensai che non fosse nient’altro che l’impressione del caldo datami dalla scomparsa dei verdi giardini. Dopo qualche chilometro un gruppo di povere case di campagna sorse davanti a noi. Erano costruite con terra rossa e mattoni secchi. Rallentai. Un bambino si avvicinò alla macchina come se uscisse dal nulla, perché il piccolo agglomerato sembrava vuoto di abitanti. La macchina si fermò. Il bambino ci guardò dicendo “se state cercando il castello d’acqua arabo, avete sbagliato. Adesso si trova dietro di voi”. Accennò colla sua mano verso le montagne nebbiose a causa del calore. Dissi: ”Parli inglese?” Il bambino rispose: “no. No. Same words only”. Dissi a Tarik scherzando: “Chiedigli la strada. Conosce lo spagnolo”:
Disse: “No, affatto, non come credi. Poi cosa pensi? Sono come te, tutto sommato lo spagnolo è derivato dal latino”. Poi scese balbettando. Parlò col bambino a gesti. Risi dentro di me. Era buffo colla sua alta statura, la sua magrezza esagerata, il suo bermuda che gli scendeva sulle ginocchia prominenti e che era di colori gai e contrastanti. Li sentii parlare una lingua strana. Risero tutti e due. Scesi anch’io per sapere di che cosa stessero parlando. Come era furbo. Sapeva ispirare fiducia al fanciullo. Si fece vedere un adulto trascinando i suoi piedi. Una gallina dal collo pelato lo seguì. Lo scacciò via con un calcio. Essa fuggì facendo un casino di rumore. Corsi verso la macchina lasciando il mio amico trattare da solo colle due persone. Dopo un momento mi disse: ”E’ il casino d’un casino. Ognuno canta per la sua Dulcinea. Non sono d’accordo tra di loro”.
”senti quello che dice il ragazzino. - suggerii - Non vedi che l’uomo è deficiente?
”Sei tu il deficiente”.
”Non si può continuare così senza guida. - dissi io - Dai torniamo indietro. Per forza ci vuole uno che conosca questi resti archeologici arabi ”.
”Non burlarti di me. Basta. Non prendermi in giro, ragazzo...Li troveremo...Pazienza....”
L’aria infernale della macchina era aumentata d’intensità. Dissi: ”Ciò è un fuoco, è proprio un inferno che si è aperto. Sai in che mese Tarik arrivò in questo tranquillo paese?” Disse: ”Che domanda sciocca!” mentre fissava il bambino con lo sguardo. Io, invece, mi girai a guardare l’uomo costringendolo a cambiare la direzione dello sguardo. Non avendo più pazienza scesi dalla macchina e mi misi davanti a lui: ”Dai andiamocene. Lascia stare. Quei poverini non sanno niente. Sali e guida tu. Ne ho abbastanza di guidare. Che eroe sei! Eroe che corre dietro le tracce di Tarik”. Lo spinsi verso la macchina. Mi lasciò fare quello che volevo. Mi obbedì. Il bambino e l’uomo rimasero colpiti dal nostro comportamento. Lui salì al posto dell’autista, io al suo fianco. Mise fuori la testa e disse all’uomo: ”Don’t care it. He is only...” Finii la frase interrempendola con un’aria di rabbia e forza dell’oppressione dei miei nervi, sotto l’effetto della canicola: “funning...”

Notò che il numero delle gru si era moltiplicato sensibilmente. Per quanto riguarda il colore erano diventate rosse, al contrario di quelle vecchie che erano gialle, anzi inclinavano al giallo secondo l’effetto dell’esposizione al sole. Nei giorni piovosi invece egli non riusciva a vederle. La zona godeva di un clima locale speciale che non superava i 2 o 3 chilometri. Una nebbia fitta nascondeva il luogo sia quando il sole andava via che quando pioveva.
I nuovi apparecchi rossi erano di fabbricazione diversa da quella delle gru gialle perché il nome della ditta erano impressi su ogni apparecchio, sulle lastre laterali del braccio sollevatore e movibile. I caratteri si vedevano chiaramente. Erano caratteri latini (Bouighes) dipinti in blu. Una mattina notò che gli operai stavano montando degli accessori, ciò rendeva il lavoro più animato nell’intero cantiere. Vide un numero che di operai stranieri che controllavano l’operazione del montaggio, come se avessero paura che gli operai locali non fossero in grado di farlo. Perciò si sentivano disturbati, cosa che li rendeva nervosi. In realtà questi non erano operai semplici, ma erano esperti di montaggio. Forse egli aveva formulato da solo tutte queste ipotesi magari un po’ esagerate, soprattutto perché aveva tratto dai dati di questa questione tecnica alcuni fattori politici, come la dipendenza economica, l’autosufficienza, l’arretratezza industriale e il problema dell’occupazione degli stranieri nei grandi cantieri e nelle gigantesche realizzazioni: dighe, autostrade, ponti deviazione del corso dei fiumi etc...Non lavorò molto in quell’ora a causa di una insolita animazione nel cantiere e a causa di un grande rumore che scoppiò all’improvviso. Non si aspettava ciò, soprattutto perché i vetri della finestra dello studio isolavano perfettamente, a parte il fatto che la sua sala si trovava al decimo ed ultimo piano di quel palazzo circondato da parecchi giardini, che anch’essi giocavano un ruolo importante nel diminuire l’intensità del suono e del rumore che veniva dal cuore della città il cui traffico non smetteva tutto il giorno. Nei pochi giorni successivi al montaggio delle nuove gru rosse del tipo Buighes aveva capito che ormai il lavoro si caratterizzava per il suo ordine impeccabile e per la precisa coordinazione che c’era nel cantiere ma anche per la sua calma e la sua tranquillità assoluta, e ciò fin da quando l’impresa dei lavori pubblici aveva cominciato a realizzare quest’enorme progetto, nel centro della città, senza che nessuno potesse sapere esattamente la natura di quest’edificio anche se fin dall’inizio c’erano state parecchie ipotesi e parecchie voci (eliporto, ospedale, banche, uffici).
A prima vista era stupito di aver notato l’esistenza del solito cartello che si mette all’ingresso di ogni cantiere per informare sulla natura dei lavori, sul nome dell’impresa, sull’indirizzo dell’architetto e del geometra, il numero dell’autorizzazione, la durata della realizzazione ecc.. Aveva dimenticato tutte queste domande non appena le nuove, gru dal nome scritto con caratteri azzurri, avevano incominciato a manovrare. Una riga rossa, poi rosa (al passaggio dei nuovi apparecchi davanti al disco solare essi pure) poi di nuovo rossa. Poi una riga gialla. E le gru si slanciavano come frecce sprofondandosi nel lontano cielo azzurro, lì la parola scritta con caratteri azzurri svanì e si cancellò, così era impossibile leggere o interpretare uno dei suoi caratteri, soprattutto perché ormai il suo colore si confondeva con quello del cielo. Il colore della verniciatura gli fece venire in mente l’azzurro della hall ove entrava ogni mattina al suo arrivo a scuola. Attraversò la distanza tra quell’antica hall di stile turco verniciato con la calce tinteggiata di blu, e le cui volte erano dipinti di bianco e nero, cioè ad ogni striscia bianca corrispondeva una striscia nera e ciò in corrispondenza del capitello delle colonne che sostenevano l’arco stesso, nient’altro... Invece le mura erano azzurre. Dunque esse gli fecero venire alla mente l’azzurro della vecchia hall attraverso cui passava ogni mattina al suo arrivo a scuola.
Percorreva la distanza che separava l’antica hall, costruita su modello architettonico turco, in un secondo. Di solito attraversava questa distanza correndo alla velocità del lampo, lui dalle lunghe gambe per evitare la reazione dell’insegnante di latino, quell’arrogante fiero di tutto ciò che aveva un rapporto forse lontano o futile colla civiltà dei romani dicendo e ripetendo “Laudate pueri, nulla in mundo pax sincera in furore”.
Traduci ragazzo “questa è la tua civiltà, non dimenticarlo”. Traduci ragazzo: “Laudate=auguratevi, pueri=bambini, nulla=niente”. E di nuovo l’insegnante si irritò: “No questa è un’aberrazione, una superficialità. oppure, magari, è una provocazione. Mi stai provocando maleducato? La guerra, la guerra, non conoscete che la guerra, almeno abbiate l’onore quando morite di morire colti. Potete denunciarmi presso il vostro fronte...Non ho paura. Nulla, non basta “Dio è l’unico sentiero e Cesare l’unico messaggero”. Vai avanti imbecille. Poi fai la politica, invece qui sono il vostro Cesare, che lo vogliate o meno, e sarà così. “In mundo=nell’universo esattamente, non nel mondo, bravo ragazzo! Continua! Pax=pace, sincera=sincera, autentica? Non esitare ipocrita, non siamo in una trattativa di mercato nel comprare-vendere (sharabia), siamo con il linguaggio della macchina. Più precisamente autentica. Stupendo continua figlio mio, Allah, Allah!10. In furore=nella rabbia? Nel caos? E’ una provocazione? Non fa niente, dopo mi denunci al fronte.
“Auguratevi, bambini, non c’è pace autentica che dura se il suo trattato è firmato sotto il peso della rabbia e del caos”. Perfetto, bene è quello che hai detto figlio mio. La traduzione è intuizione, non un’operazione di compravendita. Ci sarà l’esecuzione. La traduzione è intuizione. Morite colti, non ignoranti”.
Quel colore gli ricordava l’azzurro della copertina del depliant turistico piena di altri colori. Dunque: “Ma è una città tremenda, tipicamente inglese, brutta, ed è una sorta di mercato libero dove vengono i marocchini e gli spagnoli in gruppi, per comprarsi ciò di cui ne hanno bisogno a prezzi bassissimi. Il numero dei suoi abitanti non supera i 6200. La sua lunghezza 4,5 Km e la sua larghezza è di Km. 1. E’ tipicamente inglese. Prov’a dimenticare il tuo narcisismo, orgoglio di tuo papà, ragazzo! Ti ha chiamato Tarik e ha detto: Il nemico è davanti a te ed il mare ti sta dietro, se almeno sapessi nuotare nell’acqua torbida. ...Un vile narcisismo nè più nè meno. Sai, saggio dei saggi, che questo tuo Tarik non ha mai detto: Il mare è dietro di voi ed il nemico è davanti a voi e nemmeno il nemico è davanti a voi ed il mare dietro di voi. Una menzogna!”
Rise. Mi fermò al punto giusto. La guida turistica colla sua copertina splendida stava ora sul tavolino. Sorrise. Rise. Ebbe un accesso di risata. Si torse in preda ad essa. Balbettò: “Ho bussato la porta .......”: Mi ricordai anch’io. Dissi: “Brutta infanzia senza fondo Tarik. Ho bussato alla porta finché non mi ha fatto male la schiena (finché non ho ricevuto una risposta), lascia stare con queste futilità!” Mi replicò: “Che cosa hai contro la futilità? Sono l’origine e l’essenziale, non perdere la testa uomo, non dimenticare...E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni, dì che è male. Allontanatevi dunque dalle donne nelle mestruazioni. Quando si purificano, possedetele da dove Dio vi ha ordinato. Da dove Dio vi ha ordinato. Da dove Dio vi ha ordinato. Prova ad analizzare grammaticalmente questa frase. Da dove, non c’è nessun interesse”. “Lasciami o dirò delle cose che a te non piacciono, delle bestemmie...”
“Mio padre mi portò alla moschea e vidi il maestro avvicinarsi soffiando sulla tavoletta bagnata d’inchiostro. Mi stese il tappeto. Le mie mani erano costruite dalla forza della parola del maestro. C’era la guerra che procedeva perseverante. Una guerra terribile. Dov’era la mia infanzia? Quando ti chiedono sulle mestruazioni. Andai a casa. “Pura è mia mamma. Mia mamma è pura. Alzava le sue braccia verso il filo disteso, nascosto nel fondo del giardino accanto a quel vecchio ulivo trascurato che nessuno aveva potato fin dalla morte di mio nonno, quel comunista autentico, che tornando dalla Mecca portò un flacone schiacciato che conteneva una limpida acqua zenzemata, a cui lei aggiunse qualche petalo di rosa e mescolò con qualche goccia di olio oscuro, verdeggiante, qualche goccia grassa. Lei diceva: Tuo nonno beveva di quest’olio, un cucchiaio ogni giorno, appena si svegliava alle quattro del mattino, correva verso casa dopo aver lasciato la stazione ferroviaria con la sua torcia fluttuante. Mi sono nascosto nella casa di mia madre. E, come raccontavo, all’alba mi accompagnò fino alla porta della scuola del Corano e accompagnò mio nonno al suo lavoro nella ferrovia.
Mia madre era pura mentre alzava le sue braccia per stendere i suoi stracci speciali. Mi diede uno schiaffo: Che cosa fai in questo luogo. Te l’ho vietato. L’ulivo è malato. Non giocare sui suoi rami deboli, se no cadi e ti fai male . Disse delle parole senza senso, mentre i suoi stracci.... Mi diede uno schiaffo . Mia madre era pura. Dì che è male ... Era rimasta appesa . Le sue braccia elevate, perciò scoprii le sue ascelle pulite e depilate con delle tracce di carbone. Come raccontavo all’alba mi accompagnò fin alla porta della scuola di Corano. Entrai nella sala bassa, vicino al cortile. La luce scendeva. Il mio robone mi avvolgeva le ginocchia, la mia paura mi ricopriva il corpo, il grasso mi copriva la carne. Babba Agina, mangiatore di tammina. Botti, totti, (Bud Abbot) lo vidi mentre cercava per me una corda e un bastone. Mio padre gli dissi: Non rendermi conto. Avevo paura di chiedere. Mi diede uno schiaffo. Aveva detto delle parole. Lo vidi mentre sceglieva una penna per me. Disse : “scrivi”. Rifiutai. Le botte. Divenni violento. Mi chiusi dentro di me. Mia madre era pura. “E’ vero che mia madre morirà”. Il sangue sgorgava dalle estremità delle mie dita e dall’alluce. Ho dimenticato me stesso.
Tra lo stupore e la meraviglia, da quel giorno, la mia infanzia si legò al questa angoscia. La mia infanzia si legò a questo dramma nel giorno in cui erano venuti i soldati che diedero l’assalto alla casa. Lo zio Hussein aveva detto a suo figlio Sciams Eddin: “Dio mi ha salvato da te e dal tuo cugino Tarik, andrete in prigione”. Tutta la famiglia era contenta tranne mio padre che era assente come al solito, e mia madre che era con un secchio di acqua sul terrazzo per levare le tracce del delitto, Abat la Fransse, scritto malamente sul pavimento col gesso giallo. Dissi a Sciams Eddin “Abas con la “s” non con la “t”! Non volle capire. Scommettemmo. Andammo a cercare un vocabolario. Ci riferimmo ad esso. I soldati erano venuti per perquisire la casa. Un soldato schiaffeggiò Sciams Eddin. Il mio socio nelle miserie familiari e nello scrivere slogan sputò al soldato. Però era mediocre nell’ortografia. Dissi colla “s”. Perseverò con la “t”. Ho vinto ancora un’altra volta. Sciams Eddin sputò sull’ufficiale. Questi disse “Se fossi più giovane di me di quattro anni”. Suo padre era pronto a venderci. Mia madre lavò il gran delitto che avevamo fatto scrivendo. La zia Fatima disse: Avete meritato il castigo. Vi prenderanno e vi tortureranno. Sciams Eddin scoppiò in una risata. Mia madre mi diede uno schiaffo. ‘W le peuple algerien’. Questa volta non mi ha fatto male. Faceva freddo. Mia madre riempiva i secchi e la serva Mamia strofinò i pavimenti colla spazzola fino a quando il gesso giallo non andò via. W. MOC!
Mia madre mi diede uno schiaffo. Non mi fece male questa volta come nel giorno in cui il mio maestro mi ordinò di scrivere. E quando ti chiedono sulle mestruazioni, dì che è male. Non scrissi. Rifiutai. I soldati erano venuti a cercare mio padre ...”
Ci stavano spiando mentre parlavamo. Quando guardai nella direzione di uno di loro, si mise a fingere di giocare a carte sul tavolino coperto da nylon decorato con quadratini rossi e bianchi. Accennò di nascosto ai suoi amici di cambiare il loro posto. Perciò si alzarono velocemente facendo finta di riparare il trattore di tipo “Fergusson”. Tarik si alzò anche lui. Dissi: “Vieni?” Mi seguì nella direzione della macchina. Salì e si mise al volante. Io mi sedetti al suo fianco. Il caldo era insopportabile Appena si trovò nella macchina il suo viso si coprì di sudore. Tirò fuori un fazzoletto e s’impegnò ad asciugare il sudore.
“l’inferno della terra si è aperto”. - disse
”Tutto ciò è colpa di tuo padre!”.
“Ciò è il reato di mio padre nei miei confronti. Ma io non ho fatto del torto a nessuno”11.
Rise e fece girare il motore. La macchina partì adagio. La freccia del contachilometri saliva man mano sempre più in alto (più di 50 Km./ora). Dissi:
”Che complesso! Ti ha chiamato Tarik e ti ha lasciato sfondare le porte aperte (defoncer les portes ouvertes)” - dissi.
” Come sei bravo a giocare con la lingua e con le parole. Sei un artista a giocare colle parole. E’ tutto quello che conosci”. - rispose scherzando
Dopo una mezz’ora apparve davanti a noi qualche casa di campagna ( 5 o 6) costruita con mattoni rossi. Tarik fermò la macchina che avevamo noleggiata la mattina appena arrivati in città. Un uomo si avvicinò alla macchina. Era come se fosse uscito dal nulla. Gli feci delle domande sul sito delle rovine arabe, un castello d’acqua, uno stagno o altra cosa del genere. Tarik fece delle domande: ”Tu conosci più lingue”. Borbottai e provai a scendere. Cominciò a parlare con l’uomo gesticolando buffamente. Forse mi è parso così perché l’ho visto con dei pantaloncini ampi che si arrampicavano sulle sue magre gambe.
Mi disse: ”Povero Tarik Ben Ziad! E Tarik Ben Ziad attraversò il mare nel 92 dell’Egira con l’assenso del suo comandante Mussa Ben Nusseir con un esercito di 300 arabi circa, a cui aveva aggiunto 10000 berberi facendone dei soldati. Avevano campeggiato sul monte della conquista diventata ormai Gibilterra. L’altro monte aveva preso il nome di Tarif Ben Malik Ennekh’i. Per proteggersi avevano costruito delle mura. Appena la notizia arrivò a Laedrick, egli mobilitò le nazioni europee e cristiane con un esercito di 40000 uomini. Si incontrarono nella pianura dello ”Sciarisch” Laedrick e i suoi persero la battaglia. Così Tarik e i mussulmani si impadronirono degli infedeli e dei loro beni. Allora Tarik aveva scritto a Mussa Ben Nusseir rendendogli conto della conquista e delle prede di guerra. La gelosia si impadronì di quest’ultimo...”.
C’era qualche giorno fa, solo qualche giorno fa, c’era lo zio Hussein in piedi in mezzo alla strada come se fosse fuori di sè. Era in piedi così all’incrocio con la sua alta statura e col suo viso che aveva perso la sua solita bellezza.. Il suo collo sembrava nuotare nel collo della camicia per la magrezza. Ora il collo della camicia si vedeva con maggiore nettezza. Era una sorta di disco di cartone attraverso cui fuoriusciva un collo sgualcito simile a quello delle tartarughe quando escono fuori dalle corazze oppure simile al collo di una gallina se viene scannata come quella gallina che ho visto in qualche luogo perduto di Gibilterra mentre accompagnavo il mio amico e il socio della mia infanzia Tarik. Era di colore grigio quel collo segnato dalle rughe incartapestate appese al suo corpo, quel corpo che era diventato una sorta di mucchio molle di muscoli a buccia vecchia e a pelle appassita.....Non si teneva in piedi se non grazie ai suoi vestiti. I suoi occhi tracomatosi, fissavano il mio viso cercando il più piccolo movimento che avessi fatto o il più debole lampo che avesse illuminato i miei occhi. Mi sembrava in questo stato, che parlasse nello stesso tempo coi suoi occhi e la sua bocca in maniera asincrona, cioè la sua bocca pronunciava delle parole senza nessuna relazione col resto del viso i cui baffi erano macchiati di tabacco. Questo spettacolo mi dava fastidio....
All’improvviso aggiunse:
“Siamo entrati, siamo entrati nella taverna dei soldati di Francia. Abbiamo fatto finta di bere e di ubriacarci. Il nostro tavolino era vicino al bagno perché la taverna era piena di gente. Non abbiamo trovato che quel tavolino. Siamo rimasti così per più di 5 ore. Aspettavamo che magari venisse qualcuno a parlarci. Eravamo un po’ soli a decidere l’operazione. Non conoscevamo i responsabili del fronte. La guerra era appena cominciata. Di tanto in tanto andavo al bagno per vomitare il liquido inghiottito, per non ubriacarmi. Era sporchissimo. Il cesso era una turca. Ma la gente aveva preso l’abitudine di orinare sulle mura piene di graffiti. Presi una penna e scrissi: W FLN poi aggiunsi W MOC. Tifavo allora per la Mouloudia di Constantine. Ti ricordi? Ti ricordi Tarik?

Capitolo III

Sciams Eddin poté qualche anno più tardi, dopo che i soldati avevano fatto l’irruzione nella sua casa allo scopo di arrestare il padre assente e avevano scoperto gli slogan che avevamo scritto sul pavimento col gesso giallo e dopo che l’ufficiale ebbe dato quello schiaffo a mio cugino che gli aveva sputato in faccia per odio e rabbia, Sciams Eddin poté dunque soddisfare il suo orgoglio dopo essere stato arrestato dalla polizia francese costringendo i suoi aguzzini a rispettarlo. Non avrebbe dovuto - secondo le sue affermazioni anni più tardi - dare l’occasione di umiliarlo e insultarlo. Pareva più calmo di loro tanto è vero che non aveva mai conosciuto cos’era la paura perfino di fronte alla crudeltà dello zio Hussein che lo maltrattava da piccolo. Li affrontò, faccia a faccia, con fierezza e con orgoglio mentre il sudore gli colava sprizzando dai suoi pori. Rifiutava di dire anche una sola parola. Teneva molto alla sua posizione. Lo arrestarono e incarcerarono lontano in una delle scuole che era stata trasformata da loro in un posto di tortura. Tentavano di ledere la sua dignità. Gli legarono i 4 arti al suo collo con una corda. La serenità di Sciams Eddin mise a dura prova i nervi dei soldati nell’aula che era stata privata di tutti segni di scuola, ad eccezione della la lavagna che era rimasta appesa al muro opposto. La guardava durante le lunghe ore e così intensamente che aveva dimenticato che stava nelle loro mani e che aveva quasi l’intenzione di suicidarsi prima di cadere nelle loro mani. Purtroppo non aveva avuto tempo. Sputò su uno dei soldati francesi che avevano assalito il posto dove c’era lui. Allora si mise a guardare il cielo senza nessuno scetticismo e senza alcuno spavento. Una volta Sciams Eddin disse chiedendo a suo cugino Tarik: ”In che modo l’uomo riesce a contrarre il senso della paura? Spero che questa malattia mi colpisca così potrò liberarmi della dannosa malattia del coraggio definitivamente....”. L’aula era allora piena di soldati e di poliziotti e di gendarmi che erano tutti quanti in piedi, salvo l’ufficiale generale della sezione dei paracadutisti che era venuto da Skikda12, dove aveva fatto parlare molto di lui seminando torture e terrore, col preciso compito di interrogarlo. L’ufficiale superiore era seduto su una poltrona lussuosa che contrastava con questo luogo austero e nudo. Il suo viso era pallido per la luce del proiettore che illuminava l’aula. Era come se questa luce facesse dell’aula un luogo da cui esalava un profumo di cose antiche, di legno marcio, di mura in rovina, di macchina da scrivere del tempi del diluvio, di marca “Remington”, e per il rumore che faceva mentre stampava ogni carattere, come se la macchina tossisse affannosamente, cosa che faceva aumentare col suo ronzio le cose sospettose, ingigantiva le forme e i limiti mettendo in rilievo, in maniera chiara, la scarsità dello spettacolo generale, mentre egli diceva ironicamente, fingendo stupidità e ignoranza con la lingua dei suoi nemici: “vouloir jaune craie moi”. I soldati rimasero meravigliati e l’ufficiale commentava: ”Il vent de la craie janne”. Il luogotenente si arrabbiò e diventò nervoso, gridò verso l’ufficiale: “Ci sta prendendo in giro. Che cosa vuol fare col gesso giallo mentre è ormai il momento di usare il sistema pesante”. Sciams Eddin disse senza sviare e senza staccare il suo sguardo dalla lavagna antica:” Moyens grands”, mentre il gruppo stava in piedi, le braccia incrociate sui loro enormi petti colpiti dallo stupore e dalla meraviglia (è rimasto stupito l’oppressore 13) a forza di pensare a questa problematica del gesso giallo. Lui ripeté: “Janne craie moi vouilant”. Gli portarono del gesso giallo, una scatola intera. L’aprì con attenzione. Ne prese il primo bastoncino. L’annusò adagio. Cercava di evitare il più possibile l’ufficiale superiore, fissando con uno sguardo vago la lavagna appesa al muro in rovina. Questi disse: ”Lasciatelo fare”. Il risentimento del soldato crebbe di più . Gli altri avrebbero voluto finirla con questa faccenda una volta per tutte e inserirla nel dossier di routine su cui era scritto: Elenco dei morti dopo che hanno tentato di fuggire. Inserirla nei piani tradizionali, già arcaici che il segretario del centro degli interrogatori segreti voleva concretizzate con un tratto di penna su un foglio, con delle righe dritte e curve. Perciò costringeva tutte le parole del verbale in limiti rigidi a duri rilievi, terribili, senza pietà, perché troppo astratti, che facevano venire alla mente dell’incarcerato l’immagine di zone vietate e cintate con fili di ferro spinati che i soldati avevano posto attorno a tutto il paese e che ora si riflettevano sulla carta in una serie di puntini o righe sbarrate o incrostate costruite da una sorta di geografia di cataclismi o di topografia delle stragi. Sciams Eddin era, così, tra le loro mani mentre annusava il gesso giallo, un bastoncino dopo l’altro, mentre faceva il giro - mentalmente - attorno a quella forma ellittica, alla circonferenza perfetta che aveva disegnato davanti a loro, insistendo su tutti i graffi incisi sul vecchio legno (Dì che è un male) davanti a lui appeso, e su tutte le direzioni che cercava - inutilmente - di contare.
Era quella la forma che fissava definitivamente quella geometria che aveva rapporto col ripetere gli spettacoli attraverso cui appariva lo spettro dello zio Hussein (suo padre) mentre lo picchiava a morte. Sputava sulla terra con disprezzo, rabbia e rifiuto anche se una associazione del genere tra queste due cose (il maltrattamento che aveva ricevuto, quand’era bambino, da suo padre e il comportamento dei suoi seviziatori dopo essere stato arrestato. “Janne ciare voulaint moi)) arrivava in anticipo perfetto impeccabile non a causa della logica interna di ogni genere di ingiustizia e di ogni oppressione, qualunque fosse la sua origine e qualunque fosse la sua natura (l’educazione familiare, lo zio Hussein, oppure la repressione militare, l’ufficiale superiore) saldata, rigida e qualunque fossero gli argomenti irrefutabili in cui si riconosceva, nonostante tutto, anche se si trattava di una struttura nella geometria precisa, palpabile attraverso la catena della storia (la storia dell’individuo e la storia del gruppo) che toglie il fiato ai despoti qualunque essi siano, facendo loro dubitare di se stessi. Anzi, e magari, li spingeva a sentirsi colpevoli. Sciams Eddin disse: “voglio il gesso giallo”. Poi: ”giallo gesso voglio io”. Poi: ”Io voglio il gesso giallo”. Poi: “Giallo gesso voglio io giallo gesso”, cosa che fece dire all’ufficiale: ”Je vais te la mettre an cul ta putain de craie...”. Cosa detta, cosa fatta. Ma Sciams Eddin sopportava tutto per mostrare loro quel legame, pianificarlo e disegnarlo secondo la loro scelta, che si basava su un semplice punto duro, rosso purpureo, simbolo della rovina causata dall’introduzione dei bastoncini di gesso dentro il corpo, accompagnato naturalmente da elementi secondari cioè: schiaffi, vessazioni, attese, rotture, tracce, impronte e parole (gesso-giallo - vuole - voglio -io per quello che parla) e altri piccoli dettagli (non ricordava più gli slogan che aveva scritto sul pavimento della terrazza con Tarik il suo socio del reato), follie leggere e stupendi percorsi e persino gli attrezzi della tortura per esempio, le cui ali, i bordi e le tracce rappresentavano delle linee spezzate che facevano venire alla mente quei rilievi sommari e quei sogni da incubo di quella galleria della storia coi suoi arcani forti e deboli, alle volte, e nello stesso tempo a causa delle astrazioni delle controcorrenti, i cataclismi, massacri, incendi, scismi, tornado e....”
....e nel giorno di lunedì, 5 Ragiab [un mese lunare] 92, Mussa preparò una armata incaricando Tarik Ben Ziad che era allora governatore di Tangeri. Lo strano è che la versione islamica non ci dice niente di Tarik, di ciò che era stata la sua vita prima di diventare governatore di Tangeri. Non ci informa neanche sulla sua origine e sulla sua genealogia. Si dice che era un persiano di Hamadan, era Maula14. Si dice anche che era stato una preda di guerra dei berberi. Infine si dice che era un berbero della tribù di Nafza (ci si riferisca al manifesto magrebino di Ben il Biladri). Questa è la versione più probabile ed è stata inserita in questo libro con molti dettagli (E’ Tarik Ben Ziad Ben Abdullah ben Worfhum Ben Nirghes Ben Wellas Ben Betumsh Ben Nefza). Sembra che Tarik avesse ricevuto l’Islam dal padre Ziad e dal nonno Abdullah, il primo nome arabo-islamico nella sua genealogia. Poi tutti gli altri nomi sono berberi fino a Nefza, cioè la tribù a cui apparteneva.
Tarik era stato un grande soldato. Si era rivelato eccellente guerriero nelle battaglie della conquista del Magreb. perciò Mussa Ben Nussair l’aveva scelto per conquistare l’Andalusia. Da Ceuta15 attraversò il mare col suo esercito nelle navi del suo alleato cristiano “Julien” che era il grande nemico dei goti e del loro generale Laedrick. Lunedì 5 Ragiad 92, Tarik sbarcò nella zona rocciosa. Investì poi la zona ad Ovest vicina, conquistando la sua cittadella dopo aver vinto un gruppo di goti che tentavano di fermarlo....
La guerra era finita ormai da più di 20 anni. Una gru sembrava incollarsi al muro della casa. Pareva che fosse sul punto di toccarla, nell’estate, mentre stava nel suo ufficio, soprattutto quando lavorava fin ad ora tarda della notte. Era sul punto di toccarla, anzi di toccare uno o alcuni dei suoi rami che la lampada elettrica della scrivania illuminava facendo brillare le sue foglie come una piuma tremolante prima lentamente poi, con un movimento più rapido all’avvicinarsi della notte quando il fondo del giardino si oscurava a causa delle fitte tenebre che s’affoltavano e sembravano una cosa palpabile, mentre il movimento delle “fogliette” di forma ellittica si moltiplicava. Avevano un verde chiaro, che usciva fuori dalla luce elettrica, diffuso nella stanza le cui grandi finestre erano aperte affinché si sentisse bene ogniqualvolta una leggera brezza soffiava venendo da dietro le mura del giardino e camminando anzi diffondendosi pian piano per fermarsi dentro il groviglio tenebroso fatto dalla biforcazione dei rami, visibili dalla finestra, come se fossero mossi da un movimento autonomo che si diffondeva ancora più velocemente quando soffiava il vento forte di mezzanotte e il gelso intero sembrava si svegliasse d’un colpo sussultando e mormorando; poi all’improvviso il silenzio ritornava. Foglie e fogliette tacevano allora e tornavano al loro profondo ed enorme sonno e alla luce della loro inerzia tremenda, ad eccezione dei rami i cui raggi del tubo elettrico illuminavano tutto rendendoli più sporgenti rispetto agli altri rami, a cui non arrivava la luce e il cui calore diventava pallido in un primo tempo, poi a poco a poco svaniva e quindi diventava impossibile vederli, a meno che non si intuisse la loro esistenza. Ma essi rimanevano comunque nel giardino, esistenti ingarbugliati l’un l’altro tra le bucce del buio ammucchiate, attraverso le quali nasceva un fruscio leggero o qualche canto di uccelli fino allora silenziosi (come se stessero lanciando di tanto in tanto un grido durante il loro sonno) tremolanti, disturbati, sofferenti, urlanti, piangenti che ora si erano radunati sui quattro o tre alberi del giardino dove sua madre gli aveva dato uno schiaffo dopo averlo sorpreso mentre appendeva gli stracci intimi - E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni dì che è un male perciò evitate le donne nel periodo delle mestruazioni e non avvicinatele fin quando non si siano purificate, quando l’avranno fatto possedetele dalla parte da dove vi ha ordinato Allah, - sulla sua corda speciale nascosta dietro il vecchio ulivo dicendo con risentimento: ”non giocare attorno a quest’albero, i suoi rami sono marci. Sino dalla morte di tuo nonno, nessuno, neanche il giardiniere stesso, lo ha più curato. Se cerchi di salire, cadrai e ti spezzerai la testa. Vattene di qua!”
Gli uccelli si radunavano su tre o quattro alberi in mezzo ai quali si trovava l’ulivo enorme, folle, il cui volume superava tutti gli altri aggiungendo in quel posto - attraverso i bui ammucchiati - un altro ammasso tremendo, funebre, triste come spettri seduti e sfidando non solo la luce della lampada elettrica ma anche tutto ciò che si fosse ammonticchiato vicino e intorno; allora sentiva come se i colori si trasformassero sotto le sue palpebre che il sonno premeva rendendole opposte, contraddittorie ripulsive. Così il rettangolo della finestra verde, scura si divideva in due parti, una rettangolare di colore ciliegio (l’infuocamento degli occhi quando spuntava il sole o quando tramontava), l’altra rettangolare pure ma di colore verde olivo (gelso folto). All’improvviso incominciò ad ascoltare i loro suoni bassi in un primo momento e che non tardarono ad intensificarsi progressivamente nonostante il clima non fosse cambiato radicalmente, anche se aveva intuito che c’era stato un po’ di mutamento soprattutto perché il sonno incominciò a invadere le cellule della testa. Però il tempo rimaneva nei suoi mutamenti rispettando soliti riti quasi meccanici, di ripetizione continua, cioè non cambiava se non oscillando tra lo scuro e il rosso fuoco. Poi gli uccelli cominciavano a rispondersi tra di loro, pian piano con un mormorio come se fossero esitanti, balbettanti in un primo istante. Non tardavano ad osare; a poco a poco il loro canto si alzava nell’insieme dalla profondità degli alberi del giardino e i in particolare da quella del gelso, i cui rami graffiavano il vetro della finestra dove si trovava la stanza in cui aveva trascorso una buona parte della sua infanzia ad addestrare migliaia di bachi da seta, dividendoli in specie diverse, fabbricando per essi scatole e gabbie di legno abbellite con pareti arabescate, dalle forme colorate e dando loro dei nomi delle personalità militari prestigiose (Tarik Ben Ziad, Mussa Ben Nusseir) e storiche (el Kahina, Jugurta) e sportive allora famose (Larbi Mebarek, Scerif Hamia) e del cinema (Charlot, El Botti) .. i cui rami graffiavano il vetro della finestra. Dunque una dolce melodia si alzava seguita da una corale la cui acutezza andava crescendo, dominata da un’improvvisazione; l’insieme sonoro andava così dal monotono al disarmonico. Ma la situazione climatica e sonora non tardava a cambiare con una stupenda velocità tinteggiandosi dalla parte dell’orizzonte con una riga rosa gialla e da un’altra parte la melodia diventava così acuta che infastidiva gli orecchi. Quando alzava la testa l’alba o il tramonto aveva già invaso il giardino; egli vedeva squadroni di uccelli sull’angolo est del soffitto della casa. Essi apparivano terribili tra le ombre sostanti nel cielo i cui colori normali non si facevano vedere ancora, azzurro (all’alba nascente) e color melanzano (alla fine del giorno), custodendo la loro caratteristica smorta, pallida paradossale rispetto alle centinaia di piume grigie nascoste dalle centinaia di fogliolette arrotondate dalle cime del gelso la cui densità copriva tutto il tetto della casa e una gran parte dei tetti delle case vicine, oltre una grande parte del cielo che pareva come se fosse coperto di piume grigie, rotto qua con dell’azzurro metallico o lavanda pallido. Quanto alle foglie stesse, esse riuscivano malgrado la loro inerzia ad attraversare il buio che circondava le cose e le forme delle quattro pareti. La debole luce dell’aurora (o quella del tramonto?) si diffondeva lentamente attraverso l’ambiente intero. Dopo qualche istante essa attraversava la finestra, i vetri, tutta la stanza e impiantandosi così in ogni angolo dei mobili perfino il più insignificante. Tuttavia se questa qualità di luce lo costringeva a spegnere la lampada essa conteneva senza dubbio qualche strato della notte e qualche traccia del giorno che tinteggiava dal suo colore fosco azzurrino, interamente cosmico, dalla tenebra rimasta nell’aurora e costituita di sedimenti materiali invisibili, colando, sgocciolando, piovendo cosa che rendeva le piume degli uccelli schierati sul tetto, dentro gli alberi, nelle profondità del gelso denudatesi dal suo solito colore grigio a causa dei riflessi dell’ultima delle impronte luminose sulle loro piume soprattutto quando si mettevano tutti quanti sulle loro fini gambe attraversate di tanto in tanto da un brivido che riusciva quasi impossibile percepire. Un brivido che coincideva - a causa della rapidità-con ogni squillo, ogni ululo in armonia con questo ritmo discontinuo, spezzato, anarchico, ritmo di cui le note andarono crescendo, ampliandosi ingigantendosi man mano da procurare il male di testa, allora...
Mentre le gambe dei cavalli raffigurate sulla miniatura davano a chi guardava un’impressione finta che conferiva o meglio suggeriva un movimento senza pari, a causa delle numerose angolature che l’artista sconosciuto aveva scelto. Magari era stato Tarik a farlo venire con lui in questo Stretto, prima di essere stato attraversato dai 7 ai 10000 guerrieri, a seconda delle versioni diverse dei grandi storici mussulmani della tempra di El Biladri, Ibn Gotia ed Ibn Kaldun. Alcuni di loro sostengono che questo generale (Tarik Ben Ziad), forse proveniva dalla Persia e più precisamente da Hamadan.16.
Così il miniaturista sarebbe stato anche lui di origine persiana tanto più che gli arabi e i berberi non conoscevano affatto quest’arte. Le gambe dei cavalli impregnavano il disegno stesso di un certo dinamismo continuo, perché alcuni erano impazienti, altri erano calmi, altri ancora erano chini, eccetera. Così il disegno era molto significativo, suggestivo, rivelatore di uno stato d’animo che prevaleva in quella squadra modesta di mussulmani, mentre si appressavano a conquistare l’Europa, almeno la sua parte del Sud. Così si poteva avere, a partire dalla sola disposizione dei cavalli, un’idea dei sentimenti che Tarik e i suoi amici avranno provato allora. Quelle preoccupazioni lo costrinsero a fare, prima della battaglia decisiva, il discorso che gli storici hanno considerato fin dai primi tempi come un modello di retorica, di facondia, di dimostrazione di entusiasmo bellico: “O uomini dov’è la fuga? Il mare è di dietro, e il nemico è davanti. Per Dio non avete che la fedeltà o la pazienza. Sappiate che in quest’isola, siete più soli degli orfani nei banchetti dei cupidi, tanto più che il vostro nemico vi ha accolti con i suoi eserciti, le sue armi, i suoi viveri mentre voi non avete nessun rifugio tranne le spade e nessun cibo tranne quello che prenderete dalle mani del vostro nemico. E se, poveri come siete, vi riuscisse impossibile realizzare il vostro scopo, diventerete deboli e di conseguenza la paura del vostro nemico diventerà coraggio. Non lasciatevi condurre a tal punto di disperazione, cercate di distruggere questo tiranno; non vedete che la sua città l’ha messo a vostra disposizione? Se accettate di morire l’impresa non andrà persa. Questo consiglio vale anche per me; sto correndo con voi lo stesso rischio. Dunque comincio da me stesso e sappiate che se riuscite a resistere per un breve momento alla cose difficili, godrete poi e per lungo tempo delle cose divertenti e piacevoli. Non pensate che la vostra vita valga più della mia, perché anch’io posso avere lo stesso sentimento. Siete già al corrente delle belle donne che quest’isola ha creato: figlie della Grecia, ricche di perle e di corallo e di gioielli preziosi e residenti nelle corti dei re di corone. E lo stesso El Walid Ben Abdul-Malik, il principe dei fedeli che, avendo fiducia in voi, vi ha scelti tra gli eroi e che ha consentito perché foste generi e parenti dei Re di quest’isola. Sapeva bene che siete guerrieri capaci di misurarvi coi più coraggiosi degli eroi e dei cavalieri. Egli non vuole nient’altro che la ricompensa di Dio facendo instaurare il suo ordine e la sua religione in quest’isola. Quant’ai bottini saranno di vostra proprietà; nessuno, nè il principe, nè i credenti potranno pretenderli. E Dio si occuperà del vostro futuro sia in questa vita che nell’altra. O uomini, fate quello che faccio io. Se vado avanti, seguitemi, se mi fermo, fermatevi. Poi siate come un unico uomo nella battaglia. Per quanto mi riguarda, ho deciso di cercare il loro tiranno fino a che non l’abbia raggiunto. Se cadrò non indebolitevi, non disperate, non disperdetevi, perché non venga meno la vostra impresa e non vi troviate prigionieri o uccisi. State attenti, non accettate una misera condizione di vita, non capitolate. Cercate piuttosto di approfittare della dignità e del riposo anziché dell’umiliazione e della meschinità, dell’onore e del prestigio d’essere martiri, perché altrimenti - Dio sia con voi - fallirete e nel futuro sarete ricordati con disprezzo tra i mussulmani che vi conosceranno. Ed ecco attacchiamo per prenderlo, seguitemi”...era lo stato d’animo che prevaleva nel generale, erano i sentimenti con un miscuglio di coraggio e di paura dinanzi all’incognita. Ciò, fin dall’inizio, provocò nel generale e nei suoi uomini il fremito dell’attesa, il brivido della vittoria, l’euforia provata per lo spiegamento, il tremore dell’ottimismo; perfino i cavalli furono contagiati da questo stato d’animo. Parevano come turbati - nella miniatura - impediti, forti, impassibili. Questa fu l’ispirazione geniale dell’artista, tale che il padre rimase affascinato, cuore e anima, perciò lo appese al muro dell’ufficio e lo volle come modello di forza degli arabi e dei mussulmani e come simbolo di coraggio, cioè del proprio coraggio, della sua intelligenza e della sua forte volontà. Però non si accontentò di essa, anzi cercava animosamente la biografia di Tarik, ossessionato dai più futili dettagli e dalle più piccole vicende che il suo eroe avesse vissuto. Lo presentava come modello non solo ai suoi figli, ma a tutti i membri della famiglia, i maschi, compreso suo fratello, lo zio Hussein, quel vigliacco despota ignorante, analfabeta, chiacchierone, parassita, cupido, avido. Così lo spettro di Tarik Ben Ziad non lasciò più nè la casa, nè il magazzino, nè l’ufficio, a tal punto che i bambini cominciarono ad odiarlo a forza d’essere perseguitati dall’ossessione del padre (o ...dello zio a seconda della parentela). Quel padre che senza sosta cercava i testi, fin quando ne trovò uno d’Ibn Kaldun in un quaderno di uno dei suoi figli, sulla vicenda della conquista dell’Andalusia da parte di Tarik e sulla battaglia della baia dello Stretto in cui aveva sconfitto il generale gotico “Lardrick” che cercava di resistere con un esercito di 40000 uomini (secondo Ibn Kaldun) o di oltre 90000 (secondo il manifesto del Magreb di El Biladri). Dunque cercava di soprintendere alla traduzione dall’Arabo al francese che lo soggiogava a tal punto che suo figlio si era infastidito e aveva deciso allora di lasciargli fare il lavoro da solo, fingendo incapacità, senza fare nessuno sforzo, mentre il padre diceva: “prova a tradurre letteralmente, poi vediamo cosa facciamo dopo” ripetendo “che ottimo testo! Che insegnante hai!..Grazie a Dio c’è sempre la fierezza che riempie il cuore degli arabi...traduci figliolo”. Ma il bambino lo lasciava immerso nella sua ebbrezza. E lui iniziò poi quella traduzione letterale, ad alta voce, fissando il testo coi suoi occhi, sprofondato in un’estasi dilagante, dicendo e ripetendo: (Tarik attraversò il mare nel 92. En l’an 92. Con l’autorizzazione del suo comander con un esercito di 300 arabi circa. Tarik s’embarqua avec l’assentiment de son chef Moussa accompagné de 300 guerriers arabes environ”. Prese tra i beduini 10000 uomini circa. Leva parmi les berberes une armée d’environ dix milles guerriers).
Le gambe dei cavalli raffiguravano il pericolo che minacciava Ben Ziad e i suoi uomini mentre si preparavano a iniziare la battaglia decisiva della baia dello stretto. Per quanto riguarda i cavalieri stessi, compresi Tarik e il suo luogotenente Tarif Ben Malek Ennek’i, non si notava nessun movimento eccetto quello dei trombettieri, dei percussionisti di tamburi e dei portatori degli stendardi, cioè della maggior parte della squadra
...coi loro occhi si manifestavano visibilmente e chiaramente nonostante fossero minuscoli, e i loro becchi rosa e luminosi e che andavano ingigantendo erano brillanti, così anche i loro corpi a causa della scomparsa dell’ultimo strato della spessa notte. Essi rizzavano le loro piume che erano diventate definitivamente visibili. Il loro grigio era sovrastato da un colore strano mescolatosi a un azzurro smorto e color lavanda. Ciò esaltava la loro lentezza, i loro volumi, il loro numero mentre stavano così, sul punto di volare, rizzando le loro piume e impegnati nel lisciare la lanugine dei loro piccoli. Intanto i maschi erano sul tetto, camminavano adagio non senza ostentazione cercando di far la corte alle femmine, di attirarle, di pavoneggiarsi. Cosa che rendeva i loro piccoli occhi ancora più neri, più accesi, più ardenti, più brillanti cosa che fece ricordare a Tarik un’antica pietra di diamante, di una collana di oro che non lasciava mai il collo di sua madre. Gli uccelli rimanevano così fissando per lunghi minuti, con uno sguardo vuoto, inespressivo, triste come se i loro occhi stessero portando tutte le lacrime del mondo e di sua madre in particolare rimasta ghiacciata sin dal quel momento in cui gli aveva dato uno schiaffo perché l’aveva sorpresa mentre appendeva i suoi stracci sulla corda nascosta dietro l’ulivo ormai trascurato. Dunque come se stessero rinchiudendo tutte le lacrime del mondo e quelle di sua madre in particolare che era rimasta così ghiacciata, inerte, appesa, eretta nel giardino alzando le braccia verso la corda; così inconsciamente scoprì le sue ascelle rasate, profumate che -nonostante tutto - portavano le tracce di una pelosità carbonica e vide anche la sua pelle macchiata di qualche nero, che i peli strappati avevano lasciato; fu come un fremito che invase il suo corpo all’improvviso per lo spavento, e per sentirsi scoperta impudicamente. Perciò lo schiaffeggiò prendendo come pretesto il possibile pericolo che cadesse dallo sterile albero. Egli stesso rimase stupito, non capiva ciò che gli era successo, giacché il maestro del della scuola gli aveva insanguinato il pollice del piede perché aveva rifiutato di scrivere alcuni versetti del capitolo della “vacca”: E quando ti chiedono sulle mestruazioni....
Rimase ghiacciato, dunque, (in piedi?) vicino a lei, guardandola di soppiatto. Non sentiva più il dolore che pungeva i suoi piedi ma il bruciore dello schiaffo che divorava la sua guancia destra, mentre lei era sempre lì, in piedi, le braccia e le mani alzate verso la corda e gli stracci... Sciams Eddin diceva, parlando con calma e serenità come se stesse parlando a se stesso ” Non sapevamo come metterci in collegamento col fronte; decidemmo di sgozzare alcuni soldati della legione straniera. Entrammo nella taverna; fingemmo ebbrezza. Eravamo seduti vicino al bagno. Di tanto in tanto uno di noi andava a sbarazzarsi dell’acqua17 e tornandoci parlava della sporcizia, dell’impurezza, dell’immondizia degli escrementi. Il cesso era turco. Avevamo molta paura, non avevamo che un solo coltello. Dicemmo: ”Non fa niente, meritano d’esser sgozzati”. Kamel mi chiese una penna. Entrò nel gabinetto. Quando tornò si avvicinò a me e mi disse nell’orecchio: “”Ho scritto W l’Algeria” Gli dissi ”Non sei come me, tu sai scrivere senza errori, vai a scrivere FLN VAINCRA, tanto ero sicuro che stavamo per morire. E fin ad ora conservo la penna con cui Kamel scrisse. Ti ricordi il tuo amico Kamel? Era bellissimo. Non c’era una ragazza che gli passasse vicino senza cadere nella trappola..Però aveva di quegli occhi; Kamel era un po’ timido. Gli dissi: stiamo per morire, senza dubbio. Rideva e piangeva, non sapevamo se era ebbrezza o la paura, forse tutte e due, come diceva mio papà...Un solo coltello e loro erano in cinque; che cosa dovevamo fare? cinque maiali. Era Kamel che li aveva attirati verso di noi, fratello mio. Faceva fatica. I suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri, la cravatta rossa. Era bellissimo, fratello mio....sai vedo ancora le bottiglie di birra “Luxe 33” che erano sul tavolino. Il primo porco venne e disse:” a votre sante”. Gli ho detto, dentro di me, “Piangi tua madre che non ti vedrà più” Avvicinati, avvicinati. Un solo coltello e non era neanche affilato. Chi avrebbe potuto dire? Chi avrebbe potuto credere? Per Dio Tarik, fratello mio. Kamel, il tuo amico, era shik con la cravatta rossa e colle sue scarpe intrecciate. Ti ricordi? gialle e nere..Lo prendevi sempre in giro. Adesso dov’è? Lo vedi? Salutamelo. Magari un giorno andremo a vederlo all’improvviso: “Haut les mains” - dicevi - per spaventarlo. Però il coraggio gli tornava sempre quando era necessario....quand’abbiamo sgozzato il primo nel prato oscuro egli muggiva come se fosse un leone. Si Kamel era un vero uomo, fratello mio. Nei momenti difficili egli rispondeva sempre. Tremava, ma ce l’ha fatta. (Cadde a terra morto) Come diceva il tuo zio Hussein “che Dio abbia la sua anima”..Uno di loro mi fece pietà. Uno spagnolo poverino, cioccava come la gallina: viva Il FLN. Era ipocrita, opportunista, voleva risparmiare la sua vita... Poi ognuno andò dalla sua parte. Dissi loro: non c’è fuga che ci possa salvare. Io mi sono rifugiato dalla zia Bja, tua madre. E Kamel, sai dove ha passato quella notte? Da Jeaqueline, la moglie del capitano, te la ricordi? (bellissima). Come diceva mio padre, “nelle loro proprie case”. Era bravo. La Francia non l’ha mai arrestato, Kamel. Non come me che sono stato perseguitato per 2 anni interi. Mi hanno tenuto prigioniero in una scuola a Djebel Aures18, e ‘tuo fratello’, con addosso solo camicia e pantaloni, è stato legato con una corda; ma il freddo mi uccideva. Volevano che io parlassi. Dissi: Portatemi un pacco di gesso giallo. ‘Il miscredente era stupito’. L’effet de surprise; eh, scherziamo? Kamel non sapeva come pettinare i suoi capelli. lo prendevano in giro..ma era bravo. Ma dov’è che è adesso? Mi hanno detto che è sempre con te, non ti lascia.. Un giorno l’assalimmo “Haut les mains!” Come diceva lui l’effet surprise. Le sue scarpe intrecciate...sai un filo sull’altro, metà giallo e metà nero...Mia zia Bja, in un primo tempo mi diede uno schiaffo dicendomi: Matto intrigante, vai dai tuoi amici a cercare rifugio. Io non ti nasconderò. Adesso vuoi che andiamo tutti in carcere? Dissi: Va bene troverò una soluzione. Ero sul punto di andarmene quando mi abbracciò e cominciò a piangere. Come cuor mio? Dove vai? Come cuor mio...se esci di qui ti arrestano. Stai qui. Ma se tuo padre viene a sapere la cosa. . Le dissi: Quello è un traditore vigliacco..Se ci denuncia io ucciderò anche lui..Mi diede un altro schiaffo. Come mai? Sei matto. Uccideresti tuo papà. Le dissi: Ma zia Bja lo conosci bene che è un traditore. Mi disse:” smettila. Tu devi accettare tuo papà anche con i suoi difetti ... Ma dove posso nasconderti cuore mio? Tarik è via, no so dov’è in questi giorni. Tutti e due non conoscete che guai. I suoi occhi si riempirono di lacrime e colarono. Fece la pelle d’oca. Non avrei dovuto andare da lei. Mi dissi: Poverina l’ho infastidita e non sa neppure che cosa fare”..Le dissi: Ti saluto zia Bja. Ce la faccio. Mi diede un altro schiaffo. Era diventata come matta. Non sapeva a che santo affidarsi. Però era una bravissima donna (molto sensibile); come diceva mio papà “che dio abbia la sua anima”. Sai dove mi ha nascosto? Ma ti ho raccontato questa storia più di una volta e tu pure fai finta di non saperlo...Dimmi di tacere e di smetterla.. altrimenti continuerò aggiungendo delle cose, sulle quali esagererei, gonfierei, e direi delle bugie fino a quando non mi uccida il vanto e l’ostentazione.... la storia della terrazza, quando i soldati vennero, (nel giorno fatidico) come diceva il genitore. Te la ricordi Tarik, fratello mio? Eri obeso e noi ti chiamavamo Babba agina mangiatore di Tammina e Botte Bud Abbot. Quando il capitano mi picchiò, vidi i tuoi occhi. Se avessi potuto l’avresti mangiato. Ma perché usavamo il gesso giallo?
“Quando gli hai sputato sul viso?”
Ah. Te lo ricordi? Come dicevi con quella dolcissima parola...(‘il miscredente era stupito’) Ah! Stupendo.. Ma gli schiaffi di tua madre mi bruciano anche adesso.... E dopo quando mi hanno arrestato io mangiai il gesso giallo mentre loro mi picchiavano e mi torturavano.. Forse me lo immagino.... E’ tutta immaginazione....è tutta immaginazione... un giorno un Harki19, un traditore che collaborava con loro mi diede uno schiaffo. Gli dissi: Guarda io non ho paura degli schiaffi di mia zia Bja e delle botte di mio padre Hussein e della “falaca”20 di “Sidi Salah”. Te lo ricordi Tarik, fratello mio? Dunque gli dissi: “Non temo gli schiaffi di mia zia Bja e vuoi che abbia paura (come si può contrarre questa malattia della paura? vorrei esserne colpito, così, da sbarazzarmi di questo grande coraggio, definitivamente... magari...) degli schiaffi di un traditore come te. Va al diavolo”. Mi guardò come un cretino. Poi mi lasciò e se ne andò. Non l’ho più visto da quel giorno...
Zia Fatima era stata brava anche lei in quel giorno (il giorno fatidico). Cercavano tuo padre, ma non l’hanno trovato. Fu un fiasco per loro, come diceva mio papà...Ah! zia Fatima! Champion! Per Dio è una brava donna anche lei.... Il suo canino pieno di tartaro mi faceva paura...per carità! Era forte nei momenti difficili. Diceva “Una difficoltà che passerà”...era stoica.
Ti chiamavano Babba Smina. Botti. Tutti. Un giorno, uno venne a cercarti. Mi disse che aveva studiato con te, ma non aveva dimenticato il tuo soprannome: El Botti (Bed Abbot). Avrei voluto ucciderlo con un colpo in testa. Mi era venuto in mente come piangevi tu quando i bambini ti prendevano in giro, correndoti dietro: Babba Agina, mangiatore di tammina. Babba agina mangiatore di Knina21. Ehh! I ricordi mi hanno attraversato la mente e lo spirito, non lo so...Ah! Come diceva la vecchia [la mamma].
Salutami Kamel....Digli che Sciams Eddin ti saluta, il “fiston”, egli capirà. Ero il più giovane di tutti loro. Sai non avevo compiuto 13 anni quando abbiamo sgozzato i soldati francesi. Kamel era con le sue scarpe intrecciate e la sua cravatta rossa.. Come mai mi hanno permesso di entrare nella taverna? E’ stato il destino senza dubbio. Aiutami a tacere oppure continuo a parlare fin al mattina”... I ricordi hanno accarezzato..
Giallo, poi pallido, poi di nuovo giallo quando la gru passava davanti al disco solare schiacciato.. Tuttavia sembrava che questo giallo si fosse liquefatto, o meglio fosse granuloso, fatti di miliardi di grani appesi nell’aria come il polline dei fiori gialli, o come la polvere del polline, come il colore che rimane sulle dita dopo aver afferrato una farfalla. Ma sembrava che l’ala movibile dell’apparecchio non fosse che una riga gialla disegnata sulla superficie del cielo, e ciò a causa della velocità. Salì dunque, questa riga gialla, meglio, l’impronta, la traccia, la linea che svaniva subito però e di cui non rimaneva che una sorta di impressione abbagliante, furtiva, malgrado la gru fosse sempre stata su due parti che erano sovrapposte con un perfetto angolo di 90°. Cioè la parte fissa, a chi guardava da dietro la finestra, dava l’idea dell’impianto e la seconda parte, mobile, gli dava l’idea della diffusione, dell’appianarsi e dell’allargarsi. Tutte queste impressioni astratte si formavano nella mente dell’osservatore a causa dell’incapacità della retina dell’occhio di seguire il concatenamento velocissimo e schiacciante dei vari pezzi della gru mentre si spostava nell’aria. Il giallo di quest’apparecchio (POTAIN), il momento dello spostamento, nello stesso tempo in cui il sole si metteva tra la gru e l’occhio, facevano sì è che alla mente non rimanesse che una passeggera impressione, specie quando l’asse altomovibile dell’apparecchio si nascondeva ed usciva dallo spazio che il vetro lasciava intravedere. La stessa cosa capitava alle nuove gru installate recentemente e che erano di colore rosso: ogni volta che passavano davanti al disco solare, colore e forma venivano scomposti, la forma se ne andava e il colore svaniva e non rimanevano che le impressioni che si susseguivano l’un all’altra. Questo continuo e sempiterno movimento lo distraeva dal suo lavoro, l’incantava, affascinava la sua anima. Non poteva resistere e allora si alzava, s’avvicinava alla finestra per guardare verso il cantiere da cui si potevano vedere le gigantesche gru, la rossa , la gialla, la pallida, la rosa, e di nuovo la gialla e di nuovo anche la rossa. Dunque tutte le impressioni attraversavano la sua testa specie quando si trasformavano in frecce ascendenti dal fondo del cantiere verso il cielo, librandosi, diffondendosi, appianandosi, svanendo, cancellandosi, volteggiandosi pigramente. Sembrò - mentre si avvicinava al vetro - avesse un sentimento vibrante di cui non capiva esattamente la causa. Ma subito dopo, s’accorse che si trattava del riflesso di una nuvola vagante che gli dava l’impressione che la finestra si stesse muovendo anch’essa, perché non c’era alcun segno ad aiutarlo a organizzare lo spazio rigorosamente steso dinanzi a lui. Dunque, quest’impressione era il risultato dello spostamento verticale della nuvola rispetto alla verticalità del suo corpo. Ma appena questo sottile movimento smetteva, egli sentiva come se la finestra fosse tornata di nuovo alla sua fissità, dal momento che la nuvola aveva continuato il suo percorso in un silenzio tremendo e nel quadro vitreo non rimaneva gradatamente che l’azzurro. Mentre stava davanti alla finestra e mentre il suo sguardo gli sfuggiva cercando d’impiantarsi nel cantiere, l’infermiera entrò e gli disse qualcosa che non capì, ma abbassò ugualmente la testa e continuò a stare in piedi, meravigliato, stupito, come se non capisse. Perché non riusciva a vedere qualcosa del lavoro che si svolgeva nell’edificio, tranne queste gru gialle (BOUIGHES) e rosse (POTAIN) e qualche struttura di cemento che rimaneva ambigua, perché non aveva ancora una forma ben determinata, soprattutto perché il cantiere era circondato da una recinzione di zinco brillante che chiudeva tutti gli angoli. L’ostacolo metallico impediva la vista della maggior parte della superficie poiché era innalzato di parecchi metri....
Il padre diceva: ”E’ tuo figlio”. Vidi il maestro avvicinarsi e soffiare sulla tavoletta bagnata d’inchiostro, mi mise davanti il tappeto. La mia mano era modellata dalla violenza della parola/della guerra. C’era la guerra. L’Algerie c’est la France et la France ne reconnaitra..Dov’è la mia infanzia? Mi nascosi quando i bambini si misero a perseguitarmi gridando: babba aggina mangiatore di Tammina. E come? - raccontava nel buio - Mi seguivano fin sulla porta della scuola del Corano. Così come mi accompagnava il complesso di obesità, perciò facevo fatica a sbarazzarmi del desiderio smodato di mangiare? Fallivo purtroppo, allora l’obesità di cui ero colpito divenne più forte di prima. La mia vita era diventata un Ramadan continuo. Non conosceva mai il suo sciaaban... Entrai nella sala di preghiera di sotto. La luce scendeva e il mio robone irritava le mie grosse cosce, allora lo presi e con esso coprii i miei piedi insanguinati. Vidi il cieco precettore mentre sceglieva una penna per me. Diceva: “scrivi”; ma non scrissi. Risposi :”mia mamma è pura, immacolata”. Insistette “scrivi: E quando ti chiedono sulle delle mestruazioni, dì che è un male. Dissi: ”Non scriverò”. Pura è mia mamma”. Minacciò “scrivi altrimenti prenderai le botte”. Risposi: “Picchia”. “Picchiò ed insanguinò i miei piedi. Poi camminai sulle ferite correndo verso di lei per rivendicare il mio diritto a capire questo problema. La trovai nel fondo del giardino. Stava stendendo qualche straccio. Mi schiaffeggiò. Dissi: ”Sei pura. Sei immacolata”. Poi andai via. La lasciai che urlava raccontando la leggenda del nonno comunista che moriva trascurando l’ulivo che aveva bisogno di essere potato, di essere trapiantato e di acqua limpida. Mio nonno aveva portato un flacone di acqua di Zemzem quando era tornato dal pellegrinaggio e glielo aveva regalato. Lei aveva messo in quest’acqua foglie di rosa e due gocce di olio di oliva grasso e verdeggiante. Non ricordavo la nostalgia delle mie dita, il loro entusiasmo per la penna, l’inchiostro, la tavoletta, il simac22. Da quel fatidico giorno l’altra voluttà misteriosa, sulle mie labbra. Ho pianto per la vergogna della sua condizione. Ma lei non capì il senso delle mie interrogazioni: “Sei pura?” “Dì che è un male. Dì che è un male. Dì che è un male”. Disse, “scrivi”. risposi: “No””. Continuò “Taci”. dissi: “No””. Dimenticai le mie dita tra lo stupore, l’abbaglio e la domanda teologica. Aggiunsi: “A te la decisione, maestro”. La mia infanzia si è legata al suo dramma. Sono stato allontanato, cacciato via dalla scuola del Corano e dalla casa di mia mamma.
Salìi sulla terrazza. Chiamai Sciams Eddin. Gli dissi:
”scrivi w.FLN”.
Lui scrisse.
“non usare che il giallo. E’ il mio colore preferito” - aggiunsi.- Disse di si. Continuai:
”scrivi FLN VAINCRA”
. “Detta, sapiente nostro” - rispose
Ho sillabato le due parole.
“io non capisco niente nella loro grafia” - disse.
”Non fa niente diventerai grande e dimenticherai, Sciams Eddin, figlio di mio zio”.
Usammo il gesso giallo. Le nostre dita erano sporche.
”stai attento. Pulisci le mani prima di scendere se no ci picchiano” - raccomandai.
Sciams Eddin scrisse: FLN VAINQURA”. Cancellai QH e scrissi C al suo posto.
“Veloce asino”.
”Il loro modo di dettare non lo capisco”:
”Neppure il nostro. Non torno più al alla scuola. Devo raggiungere il gruppo”.
Mi rise in faccia.
”Che c’è? Pensi che sia un vigliacco?” - dissi.
”No. Ma ti rifiuteranno a causa della tua obesità”:
Gli diedi uno schiaffo. Sciams Eddin pianse. Dissi con rabbia:
“Non conosci il dettato e mi prendi in giro? scemo!” Rise e scrisse per dispetto “ABATE LA FRANSSA”.
”Che deficiente che sei! Sai che Mussa Ben Nusseir era molto obeso. Non poteva camminare in piedi. Erano i soldati che lo portavano da un posto all’altro sulle loro spalle. Lo sai cretino?”.
Tacque.
“Sono più veloce dello stesso Ali Meimun”. - aggiunsi -
Si era beffato di me, con molta freddezza. Dissi:
”Scommetti? Facciamo una gara”.
Facemmo una corsa sul terrazzo. La città fitta di edifici girava attorno a noi. La vittoria fu mia. Disse:
”E’ tua Tarik Ben Nusseir”. Lo schiaffeggiai un’altra volta. Questa era la mia violenza..
I bordi del Rimmel bollivano per le teste decapitate vigliaccamente. La terra era diventata rotonda con esse. La terra fece il suo giro.
Mi ricordo ancora quando ero in piena infanzia e lo scorrere dei mesi. L’obesità mi faceva del male. Persino Sciams Eddin - era il compagno della mia infanzia - si burlava di me. Perché?
I mesi ne hanno abbastanza di tombe. Ed io soffrivo del mio male. La guerra scoppiò. Vidi i coloni camminare vicino a me. Scrissi col gesso giallo. Vidi dalla terrazza la città fitta. Vidi le donne che erano uscite inaspettatamente. Confezionarono coi loro veli neri i limiti della sera. Mia madre era una di loro. Dissi a Sciams Eddin: Scrivi: “W.Les femmes!” Rifiutò. Scrisse”W. MOC”. Gli diedi un altro schiaffo. Una delle manifestanti cadde. La preghiera del morto si diffuse nella notte. “...Jamais d’autre autorité que la siennee..”
Il cantiere sfidava colla sua struttura le leggi dell’architettura e quelle dell’equilibrio. Dopo alcuni mesi il quadro generale dell’edificio parve chiaro colla sua dimensione pesante, gonfia.
Al tramonto gli uccelli verranno dagli arboscelli del giardino pubblico, squadroni di uccelli cadranno nelle trappole fatte dai fili elettrici, presi dai pali dell’illuminazione. Erano trappole che i ragazzi del quartiere installavano al tramonto. Si sparpagliarono nel cielo che cominciava a perdere man mano il suo azzurro. Righe rosee specie in quel momento di primavera venuta quasi all’improvviso. Fece impazzire gli uccelli meravigliati perché avevano perso la loro coscienza famosa, la loro intuizione solita e la loro diffidenza innata e si erano messi a godere del sole indebolito, calante verso il mare. I bambini rimasero lì a porre trappole per gli uccelli impazziti ed a gareggiare nel muovere il piccolo specchio che levigavano con gran cura, stupendo così gli uccelli che si libravano sopra il cantiere gigante che assomigliava a una grande frattura aperta al centro della città, dinanzi alla sua finestra dietro cui stava di guardia, come se stesse spiando non solo il grande cantiere, il giardino pubblico, gli uccelli, i bambini e il tramonto ma perfino la vita stessa. Essa gli diede come la sensazione di essere prigioniero dietro questo vetro curvo. Rimase così in una sorta di svenimento breve. E Sciams Eddin entrò e cominciò a raccontargli i suoi ricordi, lui il socio della sua infanzia. Lo lasciò parlare fino a quando il buio non invase la stanza. Il suo cugino tacque e gli chiese di raccontargli la storia della gita che aveva fatto a Gibilterra, colla compagnia di uno dei suoi amici, Kamel. Kamel che l’aveva accompagnato nell’età dell’adolescenza ed era stato sempre con lui, fianco a fianco, silenzioso triste, muto, con gli occhi sempre in lacrime, resistente rassegnato, slanciato, bellissimo, sensibile. Non passava un giorno senza che s’innamorasse (meglio faceva innamorare una donna). Era così lungo che la sua testa sembrava toccasse il cielo. Camminava al suo fianco. Non lo lasciava mai, colla sua ampia cravatta dai colori forti che era diventato oggetto di scherzi. “No. No. Ciò è segno di brutto gusto...Non hai nessun gusto, Kamel”. Ma lui si vantava lo stesso, anzi la espose al vento con orgoglio dicendo: “E’ la scarpa? Che cosa ne pensi? Sono di marca italiana. Non sbagliarti e non ingannarti bambino. Bada figlio mio...”Lui rispose: “Le tue scarpe sono mediocri, intrecciate...non ti vergogni? Che cosa direbbero i nazareni?23.. Se l’insegnante, pacifista, di latino ti vedesse: “Laudate pueri. Nulla pax sincera in furore”. Traduci. Kamel era stato uno dei suoi migliori alunni e uno dei suoi amici. (Auguratevi alunni. Non c’è pace duratura se fatta nella violenza). Ma la nostra violenza è la guerra, Kamel. “Dobbiamo sbarazzarci di questo insegnante pacifista, traditore, ingannatore....sgozziamolo....”
La guerra ‘batteva il suo pieno’; è un immagine volgare. Devi toglierla via dal tuo vocabolario, Kamel. Perfino le tue scarpe sono mediocri: gialle, nere. Che colori”?
Rimase stupito perché non aveva gusto.
“Vuoi che le donne ti prendano per un clown o un prestigiatore? Ah! Se avessi i tuoi occhi e l’azzurro viola delle tue pupilla non...”
E lui:
“Che cosa hanno le scarpe? Sei geloso di me? “
Tarik scrisse a Musa Ben Nusseir informandolo della sua vittoria e dei bottini. Geloso questi scrisse a Tarik rimproverandolo d’aver agito senza la sua autorizzazione e ordinandogli di non muoversi dal suo posto finché non l’avesse raggiunto.
“Anche tu sei geloso di me, Tarik. Che cosa hanno le mie scarpe? Sono raffinate, di marca italiana: Tu sei geloso”.
Tarik scrisse a Mussa Ben Nusseir informandolo della sua vittoria e dei bottini. “Geloso. Geloso. Traduci, figliolo”.

CAPITOLO IV

“Gente dov’è la fuga? Il mare è dietro di voi, e il nemico davanti a voi. Per Dio, non avete che la fedeltà e la pazienza. Sappiate che in quest’isola siete peggio degli orfani nelle feste dei cupidi. IL vostro nemico vi ha accolto con i suoi esercizi, le sue armi e i suo cibo. Mentre voi non avete che le vostre spade come rifugio e non avete nessun cibo se non che quello che prenderete dalle mani del vostro nemico. E se poveri come siete riuscirete non a realizzare il vostro scopo, la vostra forza sarà distrutta”
Il professore Ben Asciusr disse: “L’autore del ‘Girello delle anime’ accennava al discorsi di Tarik quando diceva: Quando gli arabi e i goti si scontrarono, si batterono aspramente per tre giorni. Tarik non era indifferente alla brutta situazione della sua gente; allora cominciò il suo discorso esortandola al coraggio, alla pazienza, alla shiahada e a rendere loro grande la speranza, poi introdusse il testo del discorso: gente! Dov’è la fuga?”
Il nostro professore proseguì dicendo: ”la versione islamica insiste sulle conseguenze positive e l’efficacia di questo discorso nel suscitare l’entusiasmo dei mussulmani, il loro coraggio, la loro fiducia e nell’incitarli sul cammino della vittoria. Però dobbiamo essere scettici prima di tutto per quanto riguarda il vero autore di questo discorso e poi per quanto riguarda l’occasione che ha portato alla sua prolusione e che viene attribuita a Tarik. Dunque l’autore e l’occasione ragazzi”. Il professore continuò mentre il dubbio e l’angoscia cominciavano ad invadere le nostre anime dicendo: “La maggior parte degli storici mussulmani, soprattutto gli antichi non ne fanno alcun cenno. Poi nè Ibn Abdelhakem, nè il Biladri, che sono tutte e due i più vecchi storici delle conquiste islamiche, ne hanno parlato; neppure le prime fonti andaluse che hanno riportato ampiamente la battaglia dello stretto, e con maggiore chiarezza la biografia di Tarik Ben Ziad. Ma non hanno accennato a questo cosiddetto discorso. Avete visto ragazzi?”.
Uno di noi disse:” Ma perché l’abbiamo imparato allora se non è autentico?” “Taci cretino. Solo per la sua bellezza e l’incanto della sua retorica, la sua leggenda l’ha reso ancor più forte ed interessante”. Il professore continuava la sua lezione. Noi eravamo molto adirati. Come osa quest’insegnante sostenere una tesi del genere su quel discorso che abbiamo imparato sempre a memoria e che ormai è diventato il nostro discorso e la nostra proprietà?
“L’insegnante Ben Asciur è diventato matto - abbiamo pensato - come osa dire simili parole in pieno periodo di guerra, mentre abbiamo bisogno di un discorso del genere per dissetare le nostre anime e consolarle e rafforzare i nostri spiriti? Gente! Dov’è la fuga? Il mare è dietro di voi e davanti a voi il nemico. Per Dio non avete che la fedeltà e la sopportazione, e sappiate che in quest’isola siete peggio degli orfani nelle feste dei cupidi...”
L’insegnante continuava a parlare, indifferente del fulmine che ci aveva colpiti: “Dunque le fonti andaluse, come ho già detto, non accennano a questo discorso. Non vi accennano Ibn el Athir ed Ibn Kaldun. El Makarri l’ha preso da uno storico senza citarne il nome. Comunque è un fatto noto solo nei libri degli storici e letterati più recenti; solo questi vi insistono”.
Kamel pensava che le parole di Ibn Asciur fossero un tradimento. Mi guardò e mi fece sapere che non c’era nessun’altra alternativa se non la sua esecuzione. Gli feci sapere che il nemico era davanti a noi. Il nostro ‘sceicco’ continuò il suo discorso: “Non c’è dubbio che Tarik abbia pronunciato un discorso prima della battaglia. Sappiamo che parecchi comandanti delle conquiste islamiche, nelle età più antiche, pronunciavano dei discorsi ai loro soldati sul luogo di battaglia. Ma la lingua di questo discorso, l’incanto del suo stile, la sua profondità, sono tutti elementi che fanno dubitare che l’autore possa essere stato Tarik..” Allora fu la grande catastrofe.

La notte diventava man mano più profonda e più incantevole. L’orizzonte pareva lontano e vicino nello stesso tempo. Il sole si appoggiò sul muro opposto e cominciò già a sommergersi a pezzi dietro il gelso, che con la sua maestà stava riassumendo l’intera generazione del cosmo. Ma lui lo considerava come un semplice rifugio per gli uccelli e una fonte di cibo per i bachi da seta. Il passato svanì nella sua mente, assomigliava a quel ramo che i bachi avevano distrutto fendendosi. I rami del gelso graffiavano i vetri di un’anta della finestra. La notte aumentò di profondità. Un uccello venne. Era allegro, fiero, spigando le sue ali come se avesse paura che il cielo gli cadesse addosso, anzi i corpuscoli notturni, di cui era fatta la materia atmosferica dopo il tramonto del sole. Il collo di un uccello era attaccato all’orizzonte. Le sue piume, così simili ad un’arabesca snaturava il verde dell’ambiente. I canti diminuirono forse perché si erano sparpagliati in un labirinto senza limiti. La notte aumentò d’incanto. L’orizzonte sembrava lontano e vicino nello stesso tempo. La luna si alzò. Era di argento brillante, piatta. Il gelso era quasi incollato al muro della casa. Quasi quasi l’avrebbe toccato con le estremità delle sue dita, specie nell’estate, stagione della sua plenitudine. Avrebbe quasi quasi toccato gli uccelli che si erano rifugiati e si nascondevano nel fondo e tra i sui rami al tramonto. Il cinguettio degli uccelli nascosti timorosi si alzò verso di lui. Gli arrivarono il loro chiacchiericcio, le loro pene e i loro deboli canti. Lo perseguitavano i loro sospiri, i loro battiti, i loro brividi silenziosi e ciò prima che scendessero nel pozzo del sonno profondo, o meglio nell’assopimento pigro. Tutte queste impressioni sonore gli arrivavano prima che gli uccelli si ricoverassero nel buio del gigantesco antico gelso, quell’albero i cui rami si erano curvati fino a toccare le finestre e le ali dei suoi uccelli si sono moltiplicati o quasi a coprire il muro opposto interamente. Se li immaginava quand’era bambino, racchiusi, addormentati tra i bronchi e le foglie, improvvisando melodie e mormorii tramite le loro gole impigrite. Nella sua infanzia credeva che questi uccelli rappresentassero gemiti, urla, pianti e l’ingiustizia del mondo e dell’umanità stancata, affaticata, miserabile. La sua infanzia s’era legata alla loro tragedia sin da quell’epoca. Il maestro del Corano gli disse di scrivere: E quando ti chiedono sulle mestruazioni. Egli rifiutò. Allora lo vide avvicinarsi a lui, soffiando sulla tavoletta di legno. Gli stendeva il tappeto, le sue mani vibravano per la forza della parola. Il bambino rubava le notizie dell’esito della guerra. La sua infanzia si affossò. Il maestro disse: ”Dà i tuoi piedi”. Lui si alzò. Lo sceicco lo picchiò forte. Suo padre disse: “Ti rendo conto colla pelle, le ossa, il sangue”. (Per te patria sacrifico il mio sangue).
Egli scrisse anche questo slogan sulla terrazza di casa. La sua infanzia si era affossata. All’alba correva verso la scuola al piano inferiore. Nel cortile la luce stava scendendo mentre il suo robone copriva i piedi insanguinati. Dov’era suo cugino? Giocava tra i bambini mentre aspettava il momento propizio per saltare sul cattivo sceicco e morsicarlo. Quando era bambino pensava che il pianto degli uccelli rappresentasse l’ingiustizia dell’umanità sofferente piangente, stanca. Il cerchio delle disgrazie si era allargato. Entrò nel giardino. Trovò sua madre nella parte più estrema. Gli uccelli nascosti negli alberi cominciarono a piangere quando sua madre gli diede uno schiaffo senza nessun motivo. Il gelso era pieno di uccelli che cantavano, che sembravano riecheggiassero il dramma del mondo, le sue pene, le sue tragedie, la sua tristezza , il suo isolamento mentre l’atroce guerra era giunta al suo culmine. Lo sceicco disse: Dai tuoi piedi. Lo picchiò violentemente. Corse a casa. Trovò sua madre nel fondo del giardino che stava stendendo il bucato. Lo schiaffeggiò. Gli disse di non arrampicarsi sull’albero di olivo per non cadere e non spaccarsi le ossa. La malinconia gli invase le ossa e la sua profondità. Lo sceicco non avrebbe dovuto essere così crudele e la madre così pudica. Da allora la tristezza l’assalì. Era diventato goloso. Cominciò a mangiare troppo. Il medico diceva che l’obesità l’aveva colpito, perciò doveva seguire una dieta, diversamente sarebbe morto per questa eccedenza di grasso. Il suo corpo cominciò a gonfiare e a ingrassare. Il medico faceva dei racconti attorno al ruolo delle ghiandole nell’equilibrio organico. Pretendeva che ci fosse qualche disfunzione nella ghiandola tiroidea. I bambini gli gridavano:” Ia smina. Babba’agina, mangiatore di tammina, sua madre Amina”.
Kamel disse: “No sua madre si chiama Baja”. Non erano convinti. Il suo cugino lanciava loro i sassi ma invano. Lui diceva che, anche Mussa Ben Nusseir era stato colpito dalla malattia dell’obesità. Aggiungeva che questa malattia l’aveva colpito dopo le vittorie di Tarik Ben Ziad. Geloso era Mussa. Nessuno gli credeva. Kamel disse: “Non esagerare troppo”. Ripetevano il loro scherzo molte volte al giorno. Entrò nel cerchio delle disgrazie. Pensava che i canti e i gemiti degli uccelli rappresentavano l’ingiustizia del mondo. Si era raggomitolato su se stesso. Non ha mai saputo il fattore essenziale che aveva causato quella disfunzione nella sua tiroide. Era la guerra? Era lo schiaffo della madre? Era l’ordine dello sceicco perché scrivesse qualche versetto della Surat della vacca? Non lo sapeva precisamente. ma una sorta di nausea si afferrò al suo corpo causandovi strane vibrazioni. Il bambino ebbe all’improvviso un esaurimento. Il suo corpo s’ingigantì ed il grasso sbordò da tutte le parti. Si rinchiuse in casa. Non usciva per giorni interi. Sciams Eddin venne con un piano dell’inferno per assassinare il maestro della scuola coranica, la causa di tutta la sua disgrazia. Lui temeva che al suo precettore capitasse qualche male. Pianse quando pronunciò questa parola: Dì che è un male.
Non aveva più voglia di guardare gli uccelli mentre tornavano ai loro nidi accompagnati dalla prole per ripararsi nel fondo del gelso. Diede a suo cugino tutte le scatole dei bachi da seta così come fece con il suo amico Kamel. Si era nascosto tra le pieghe del sonno. Era caduto nell’abisso del cibo. Gli sembrava che le voci affannose dei membri della sua famiglia fossero distorte, rovesciate. Aveva paura che i gemiti dei molti uccelli senza piume arrivassero fino al suo letto. Una pioggia fitta cadeva, anche neve abbondante cadde. La pioggia bagnò il vetro della finestra. La neve tinteggiò il gelso di materia bianca. Sentì dopo il primo fiasco che c’erano vaste reti aggrovigliate contraddittorie i cui fili stavano tramando dentro il suo corpo carnoso, adiposo come un ragno. Sul vetro prese forma un labirinto che incominciò a crescere sotto lo stesso vetro. Si arrampicava in modo incerto.
Sciams Eddin disse: “Non preoccuparti l’uccideremo spietatamente. E’ un male per i mussulmani. Voleva farlo ridere. Scherzava giorni e notti interi. Ma invano. La ghiandola tiroidea era generosa. Carne e grasso aumentavano. Tarik rifiutò di scendere in strada. Era ossessionato. Aveva paura degli scherni di Sciams Eddin. La paura si era impossessata di lui. Aveva preso l’abitudine di dormire mentre la torcia bruciava. Aveva delle sensazioni strane, d’aver perso i suoi arti e i suoi limiti, nel buio. Di tanto in tanto, sentiva la voglia di chiedere soccorso a sua madre. Ma ricordò il suo schiaffo, la corda distesa e le sue ascelle rasate, rugate colle tracce di peli color-carbone. Si trattava allora di chiederle aiuto. Aveva paura dell’oscurità della notte bluastra che copriva la superficie della sua finestra. La mattina s’incuriosiva per i rumori delle cose, per le esplosioni delle voci e del tossicchio della zia Fatima. Era sommerso nel vuoto. Era assalito dalle cose scabrose ambigue, deserte, esoteriche, mescolate in una maniera progredente che lo rendeva molto più sensibile. Si trovò in un cerchio vuoto. Dov’era la sua infanzia? Dov’era andata? Suo padre diceva: ”questo bambino è responsabilità tua. Rendimi conto colla pelle, le ossa e il sangue, e amen”. Entrò nella scuola quando lo vide avvicinarsi mentre soffiava sulla tavoletta bagnata d’inchiostro. “La religione non ci dà imbarazzi”.
Il maestro disse: “Scrivi”. Non scrisse neanche una lettera. Dimenticò le sue dita tra l’abbigliamento, il rumore e il risentimento. Non scrisse neanche una lettera. Modellò le sue mani con la risonanza della parola. La sua infanzia si era nascosta. Come? Raccontava l’alba in cui lo spettro del suo eterno assente padre l’accompagnò fino alla porta della scuola. Entrò nella stanza inferiore. La luce era nel cortile. Non ricordava la nostalgia delle sue dita che tenevano con violenza la penna. Rifiutò di scrivere: Dì che è un male . Pura era la sua mamma. Più pura, più pura di tutte quante loro. Sua madre era da rispettare più di tutte quante loro. Disse: Dà i tuoi piedi. Li alzò. Il bambino complice gli mise la corda attorno alle caviglie e fece girare la falaca. Lo sceicco alzò il bastone di olivo. Si mise a picchiare. La ghiandola tiroidea diventò matta. Cominciò a produrre i suoi effetti. Kamel venne coi suoi eleganti scherni e i suoi occhi viola. Anche Sciams Eddin venne coi suoi folli capricci. Disse: “Tutt’è finito. Non preoccuparti. Abbiamo preso le disposizioni necessarie per quanto lo riguarda”
Tarik aveva paura di fare del male al maestro. La notte divenne più oscura, buia, color carbone. Anche le ascelle di sua madre erano color carbone, anzi vi erano solo delle tracce e niente altro. Lei era pura, bianchissima, senza peccato. Il lievito delle parole ingigantiva i fatti e i disegni sparsi dinanzi a lui mentre era sdraiato sul letto dello scandalo, come se tutte le parole si spezzassero, si cancellassero, si depennassero, si disperdessero e i loro significati rimanessero erronei, dubbiosi, non precisi a tal punto che non significavano ormai più niente per lui.
Era arrivato fino a dribblare le forme, anche se ciò era un risultato della loro diffusione nel loro dinamismo continuo. Sentiva che si stavano sforzando, deviando, ingigantendo, sciogliendo, moltiplicando e ciò secondo un ritmo matto che strappava la testa con qualcosa che assomigliava a numerosi bagliori. Anzi queste forme si nascondevano di tanto in tanto e in un diluvio di piccoli puntini oppure di piccoli dischetti, rossi, verdi, color del Nilo, color carbone, gialli e pallidi. Quest’impressioni colorate attraversavano verticalmente la sua testa dando luogo ad una rete di fili aggrovigliati.

Allora, avvenne la grande calamità....”Gente! Dov’è la fuga?..... E di conseguenza la paura del vostro nemico diventerà coraggio. Non lasciatevi arrivare a questo punto di disperazione. Cercate di eliminare quel despota. Non vedete che la sua città lo ha messo a vostra disposizione? Se accettate di morire la causa non sarà perduta. Il consiglio vale anche per me. Sto correndo con voi lo stesso rischio. Comincio da me stesso e sappiate che se riuscite a sopportare per un breve momento le difficoltà, godrete poi e per lungo tempo momenti più divertenti e più piacevoli. Non pensate che la vostra vita valga più della mia, perché anch’io posso avere lo stesso atteggiamento”. Kamel commentò: ”Vergogna, vergogna...eri una pedina”.
Come eri bravo o berbero...Nè il discorso era tuo, nè la vittoria era per te... E Mussa dietro di te, ti rimproverava e ti scriveva di fermarti! Eri una pedina non un eroe. Sei stato costretto fratello mio. E Mussa quel Botti, Totti era dietro di te, fermandoti al tuo limite e umiliandoti per invidia: Mussa scrisse a Tarik rimproverandolo d’aver agito senza la sua autorizzazione e ordinandogli di non oltrepassare il suo posto! Haut les mains! fermati al tuo posto berbero, berberizzato, matto, fin quando non t’abbia raggiunto: Ne era geloso ...e il mare era dietro di voi.
“Però in questo discorso e nell’incanto del suo stile e delle sue espressioni c’è qualcosa che rende scettico nell’attribuirlo a Tarik Ben Ziad”. Il professore Ben Asciur voleva essere più provocante ancora: “Perché l’abbiamo imparato a memoria” Si sentiva un’atmosfera molto tesa che sovrastava l’aula; al di fuori la guerra continuava. “Perché la storia è così? Essa dovrebbe essere falsa, leggera, erronea? Tarik ci ha tradito. Prendemmo in odio Mussa. Sciams Eddin disse: “Mussa, mangiatore di karmussa [fico]”! Eravamo delusi. Il nostro entusiasmo si sciolse, si volatilizzò. E dietro le porte l’atroce guerra incombeva su di noi. Kamel disse: ”Voglio un bicchiere di vino. Berrò fino ad ubriacarmi”.
L’insegnante continuava l’esposizione della sua tesi che metteva in dubbio nell’attribuire quel discorso al conquistatore dell’Andalusia.. “...era un berbero da poco convertitosi all’Islam e alla cultura araba. Sembra che ciò sia l’invenzione di qualche storico recente che l’ha composto rispettandone le condizioni del luogo e del tempo. Sull’argomento la versione islamica accenna...” Kamel disse: “Chi, dunque ha inventato questo discorso?” Un altro disse:” Il geniale autore è ignoto”: Così l’atmosfera scolastica si caricò di beffe e di scherzi. Ma l’insegnante era senza pietà. Continuava lo stesso a commentare questa commedia, accentuando il suo scetticismo. Uno di noi disse: “L’insegnante è diventato matto. Ci vuole per lui una camicia di forza, come è usanza nei manicomi. Sarà fatto“. La tesi di non attribuire quel discorso a Tarik ci lasciò come orfani mentre la guerra continuava.
je n’ai pas tué Madame Perron
La vague terroriste
L’invitée de la reine..,
I quotidiani francesi non si stancavano mai di fare grandi titoli, ed i soldati di pattugliare i viali e le vie della città, irrompendo nelle case. Un giorno vennero all’improvviso a perquisire la nostra casa alla ricerca del padre. Non trovarono che le donne, i bambini e lo zio Hussein che tremava in preda alla paura. Salirono sul terrazzo. Lì scoprirono gli slogans contro la Francia e la loro presenza nel paese. Lo zio Hussein denunciò Tarik, suo nipote, e Sciams Eddin, suo proprio figlio. Sciams Eddin sputò sull’ufficiale. Questi lo schiaffeggiò. Lo zio Hussein li rimproverava, li picchiava, li pizzicava per compiacere l’ufficiale francese. E lo zio Hussein quante volte l’ha incontrato nelle vie della città per più di 20 anni dopo la fine della guerra e 30 dopo che essa era scoppiata. Lo zio Hussein era sempre lo stesso , non cambiò mai. Avrebbe voluto riverargli l’odio che aveva per lui fin da bambino. Un giorno l’incontrò nel centro della città. Era vicino alla sua macchina, dal viso sorridente, dalle espressioni finte. Era falsamente meravigliato. Fingeva d’essere contento dicendo: “Come ti dicevo fin dal nostro ultimo incontro, ti ricordi? Tuo padre non cambia e non cambierà mai. Tu sai che si sbarazzò di tua madre in maniera maliziosa. Era davvero una grande donna, purtroppo. Che Dio lo benedica, mio fratello Hassuna. Ne sei al corrente....Non parlarmi di Sciams Eddin. Quel figlio svanito, ribelle...so che siete molto legati l’uno all’altro...vi amate l’un l’altro...non so perché....sei un uomo di scienza e lui è barbone...da un’ubriacatura all’altra. Non voglio seminare zizzania fra di voi. Ma...ma....non riesco a capire il senso di questa relazione. Non è normale. E il tuo amico? Come sta?...Ho dimenticato il suo nome. Aiutami a ricordarlo. Ah Kamel. Ho perso la memoria e con essa ho perso tutto..non c’è più niente...un mucchio di ossa. Nient’altro. Ma ringraziamolo per i suoi beni24...” Lui non rispose. E lo zio: “Ah, come sta Kamel? Era bravo nel cacciare e famoso nelle sue avventure colle donne e amanti in tutta la città (rideva). Cominciò le sue conquiste fin da adolescente...suo padre era un caro amico per me...non si fermava neppure per un mese. Come tuo padre...sempre su e giù...ogni giorno in un paese. Mio fratello ha visitato tutti i paesi del mondo tranne la santa Mecca. Ha rifiutato di visitarla...lo sai? Mio fratello è strano. Non ha avuto fortuna colle donne. Non capiva. Era eccentrico. Sciams Eddin gli assomiglia. E’ proprio come lui...Non sta fermo, non smette...come sta tuo papà?”
Aveva voglia di schiaffeggiarlo. Gli venne in mente quel vigliacco sorriso all’ufficiale, quando l’esercito li sorprese in casa e sulla terrazza. Lo stesso sorriso perfido. Aveva voglia di dargli uno schiaffo. ma lo lasciò chiacchierare. Voleva distruggerlo con il disprezzo e l’indifferenza...”col freddo”. Vide la sua lingua mentre si storceva nella sua bocca mezzo sdentata..non alzò la mano; non si mosse. Disse dentro di sè: “Per rispetto a Sciams Eddin non gli rivelerò il mio odio totale” Lo zio Hussein era la calamità della famiglia. Non ha mai lavorato...neanche un giorno nella sua vita. Era un parassita del padre. Continuò a parlare dicendo: ”Sei diventato un uomo. Grazie a Dio...eri veramente un patriota fin da bambino. Ne sono testimone. Aveva ragione tuo padre quando ti ha chiamato Tarik...purtroppo mio figlio Sciams Eddin era matto...lo maledico fino al giorno del giudizio. Mi ha distrutto e Dio lo castigherà...”.
Tarik non ebbe più la forza di resistere e disse:” Sciams Eddin è bravissimo”. Lo zio Hussein si meravigliò come se avesse ricevuto un fulmine sulla testa. Balbettava. Lui ripeté ad alta voce e con maggior fiducia in se stesso: “Bravissimo è Sciams Eddin. Se gli capita di bere egli lo fa soltanto per dimenticare che suo padre è un traditore”.
Lo zio Hussein rimase stupito, folgorato, meravigliato, isolato, scandalizzato, attonito. Lo lasciò inchiodato al suo posto. Poi se ne andò per gli affari suoi.

La miniatura era appesa al più alto posto di una delle pareti dell’ufficio le cui finestre d’estate venivano chiuse dal padre per non farci entrare il calore. Così il luogo rimaneva in ombra, salvo in una parte di forma triangolare che il sole riusciva ad illuminare penetrando attraverso i battenti delle finestre. Il padre non si stancava mai del suo Burnos25 di lana, neanche nei periodi di grande canicola. Non apriva mai le finestre prima del tramonto del sole. Spesso, in quei tempi, la luce cenere del tramonto lottava, anche se per un breve istante contro quella della lampada della scrivania sovraccarica di carta ammassata in maniera disordinata, cosa che produceva un’illuminazione di un giallo pallido che rendeva la miniatura più antica ancora e il suo incanto più irresistibile.
IL profumo degli agrumi rimaneva a lungo nell’atmosfera e ciò per settimane intere dopo la selezione, l’imballaggio e l’esportazione. Era una sorta di odore scomposta e inebriante che copriva l’aria e usciva dalle mura. Di tanto in tanto arrivava al deposito qualche campione d’arancio in anticipo rispetto alla stagione, allora quegli odori ritornavano per invadere il negozio e l’ufficio. Ciò dava luogo a qualche specie di sedimenti soffocanti, spessi, forti che facevano pensare agli odori dei cadaveri putrefatti, scomposti come quelli che si trovavano nei campi di battaglia. Può darsi che quell’odore fosse un’impressione suggeritogli dalla miniatura stessa, che il padre custodiva nel suo ufficio sul muro opposto alla sua scrivania. Era la stessa che rappresentava Tarik Ben Ziad e i suoi luogotenenti in piedi dinanzi alla muraglia dello stretto, prima della battaglia decisiva contro i goti: Posero l’accampamento sul monte della conquista diventato più tardi Gebel Tarik. Per proteggersi alzarono un muro. Appena la notizia arrivò a Lardrick egli mobilitò un esercito di 40000 cristiani. Si scontrarono nella pianura di Sciarisch. Lardrick perse la battaglia. Tarik e i suoi si impadronirono degli infedeli e dei loro beni...
. Quando mio padre scoprì questo testo d’Ibn Kaldun e che avevo il compito di tradurre incominciò a dire: “Traduci figliolo. ‘Hanno eretto delle mura attorno a loro’. Prima la traduzione letterale, poi vedremo. ‘Hanno eretto attorno a loro: Ils enroulerent. Le mura: les remparts.’ Non vedi che la traduzione letterale è cretinissima? Non ha senso. Continuiamo pure..troveremo delle soluzioni adatte. ‘Egli mobilitò un esercito di 40000 uomini circa. Accettò la sfida= il releva le defi. Mobilitando degli empi e dei cristiani = ameutant tous les pouples impies et les gens se reclamant du Christ’.
Faceva fatica a nascondere la sua gioia nel vedermi inciampare nelle parole delle due lingue. Gridò: ”Mediocre...E’ possibile che sia così imbecille?” Io lo lasciai inciampare nella sua rabbia. Rimanevo esterrefatto davanti a lui, senza nessun movimento. Sapevo, infatti, che non avrebbe resistito molto a non tradurre lui stesso il testo che aveva imparato a memoria. Anzi aveva imparato tutti i volumi che Ibn Kaldun aveva dedicato alla storia degli arabi e dei berberi. Mi dissi: “Pazienza. Una nuvola che passerà...una difficoltà che passerà come diceva la zia Fatima. Finirà per tradurre il testo. .” Sentivo che bruciava dal desiderio di tornare alla traduzione. Io mi sbarazzai di fatto del peso di quella responsabilità specie quando sentii Ben Asciur ritenere che il fatto di attribuire quel discorso a Tarik Ben Zaid fosse un’idea falsa. Non ho provato più l’interesse di prima per il cosiddetto discorso dopo essere stato convinto che ciò risultava impossibile ad un uomo che non conosceva l’arabo, perché era berbero e era da poco convertito all’Islam a alla cultura araba. Lo lasciai dunque arrabbiarsi, muggire burlandosi. Per quanto riguarda Mussa, non c’era da dire altro: (Mussa Ben Nusseir non si aspettava tale successo e tale vittoria da parte di Tarik. Quando ne ebbe notizia la sua meraviglia si trasformò in gelosia ed invidia. Ebbe paura che il merito di questa grandiosa conquista fosse attribuita a Tarik e non a lui. Forse era arrabbiato perché il monte della conquista venne chiamato dal nome del generale e ciò senza chiedergli il suo consenso, lui Mussa Ben Nusseir governatore di Kairawan e superiore di Tarik. Allora gli scrisse esortandolo a non avanzare più fin quando non l’avesse raggiunto e minacciandolo di dura rappresaglia se avesse rifiutato ad obbedirgli).
Ci sono altri che attribuiscono l’ira di Mussa al fatto che Tarik avrebbe disobbedito agli ordini a lui indirizzati di non oltrepassare Cordoba o il luogo dove egli avrebbe sconfitto i goti. Tale ragionamento è logico specie se prendiamo in considerazione il carattere di Mussa che era un uomo scrupoloso, cauto, malizioso ed intelligente. Temeva d’esporre la vita dei mussulmani a pericoli incerti e sconosciuti. Ma ciò non esclude il fatto che nell’anima dell’Emir del Kairawan non ci fosse posto per la gloria, l’orgoglio, la gioia e l’invidia. Subito Mussa Ben Nusseir attraversò il mare verso l’Andalusia nelle navi che aveva costruito per quella meta, spinto dalla brama della conquista malgrado la sua anzianità e la sua obesità che gli davano molti fastidi, a tal punto che contava sulla sua guardia e sui suoi soldati per andare da un posto all’altro.
Era ciò che l’insegnante Ben Asciur ci aveva detto, un giorno. Abbiamo odiato la storia per questo. Abbiamo capito che era piena di pensieri riposti e di dettagli falsificati. Lasciai, dunque, mio padre tradurre mentre rimanevo tranquillo, silenzioso, muto aspettando quella crisi di rabbia, sicuro che non avrebbe resistito a implicarsi nella lotta della traduzione. Si trattava soprattutto del prestigio e delle performance del suo idolo che l’aveva soggiogato fin da bambino. Non si accontentò di comprare quella miniatura bellissima a un altissimo prezzo ma mi diede il suo nome il giorno della mia nascita creando in me un complesso orrendo. Non sono riuscito fin ad adesso a sbarazzarmene. Fui molto curioso di leggere più tardi tutto ciò che era stato scritto attorno a quella battaglia e tutto ciò che era stato scritto attorno a quel generale. Non finisco di scoprire i giochi della storia, le sue falsificazioni, i suoi voltafaccia e le sue stupefacenti deviazioni. In quel giorno in cui l’insegnante ci schiaffeggiò con i suoi commenti e le sue rivelazioni., Kamel disse: “Eri una pedina, una pedina, vergogna. Sei caduto nella trappola o berbero!”.
La miniatura rappresentava dieci cavalieri. Tarik era sul suo cavallo nel quarto rango. Era l’unico che aveva le mani libere. Non portava, come gli altri, nè stendardo, nè tamburo, né trombetta. Però, eccezionalmente, a parte ciò, il generale vittorioso non aveva nessuna particolarità che potesse distinguere il suo rango e il suo prestigio. Era in mezzo alla squadra, tre cavalieri alla sua destra e altrettanti alla sua sinistra. Invece gli altri tre non erano rappresentati sulla miniatura. Soltanto i loro cavalli suggerivano la loro esistenza, come se l’artista avesse voluto mettere in evidenza i dettagli, le parti, gli animali e gli stendardi, sottolineando poco Tarik e i suoi compagni. Aveva perfino disegnato cavalli che avevano perso i loro cavalieri, come se l’avesse fatto apposta, non per disprezzo di Tarik, ma per il grande amore che aveva per i cavalli che aveva dipinto con cura e meraviglia nelle loro teste, nei loro arti, nelle loro code, nei loro colori, nelle selle e soprattutto in ciò che avevano di movimento che li trasformava, a chi guardava la miniatura, in un insieme coreografico, ballante, danzante, pretenzioso, contratto, maestoso, gaudente, musicale, battente, orgoglioso, differente, concorrente, etc... Cioè erano sul punto di correre, trottare, saltare...Come se non si preoccupassero del pericolo e di ogni altra cosa del genere. Perciò le membra della squadra di cavalieri parevano un po’ superficiali, raggelati, putrefatti, cauti dopo aver perso tutta l’animazione e tutto il movimento; anzi, aver perso perfino la loro umanità, o meglio, quei segni ordinari di ogni volto umano. Davano l’idea che queste forme disegnate, tracciate, incise rappresentassero personaggi gravi e importanti, uomini che avevano giocato non soltanto i primi ruoli nella storia e nei suoi arcani e segreti passaggi, ma anche erano eroi importantissimi. Se non ci fossero stati loro, l’umanità non avrebbe potuto continuare la sua marcia attraverso rivoluzioni storiche, invenzioni scientifiche e scoperte geografiche. Forse il disegnatore che non poteva essere che persiano - dato che l’arte della miniatura era nata nella Persia - non sapeva neanche lui che alcuni storici avevano affermato che Tarik Ben Ziad fosse di origine persiana e più precisamente della regione di Hamadan (E nel mese di Rjad del 92 dell’Egira, Mussa Ben Nusseir mobilitò un esercito di 7000 guerrieri arabi e berberi. Il comando fu attribuito a Tarik Ben Ziad, allora governatore di Tangeri. Lo strano è che su ciò la versione islamica non dice niente del conquistatore dell’Andalusia.. Anzi procede a stento sulla sua origine e la sua appartenenza familiare. Si dice che era un persiano di Hamadan, Maula di Mussa Ben Nusseir. Si dice anche che era stato un prigioniero dei berberi. Si dice in fine che era un berbero della tribù di Nefza. Quest’ultima versione sembra la più probabile di tutte le altre, perché riferisce dei particolari delle origini di Tarik. Stando a questa versione Tarik avrebbe ricevuto i precetti dell’Islam da suo padre Ziad e da suo nonno Abdullah. Questi era il primo nome islamico che si trova nell’albero genealogico di Tarik. Prima di questo ci sono altri nomi di antenati che sono nomi tipicamente berberi fino a Nefza che è la tribù a cui apparteneva Tarik Ben Ziad e che aveva occupato una vasta regione tra il fiume Maggerda e la pianura del Kairawan del Magrib orientale. Questa è l’intera genealogia di Tarik: Tarik Ben Ziad, Ben Abdullah, Ben Uelgu, Ben Uerfhum, Ben Nirgass, Ben Uelhas, Ben Yetometh, Ben Nefza. Così il nome del conquistator dell’Andalusia sarebbe Tarik Ben Ziad Ezzinati e non Tarik Ben Ziad Elleithi, appartenenza che gli fu attribuita solo dopo che fu andato via dall’Andalusia per governare qualche regione dell’Oriente); se non fosse stato per la poca conoscenza di Tarik questo disegno non sarebbe venuto artificiale, smorto mancante di animazione e perfino di sentimenti umani. Così il grande generale aveva un aspetto da automa, rigido; un aspetto .glaciale senza nessuna caratteristica umana. Chi guarda il disegno diventa scettico. Può pensare che Tarik sia una vittima della lotta fra le diverse tribù o ideologie, tant’è vero che l’artista non gli ha dato nessuna importanza perché era un bebero..Tuttavia queste accuse rimangono immaginarie perché Tarik ha ricevuto il posto più evidente nella miniatura. Era circondato da una nobile corte dei suoi collaboratori, e ognuno di loro aveva in mano qualcosa sia che si trattasse di stendardi, che di strumenti musicali di ogni tipo, di diverse forme e colori, gialli come quelle gru impiegate nel cantiere edile che si trovava di fronte alla sua finestra. In altre parole i cavalli della miniatura erano gialli di un giallo che contrastava con i colori usati per le persone, cioè Tarik ed il gruppo di generali davanti alla pianura di Sciarisch. Il gruppo di militari era di circa 10 persone, ivi compreso Tarik Ben Ziad, i suoi collaboratori, i percussionisti, i trombettieri e gli alfieri.
Gialli, dunque, erano quei cavalli in piedi dietro la baia dello stretto e che portavano i cavalieri all’avanguardia con il loro comandante (prima o dopo aver pronunciato il famoso discorso: Uomini! Dov’è la fuga? Il mare è dietro di voi ed il nemico è davanti.. E se poveri come siete vi riuscirà impossibile realizzare il vostro obiettivo, diventerete deboli e di conseguenza la paura del vostro nemico diventerà coraggio. Non lasciatevi arrivare a questa disperazione. Cercate piuttosto di uccidere quel tiranno. Ciò è possibile solo se accettate di morire. Il consiglio vale anche per me. Sto correndo con voi lo stesso rischio. Comincio da me stesso);
Il resto dei cavalli era però di colore granata e marrone. Anch’essi erano 10, tutti schierati sulla medesima linea, tranne il cavallo di un percussionista. Dietro il comandante c’erano 5 stendardi. Il primo: Uno stendardo grigio di stoffa su cui era scritto con lettere bianche in caratteri cufi il seguente versetto: Dì che Lui è Allah, Unico, Allah. Il resto delle parole era nascosto. Sarebbe stato facile intuire il resto del verso: Allah, il previdente. Non procrea e non è stato procreato e non c’è nessuno uguale a Lui.
Il secondo: Uno stendardo rosso su cui erano state ricamate queste due parole: ‘Allah’ e sotto questa ‘il più grande’. le due parole erano separate da una specie di asterisco a quattro punti (o curvo?).
Il terzo: Uno stendardo grigio pallido conteneva parecchie parole scritte in bianco, difficili da decifrare a causa della somiglianza dei colori (il grigio dello sfondo e il bianco smorto dei caratteri). Però era possibile a ben guardare scoprire la parola Allah nella terza riga e nella parte bassa dello stendardo dal lato ovest.
Il quarto: Uno stendardo di una stoffa nera su cui erano ricamate queste parole: Non c’è altro Dio che Allah. Tutto il resto della frase che poteva essere ‘Muhamed è il messaggero di Allah’ non era visibile a causa di un percussionista a cavallo posto più avanti e che nascondeva l’ultimo quarto dello stendardo.
Il quinto: Uno stendardo di una stoffa granata portava queste parole: Non c’è un altro Dio che Allah. Muhamed..., il resto della frase era anch’essa nascosta dalla testa di uno degli ufficiali che accompagnavano Tarik Ben Ziad (Elleithi?) Ezzenati. E’ facile però per lo spettatore completarla mentalmente con: è il messaggero di Allah.
Il sesto: Sulla sinistra della miniatura c’erano parecchi altri stendardi di colore e forme diverse, con le stoffe piegate forse a causa del soffio di venti violenti, perciò era impossibile la lettura degli slogan e dei versetti, oppure di alcuni brani dell’orazione (chissà?) e delle sue frasi: Ciò rendeva il discorso più stimolante prendendo questa forma: Dov’è la fuga + e se a voi, poveri come siete, vi riuscirà impossibile realizzare il vostro obiettivo, diventerete deboli + sto correndo lo stesso rischio + comincio da me stesso. Così per le altre espressioni di cui era zeppo questa orazione stupenda e che per noi è il più alto esempio dello stile retorico per le regole morali.
Il settimo: Ogni stendardo aveva una specie di treccia con fili di cotone folti, di forma conica e di colore rosa. Forse erano quelle che legavano gli stendardi.
Tarik tirò fuori da un cassetto della sua scrivania un giornale. Lesse:
...s’ecrive Sylvie Paule
...Defferle sur l’Algerie
...Gina Lollobrigida
in maniera automatica questi semititoli senza capirne il senso. Il giornale era vecchio, ingiallito. Provai a leggere queste frasi, purtroppo il giornale era piegato in due. Tarik capì dal mio sguardo insistente che io volevo leggere i titoli completi, ma fece finta di essere attirato piuttosto dalla splendida guida turistica. Mise il giornale sulla scrivania proprio nel modo in cui era prima. Poi mise la guida sopra. Così non riuscivo più a leggere se non una parte ancora minore dei tre titoli giganti:
....Ecrive Sylvie P...
.....Ferle sur l’Al...
....Gina Lollobrig...
Tarik disse, mentre cercavo ancora di leggere invano questi tre titoli stampati con grandi caratteri su quel giallo giornale:
“Perché non è possibile visitare una città straniera lontana come Gibilterra per una ragione narcisista? Ammesso che la tua ipotesi sia giusta, beninteso”.
Mentre i miei occhi scrutavano ancora il giornale risposi:
“Sei un cretino Tarik. Lo vuoi fare soltanto per la semplice ragione che hai lo stesso nome. Sei matto? Dov’è la forza del tuo temperamento e la fermezza della tua volontà? Non la smetti, dunque, di pregarmi perché ti accompagni a Gibilterra come Tarik Ben Ziad durante il suo attraversamento della baia dello stretto tramite le poche navi che Julien il goto aveva messo a sua disposizione, atteggiamento di vendetta contro Laerdick, il gevernatore dell’Andalusia e il capo dei goti. Tra i due uomini (Julien e Laerdrick) c’era una vecchia inimicizia, che alcuni storici tra cui Ben Kaldun hanno designato come ‘tradimento morale’: (Julien ce l’aveva con Laerdrick, il re dei Goti, governatore dell’Andalusia, aveva abusato di sua figlia nella sua casa, come era d’uso nei riguardi delle figlie dei loro patriarchi. Perciò egli si era indignato, aveva preso la figlia di Laudrick, aveva raggiunto Tarik e aveva deciso di collaborare alla sconfitta dei Goti. Tarik approfittò dell’occasione e della riva nord, attraversò il mare sulle navi del suo alleato Julien). Dunque, alla stessa maniera (ciò è pretenzioso da parte tua) di Tarik Ben Ziad vuoi visitare quella brutta città soltanto perché tuo padre ti ha dato lo stesso nome”.
Perfino lui rideva della situazione. Prese il giornale come se volesse punirmi perché rinunciavo ad accompagnarlo a Gibilterra.
“Così il mio amico e il socio della mia infanzia camminerebbe sulle tracce del conquistatore dell’Andalusia”.
Incalzai, però, provocante, insistente, ironizzando:
”Lasciamo stare quello sciaui ‘liberiamocene’. E’ meglio dimenticarlo”.
E lui:
“Sciaui? Che cosa hanno gli sciaui? E tu che cosa sei? Vergogna! Tarik sciaui, anche io lo sono. Che ne dici?”
Provai a ridere. Fui trattenuto non soltanto perché era una brava persona vittima di una mania a lui affibbiata da suo padre fin dalla nascita, senza che egli fosse capace di sbarazzarsene, di uscire da questa nevrosi leggera ma cronica, ma anche perché Ben Asciur aveva versato olio sul fuoco quando un giorno ci spaventò dicendo con orgoglio: “Parecchi storici sostengono che sia dubbio attribuire a Tarik quella famosa orazione”.
Tarik disse allora: “Lasciamo stare il tuo sciaui, questo scemo. Si espose ai rischi e ai pericoli perché aveva combattuto e vinto. Ma subito dopo Mussa, venne per rimproverarlo e arrestarlo”. “Ti dicevo che questo Tarik è uno sciaui scemo”.
Con sottile rabbia mi rispose:
“Vergogna, datemi un fucile26”.
Dissi: ”come vuoi...”
Aggiunsi: ”trent’anni sono passati da quella lezione di Ben Asciur, vuoi fare una nuova guerra per Tarik e convincere che è lui l’autore dell’orazione?”
”No, la guerra è finita. Sono rimaste solo le cose intime. Non puoi sbarazzarmi di questa mania a meno che io non vada in quella città - rispose - Non voglio fare il turista. Voglio soltanto guardarla con i miei occhi. So che è una brutta città; so anche che non c’è traccia araba. Ma sento il bisogno di annusare il profumo, malgrado il trascorrere dei giorni e dei secoli. Vieni con me Kamel?”
Smisi di ridere. Mi era caro quell’uomo che non era divenuto grande nonostante la sua età e non sapeva come sbarazzarsi della sua infanzia. Era geniale specie quando voleva avere qualcosa di cui sentiva il bisogno. Alzò il suo sguardo verso di me.
Dissi: ”Dammi questo giornale. Perché vuoi prenderlo e leggerlo in segreto? perché vuoi nasconderlo?”
” A condizione che tu venga con me”.
“D’accordo”.
Rise afferrando e dandomi la guida turistica. La presi e lessi: “Venite a Gibilterra. Visiten ustedes a Gibbraltar! Visitez Gibraltar! Visit the town of Gibraltar. Diedi un’occhiata alla copertina sontuosa, risplendente, dai mille colori. Una leggera nuvola passava dietro il vetro opposto alla poltrona su cui ero seduto. Misi la guida turistica sul tavolino e dissi: “E adesso dammi il giornale”. Di nuovo lo tirò fuori dal cassetto con cura e impegno come se si trattasse di un rarissimo e antichissimo manoscritto. Lo spiegò davanti a me tenendone le estremità con le mani.
Lessi: je n’ai pas tué Madame Perron s’écrie Sylvie Paul.
La vague terroriste deferle sur l’Algerie.
L’invité de la reina d’Angleterre: Gina Lollobrigida.
Per un momento il silenzio si impadronì di noi. A Tarik vennero le lacrime agli occhi. Rimasi frastornato. Chiesi:
”Hai conservato altri giornali?”. “Tutti. Ogni giorno ne prendo uno, lo metto nella tasca del mio completo. Una sorta di talismano. Non leggo che i titoli. Sono buffi ed è spiacevole”
. “Così hai continuato la tua guerra?”
“Si”
Poi di nuovo cademmo in un pesante silenzio.
Ricominciai:
“Allora sei andato all’ambasciata di sua maestà regina di Inghilterra, la medesima che ha ospitato nel suo castello l’attrice italiana Gina Lollobrigida, 30 anni fa, durante la guerra d’Algeria” ”Certo - rispose - ho portato la guida turistica di là. Invece il biglietto d’aereo l’ho comprato molti anni fa. Ogni anno lo cambio quando mi accorgo che è sul punto di scadere. Vieni con me a visitare il paese di Tarik!”
”La baia dello stretto”
”Li capirai”. Poi scoppiò in una risata senza motivo.
La vecchia e lugubre infermiera entrò. Le accennò di andar via prima di dirle qualcosa. Tarik fece due passi e si mise dietro di me, anzi dietro la poltrona di pelle su cui ero seduto. Vidi la sua ombra riflettersi sul vetro della finestra di fronte a me. Era un’ombra triste. Capii che il giorno era finito. Dopo un po’ vennero le parole avvolte nel buio. Non aveva ancora pensato ad accendere la lampada che era sulla scrivania. All’improvviso vidi una gru gialla che si muoveva da destra a sinistra lì dietro la finestra. Il suo colore era giallo.
...“Hai visto qualcosa che assomiglia a un castello arabo d’acqua?”
Non ho visto niente che gli assomigli poco o tanto. Non risposi alla sua domanda. Il calore dentro la macchina aumentò d’intensità. Disse come se parlasse a se stesso: “Vedo qualche albero, forse c’è acqua”: Guardai d’intorno. La collina opposta parve come il dosso di una gigantesca balena di colore grigio macchiata di marrone-granato. Di tanto in tanto ci apparivano di lontano alcuni paesini qua e là sparpagliati in fondo alla pianura. Quei villaggi erano colorati con una sorta di bianco sporco e opaco. All’orizzonte apparve una linea di colline sterili deserte. Un mucchio di rumori e di voci colpirono i nostri orecchi. Vedemmo bambini che correvano. Il luogo era grigio macchiato, privato di ogni erba. Il portiere, anzi il bambino che custodiva i pali era appoggiato su una delle sbarre e guardava i suoi amici che facevano pressione sull’altro portiere, il portiere avversario. Un piccolo gruppo di spettatori stava guardando la partita. Alcuni erano seduti per terra, altri erano in piedi e un gruppetto di tre bambini era sulle ginocchia, all’ombra di un lungo muro imbiancato di calce e su cui c’era scritto con giganteschi caratteri neri, come se stesse ordinando a tutti quelli che l’avrebbero letta di sottoscrivere senza discussione, questa pubblicità: Drinke Pepsicola! I caratteri erano più grandi dei bambini spettatori. Tarik rallentò. Poi all’improvviso un clamore collettivo si alzò verso il cielo. Alcuni spettatori alzarono le braccia. Il bambino che custodiva i pali lasciò trasparire una gioia intensa. Fece dei salti acrobatici e rotolò per terra come un rabbioso, gridando: Goal! Goal! Dissi: “Guarda che siamo in macchina su una strada non asfaltata. Sta attento al burrone... Pensa piuttosto a guidare, se no guai a noi”. Rispose ironicamente: ”Che cosa sai del cataclisma27? Però tenne fermo il volante e corresse l’andatura della macchina. Ci fermammo davanti a un piccolo caffè della campagna. Vidi un tavolino di lamiera e una sedia di legno. Ad uno dei clienti, seduti dentro e senza oltrepassare la soglia, Tarik chiese dove fosse l’antico castello d’acqua. Senza riuscire a distinguere le parole, sentii una voce chiara ed alta che gli rispondeva. Uscii di macchina anch’io. Il sudore mi aveva bagnato i vestiti e perfino i miei occhiali da sole che allora tolsi. Rimasi davanti al caffè dietro Tarik facendo girare velocemente gli occhiali che tenevo con un braccio. Diedi un’occhiata dentro il caffè sprofondato nel buio. Notai che alcuni clienti spiavano la conversazione tra Tarik e il barman. Quando guardò nella direzione di uno di loro questi fece finta di giocare a carte. Dissi: “Vieni? Che cosa ti ha detto?” “Niente...” egli rispose, “diceva soltanto che non c’è nessun reperto arabo qui in tutta la zona. Non dubitavo che la gente non voglia informarci. E’ un vile sciovinismo. Ti ho detto che loro odiano gli arabi”.
Gli risi in faccia. Salii in macchina. Tarik mi seguì. Salì anche lui. Guardò nella mia direzione. Capii che era nervoso a causa del calore, delle faccende e della grande emozione. Dopo breve tempo, dopo che la macchina ebbe ripreso la sua marcia, dissi:” I tuoi desideri si sono volatilizzati e le tue ferite sono diventate ancora più profonde!” Il sudore mi bagnava tutto il corpo. Mentre la macchina procedeva con più lentezza. Tarik aprì la finestra posteriore dal mio lato. Entrò un’aria viscosa, insipida, pesante, aspra. Chiuse subito la finestra. Non c’era in vista altra strada che quella che stavamo percorrendo. Tarik guidava con cautela fissando la via che era una specie di filo bianco lustro a causa della polvere deposta e così pure del calore.
Dopo qualche chilometro, sorsero, non si sa da dove, alcune case di campagna. Dietro c’era un piccolo campo di tabacco. le case erano costruite con mattoni rossi dipinti in blu di Nilo. Tarik fermò la macchina sul bordo della strada, accanto al campo. Il bambino uscì “ex nihilo”! Si avvicinò alla macchina. Mise la sua mano sui montanti della portiera, presso le braccia di Tarik e disse: ”state cercando il laghetto arabo? Do you look after the arabian tank? Avete sbagliato. E’ dietro di voi. accennò colla mano verso le montagne nebbiose per la canicola. Dissi: “Parli inglese?” Fece una risata vibrante e scappò via. Un uomo venne trascinando i suoi passi. Una gallina lo raggiunse. Aveva il collo spiumato. L’uomo la scalciò e quella scappò via precipitosamente. Tarik gli chiese. Egli disse: ”No, No”. Dissi: ”non si può continuare senza una guida”. L’aria nella macchina era insopportabile. Tarik disse: “E’ un braciere, anzi un fuoco. Si direbbe che le porte dell’inferno si siano spalancate!” Dissi: ”In che giorno preciso Tarik Ben Ziad conquistò questo monte?” Mi rispose: ”Lunedì 5 Rageb 92 dell’Egira che corrisponde al 27 Aprile 711 d.C.” Fu fortunato altrimenti sarebbe morto martirizzato dalla canicola.. se fosse venuto nell’estate avrebbe fallito e sarebbe ritornato vinto...Fu sicuramente fortunato avendo scelto la primavera per la sua impresa.

CAPITOLO V

Il nostro insegnante ci disse, fingendo di non sapere della nostra delusione, della nostra ira e della nostra volontà di contestazione: “Le opinioni degli storici divergono per quanto riguarda i motivi per cui Mussa Ben Nusseir aveva ordinato a Tarik di fermare la sua marcia. Si dice che Mussa non si aspettasse una simile vittoria da parte del suo generale ed emissario berbero. Quando se ne accorse la sua meraviglia si trasformò in invidia e gelosia. (Nel 92 dell’Egira Tarik attraversò il mare con l’assenso del suo comandante Mussa Ben Nusseir, con un’armata di 300 arabi circa a cui aveva aggiunto altri 10000 berberi trasformatisi per la circostanza in soldati. Una parte accamparono sul monte della conquista divenuta più tardi “Gebel Tarik”, e l’altra in un luogo che prese il nome di Tarif Ben Malik Ennak’i. Per proteggersi costruirono delle fortificazioni e delle mura. Appena la notizia gli arrivò, Laerdrik mobilitò un esercito di 40000 uomini fra cristiani e pagani. Essi si scontrarono nella pianura di Sciarisch. Laerdrik perse la battaglia. I mussulmani si impadronirono degli infedeli e dei loro beni. Tarik Ben Ziad scrisse a Mussa rendendogli conto della vittoria e delle prede di guerra. Geloso questi....) Temeva che una tale vittoria fosse attribuita solo a Tarik; allora scrisse di non muoversi fino a che non l’avesse raggiunto minacciandolo di punirlo se avesse fatto un passo più avanti. Alcuni dicono che l’ira di Mussa nei confronti di Tarik e della sua fretta nel raggiungerlo fosse dovuto al fatto che Tarik avesse trasgredito gli ordini ricevuti dal suo superiore, che gli aveva ordinato di non oltrepassare Cordoba, cioè quella zona nella quale la sconfitta dei goti era inevitabile (imminente). Questo punto di vista è ragionevole e logico perché è in accordo con il carattere scrupoloso e cauto di Mussa. In questo caso egli pensava che i mussulmani avrebbero potuto soccombere se si fossero introdotti in territori e sentieri sconosciuti. Tuttavia questa spiegazione non ci impedisce di considerare il fatto che nei comportamenti e nell’animo di Mussa ci fosse dell’orgoglio. Comunque Mussa attraversò il mare per andare in Andalusia con un esercito di 10000 arabi e 8000 berberi, adoperando navi costruite proprio per quello scopo. Era stato mosso dalla bramosia della conquista nonostante la vecchiaia e la sua obesità che gli generavano pene e sofferenze acute. (C’è qualche legame fra l’obesità di Mussa Ben Nusseir e l’ammasso di grasso che mi ha preso alla fine dell’infanzia e all’inizio dell’adolescenza, di cui ho sofferto molto e che ha complicato di più i miei complessi?). Sbarcò nella provincia dell’Isola dove l’accolse Julien e ciò avvenne nel mese di Ramadan del 93. Mussa cominciò la sua avanzata con la conquista della città di “Scedduna”, poi marciò su “Kermuna”allora una delle più grandi fortezze dell’Andalusia. La prese dopo averla assediata per un mese intero, con l’aiuto di Julien e dei suoi. Poi si diresse verso Siviglia, la più grande base dell’Andalusia. La sua conquista avvenne con grande facilità. Marciò in seguito su “Marada”. L’assediò per lungo tempo. Numerosissimi furono i mussulmani che rimasero uccisi a causa di un’imboscata che i cristiani tesero loro. La città cadde lo stesso nel mese di Ramadan o Schual del 94. Si era convenuto che i beni dei fuggiti e delle Chiese andassero ai mussulmani come compenso delle loro perdite. Poi venne il turno di Toledo. Mentre vi si dirigeva Mussa incontrò Tarik vicino alla città. Questi era venuto per accoglierlo (Tarik Bem Ziad accolse Mussa Ben Nusseir. Si mise ai suoi ordini e lo seguì. Mussa continuò la sua conquista arrivando fino a Barcellona ad Est , ad Arabona nel territorio Franco e a Sanam Kades nella parte occidentale. Conquistò parecchi territori dell’Andalusia e prese moltissimi bottini..), ma Mussa lo rimproverò ed esagerò nell’umiliarlo. Lo mise in carcere, lo fece incatenare accusandolo di ribellione. Si dice pure che Mussa fosse sul punto di ucciderlo, ma si trattenne e finì per perdonarlo e restituirgli il posto di comando che aveva in precedenza. Entrambi concepirono un piano di conquista di ciò che rimaneva dell’Andalusia. Così presero Barcellona e le altre città e fortezze. I due conquistatori si separarono e Tarik marciò verso l’est per finire la resistenza dei franchi. Prese “Karkasciuna” ed “Arabona”.
Mio padre scoprì questa lezione di storia che l’insegnante Ben Asciur aveva fatto. Si arrabbiò molto. Si mise a distruggere ogni argomento e a leggere i libri di storia di diversi autori come il “Biladri” “Ibn Abdel Hakem”, “Ibn el Athir” e “Ibn Kaldun”. Ma le diverse contraddizioni che esistevano da una versione all’altra aumentavano la sua rabbia. Volle incontrare l’insegnante di storia. Questi rifiutò. Ciò afflisse mio padre per lunghe settimane. Per uscire fuori da questa sofferenza non trovò di meglio che sequestrare quel maledetto quaderno, che io non sono riuscito a riavere più. Ogniqualvolta chiedevo a mio padre di darmelo mi rispondeva d’averlo perso, anche quando sono diventato adulto. Ogni tanto sento una voglia irresistibile di rileggere queste lezioni sulla personalità di Tarik Ben Ziad, rinfrescare gli avvenimenti della sua conquista dell’Andalusia, sul famoso discorso e la sua attribuzione, sul rapporto tra Tarik e Mussa, sulla gelosia di ben Nusseir nei riguardi Ben Ziad, sulla storia dell’incarcerazione di Tarik, sulla leggenda delle navi, che alcuni storici dicono che Tarik avrebbe bruciato prima della conquista dell’Andalusia, mentre stava per sferrare nella famosa battaglia dello Stretto un attacco contro Laerdrik, il Goto con l’aiuto di Julien il generale pagano.

“Scandalizzai con la paura di uno scritto che nascondeva i suoi segreti come foglie appassite. Attaccai la gente.
Kamel, adesso tu sei tra le mie mani. Non puoi sfuggire dal mio risentimento né dal mio terrore. Desidero o meglio mi è necessaria una scossa che infranga una futile retorica e una storia sclerotica, per distruggere il deposito linguistico. La mia magnanima violenza l’ho imparata il giorno in cui mio padre mi rubò il quaderno, lasciandomi da solo a portare questo pesante nome di Tarik. Quante voci da quel tempo si sono alzate sulla mia spina dorsale e si sono arrampicate verso i sentieri dell’inconscio pronte ad uscire sulla lingua del popolo!. Egli diceva : Ezref, ezref. Correvo dietro ai vocabolari Chiedevo a Ibn Mendhor, alla sua “lingua araba”. Quante sofferenze questi ha avuto non a causa dell’obesità come è capitato a Ibn Nusseir, ma a causa della cretinità dei califfi e dei loro lacchè, dell’ignoranza dei linguisti e dei falsi dotti religiosi. Egli trasportava tonnellate di manoscritti su un alto cammello, preso in locazione, da Alessandria d’Egitto fino a Bagdad, diffondendo questa lingua araba, mentre il mondo che lo circondava non si accorgeva di niente e non si curava di niente. Correvo dietro ai vocabolari. Chiedevo soccorso a Ibn Mandhor l’africano. Trovai che la parola ‘zarafa’ significava saltare, avvicinarsi e intrufolarsi. Zarafa nel parlare vuol dire aggiungere alle parole altre parole.
Mia madre diceva Ezref, i soldati sono arrivati, cuore mio. La paura si erse sotto le ascelle di mia madre, accompagnando la mia rabbia. Sciams Eddin, mio cugino era con me. Il mio socio era tormentato dai tribunali militare. Lo arrestarono nel paesino di “Manaa”. Egli sputò sull’ufficiale. Proferì parole di sangue. Chiese gessi gialli. Ne annusò qualche bastone. Gettò l’abito del sonno tra le sue palpebre. Il giorno prima gli aveva parlato suo padre. L’argomento riguardava ciò che mio padre “l’eterno assente” gli aveva detto. L’ufficiale disse: “Mais il est dingue!”
Mio padre diceva “Questo è il tuo precettore”. Lo vidi avvicinarsi mentre soffiava sulla tavoletta di legno bagnata d’inchiostro. Mi stese il tappeto. Mi modellò le mani con la risonanza della parola e il gemito della guerra. Era la guerra- “Dov’è la mia fanciullezza? Si è nascosta. E come? -Raccontavo - Mi accompagnò nell’oscurità fino alla posta della scuola del Corano. Entrai nella sala inferiore. Nel cortile c’era la luce. Piansi quando seppi che il mio compagno e cugino, prigioniero aveva annusato il gesso giallo e vomitato sangue purpureo. La luce scendeva obliqua sulle falangi e il mio robone mi copriva le ginocchia. Lo vidi mentre sceglieva una penna per me. Disse: “Scrivi: E quando chiedono a proposito delle mestruazioni, dì che è un male”. Risposi: ”Non scrivo”. E lui: ”scrivi: Allontanatevi dalle donne nelle mestruazioni e non avvicinatevi finché non sono pure. Ripetei :”No, no. Mia mamma è pura: Immacolata è mia mamma”. E lui: “scrivi: Quando si purificano possedetele da dove Dio vi ha comandato
dissi: “No”, no. Mia madre non ha niente da rimproverarsi”. Mi schiaffeggiò. Mio padre disse: ”figlio di puttana”. Il nostro sceicco disse: “Metti avanti i tuoi piedi”. Li alzai . Il primo bambino li legò colla corda della falaka”, mentre il secondo li manteneva afferrando forte le mie caviglie. Il maestro picchiava forte. Mio papà disse: “Non rendermi conto che con la pelle, le ossa e il sangue” Il sangue scorreva. Io continuavo a dire: “No, mia mamma è pura, non ha niente di sgradevole. Il profumo delle sue ascelle è lo steso profumo delle rose custodite per mesi e mesi nel flacone di acqua di zemzem che ha portato mio nonno”. Il pollice del piede vibrava per i colpi del bastone, per causa di quelle parole. Non volevo infastidire mia mamma.
In un crepuscolo, color melanzano, l’orizzonte come la biglia del montone dell’AID28, verdastro, si tinteggiò di un azzurro d’acciaio difficile a localizzarlo nella sua gamma dei sette colori dell’arcobaleno. Lei alzò le braccia verso la corda distesa. annusai le sue ascelle a sua insaputa, trovai in esse il profumo di mio nonno attraverso l’acqua di rosa mischiata per lunghi tempi a quella di zemzem portata da lui da dove glielo aveva ordinato Dio, e a un po’ di olio di olivo, il frutto del quale è andato via dalla morte di quel comunista.
Il maestro della scuola del Corano continuava a ripetere anche dopo avermi ferito: “Scrivi”. Rinunciai. Il mio robone coprì i miei piedi. Costrinsi me stesso a camminare nonostante il dolore. I bambini ridevano perché erano sottomessi e servili rispetto all’insegnante. “Babba smina, mangiatore di tannina, Botti, Bud Abbot”.
E mio padre che comandava su di noi e possedeva il sigillo che chiudeva le casse degli agrumi esportate in tutti i paesi del mondo, ivi compreso Gibilterra, “Dunque mi renderai conto con la pelle, le ossa e il sangue - Diceva Abu Firas - Questo è il mio sangue l’ho riconosciuto sulle tue guance. Non ho dimenticato la nostalgia per le dita superiori e inferiori e per l’altra voluttà sulle mie 32 falangi e sulle narici c’era il sapore dell’acqua di rosa le cui foglie nuotavano in un’acqua di zemzem, portato dal padre di mia mamma, il povero ferroviere. Lo vedevo vendere i giornali clandestini del partito e distribuire sui treni i suoi opuscoli vietati. C’era la guerra. E il partito era nella clandestinità. In tutte le parti del paese diffondeva la letteratura del partito. Portò l’acqua di zemzem in un piccolo e piatto flacone. Disse: ”Quest’acqua è una benedizione. Una benedizione per tutti i poveri della terra”. Lei vi aggiunse foglie di rosa e l’ha custodita per tutta la sua vita. E l’altra voluttà sulle mie narici col suo gusto profumato, sulle mie ciglia. Col suo aspetto incrostato mia mamma era pura. Pulite erano anche le sue ascelle, depilate grazie alla pasta di aceto. Mi diceva:” Sta tranquillo, anche se tuo nonno comunista fosse ancora vivo, ti avrebbe punito ugualmente. Questo è il tuo maestro, il maestro del Corano”. Tra la meraviglia e l’incanto dimenticai le mie dita. Vidi mia mamma nel fondo del giardino che alzava le braccia verso la corda del bucato. Le tracce dei suoi peli di carbone rasati disegnavano righe parallele come le linee della ferrovia che suo padre curava ogni giorno dall’alba al tramonto. Le tracce oscure dei suoi peli erano ancora sulla sua pelle. In quel giorno ero arrabbiato. I bambini ridevano; scandivano: ”O smina, Babba agina, mangiatore di Tammina, o botti, totti”. Dimenticai le mie dita mentre mi recavo alla scuola del Corano fra lo stupore, l’inganno e l’eresia. “Perché uccisero Ibn el Mukaffa, e El Hallaj? Perchè Moussa umiliò Tarik e l’incarcerò? Perché la storia ha inventato questo discorso che i bambini imparano a scuola e da cui si sono ispirati i politici, ma che non è attribuibile a Tarik, quel berbero, quel zinati?” Mio padre rubandomi il quaderno di storia, aumentò il sospetto della falsificazione. Poi mia madre era pura. In quel giorno la mia rabbia sembrava uscire dai vestiboli di febbre, di menzogna, di ipocrisia, di irrazionalità. Come faceva a capire, lei la sublime, la pura il lapsus di lingua o il lapsus dei maschi?
Io, lo scacciato dalle soglie della scuola del Corano, lei mi medicava le dita colle foglie di gelso, che prendevamo come cibo per i nostri bachi addomesticati. I bachi da seta mi facevano scoprire meraviglie stupende nel desiderio delle regioni che non ho ancora finito di scoprire. Le acque del Rimel bollivano per le teste vigliaccamente decapitate. La terra si era arrotondata. I soldati arrivarono, rastrellarono il territorio palmo a palmo. Costruirono guarnigioni sulle montagne e le colline. Le riempirono di armi e munizioni generando spavento e terrore. Me la ricordo ancora quella città che preparò mia mamma dopo la morte, mentre dall’altra parte venne un clamore nella notte in cui fu arrestato Sciams Eddin. Questi diceva: “come si fa a contrarre la malattia della paura? La voglio o la temerità mi ucciderà”. Che cosa stavano leggendo questi uomini su questa morta, sulla sua tomba?” Il cadavere, appeso, sulla fossa di questa morta che hanno buttato nel fondo della tomba, come si buttasse un secchio d’acqua. Sulla superficie dell’acqua apparvero le foglie di rosa. Me la ricordo ancora. Le rive del Rimel, quelle rive sinuose fra sentieri di facile o di difficile approdo. Dunque me le ricordo ancora, nel colmo della fanciullezza e nello scorrere dei mesi. Oggi ne ho abbastanza delle sue tombe e delle sue pressioni, ed i suoi incubi si sono moltiplicati. Lei andava da una casa all’altra, quando gli invasori erano venuti per umiliarci. Allora avvennero da ogni parte delle sparatorie. I contendenti erano separati da 2 trincee e dietro di loro c’erano 2 mari. “O uomini dov’è la fuga? Il mare è dietro di voi”
Dal nostro Magreb era sceso un uomo col velo. Il suo nome ha riempito i libri di storia e le manie del padre. Mi chiamò Tarik. Questo nome mi faceva tremare. Gli intrecci della storia erano col suo peso da merci falsi, ingannati. Il discorso era suo o no? Era uno Zenati o Hamadani? Mussa era geloso come lo era Suleiman Ben Abdelmalik geloso di Mussa stesso? Mio padre sequestrò i quaderni, quello di storia, quello della traduzione, quello di matematica X3+3X2-3X-1=0, e quello di latino da cui l’insegnante ricavava il pacifismo.
Era la guerra. Disse traduci. Ho tradotto: ”Laudate pueri nulla in mundo pax sincera in furore” “Laudate puri nulla =siate contenti bambini, non è pace sincera quella fatta sull’ira. Lo vidi quel bambino. La città era adirata. C’erano manifestazioni. Le donne uscirono. Fu una cosa straordinaria. Tinteggiarono la sera coi loro veli neri. Era la guerra. Mia madre prese uno striscione comunista, che aveva conservato dopo la morte di mio nonno. La gente glielo rimproverò, ma a lei non importò nulla. La legione straniera pensava che dal cielo stesse piovendo corvi sulla città. I traditori, i vigliacchi pensavano che fossero uccelli di “Ababil”29 , così come gli sceicchi e i giudici e lo zio Hussein che non lasciava mai perdere un’occasione per picchiarci e rimproverare le donne. Mia madre resistette. Rifiutò di mettere giù il suo stendardo. Un fidai30 venne da lei, un mio cugino che prima lavorava nel negozio di mio padre. Trascorreva tutta la sua giornata a mettere il timbro sul legno delle casse di agrumi da esportare in tutti i paesi del mondo ivi compreso Gibilterra il cui nome originario era stato snaturato, cosa che non faceva arrabbiare il padre e non lo scandalizzava perché aveva imparato a ben distinguere tra storia e commercio. Mia madre rifiutò di buttare giù il rosso stendardo. E chi può smentire che i resti di mi madre si siano dispersi nella fossa e la sua pelle diafana sia andata nella sua acqua marcia, dopo aver consacrata la sua vita a custodire un piccolo flacone di acqua di zenzem, a cui aveva aggiunto foglie di rose e qualche goccia di olio del vecchio e trascurato olivo che si trovava nel fondo del giardino e che nessuno dopo la morte di suo padre aveva potato? Era la guerra. La distruzione del magazzino linguistico. Kamel, il vanto e l’ostentazione. Vantarsi è una pura parola araba. E’ morta solo perché usata nella parlata dialettale. Ha il significato di inorgoglirsi, ostentare, aggredire. Dunque l’orgoglio e l’ostentazione. Kamel disse: “ hai fatto nascere la paura di una scrittura che ha nascosto i suoi propri segreti con foglie appassite. Si veda la ‘lingua degli arabi’ e la biografia d’Ibn Mandhor, il suo autore. Egli affittò un cammello per trasportare ogni volume da Alessandria a Baghdad e a Kufa: La portata intera di un cammello bastava per un volume! “Chi lo sa questo?” disse Kamel e gridò con fervore che Mandhor non aveva sosta che nella distruzione della mediocrità della retorica e della rigidezza e idiozia della storia.. “Dì ancora che questa parola non è araba!” Kamel disse “Ci vuole la distruzione di questo magazzino linguistico. Hanno messo le parole nei vocabolari e le hanno trascurate come ha dimenticato mio padre il quaderno della storia quand’ha capito che il discorso si Tarik non era suo, così come fece col quaderno delle traduzioni dal latino. L’insegnante ripeteva: ”Morite sapienti, non ignoranti ragazzi”: “Siate contenti bambini, non c’è pace sincera che possa durare se il suo patto viene concluso con animi pieni di rabbia e furore”. “Benissimo. sarà eseguito”! “Nulla pax sincera in furore” E c’era la guerra.

Fin dall’inizio Sciams Eddin poté appagare la sua fierezza costringendo i soldati a rispettarlo. Non doveva permettere loro di trattarlo con insulti razzistici e umiliarlo. Sembrava più calmo di loro. Guardava la vecchia lavagna. Sentiva una nostalgia per il gesso giallo e per il pavimento della terrazza che era coperta di slogan con la compagnia di suo cugino Tarik: ”Abat la Franse”. Tarik disse che la parola Abas si scrive con la “s” , non con la “t”. Lui non volle capire. Scommisero: Infine ricorsero al vocabolario. Sciams Eddin non si vergognò. Disse: “Tu sai ogni cosa”. Dunque poté appagare la sua fierezza dopo essere stato arrestato e essere condotto in uno dei centri di tortura, legate le sue “zampe” con una corda annodata al suo collo. Egli si barricò semplicemente. Notò che la macchina da scrivere era antichissima e che era di marca “Remington”, e che suo zio ne aveva un gran numero nel negozio d’importazione ed esportazione. Intuì la marca della macchina senza averla guardata. La riconobbe dal rumore del ferro e nient’altro. I soldati non osavano parlare. L’ufficiale che presiedeva non lo permetteva. L’unica risposta fin da quando gli chiesero di riconoscere che aveva partecipato all’uccisione dei soldati appartenenti alla legione straniera fu: “L’accusa è una favola”. Ripete le stesse parole per molti giorni senza cambiare una virgola e ciò con una voce monotona e collo stesso ritmo delle parole.
L’ufficiale faceva il possibile per evitare lo sguardo di Sciams Eddin, quello sguardo sereno che esprimeva molte cose, perfino il suo disprezzo. Durante le torture Sciams Eddin disse: “Non sono morto per gli schiaffi di mio padre, non morirò a causa delle vostre torture. I soldati non sapevano cosa fare con lui. Dopo moltissimi giorni di colpi, torture, di maltrattamenti, di umiliazioni, chiese dei gessi. Glieli portarono. Disse: ”Voglio gesso giallo, non bianco”: Soddisfecero il suo desiderio. Si mise ad annusare uno ad uno i bastoncini di gesso. L’ufficiale disse: “Je vais te la mettre au cul”. Lui rimase imperturbabile. Il carnefice vantava la scientificità dei suoi metodi per fare parlare i militanti. Questa volta non ci riusciva. Dopo che i soldati ebbero fallito nel farlo parlare e a fargli riconoscere la sua corresponsabilità nell’uccisione dei 5 soldati, Sciams Eddin ebbe l’impressione d’essere stato forte come la struttura architettonica della città in cui era cresciuto e in cui aveva fatto quella difficile operazione patriottica, in compagnia di alcuni coetanei senza l’autorizzazione dei responsabili del fronte.
La conosceva benissimo perché vi girava sempre, a volte entrava perfino nelle zone proibite agli arabi.
La città europea lo affascinava tanto, coi suoi lussuosi palazzi sul punto di cadere, colle sue vie disegnate in una maniera anarchica, coi suoi vicoli animati dalla folla, dai cani e dalle macchina. Mentre passeggiava tra di loro sentiva l’esilio e la estraneità, specie di quella gente che vi viveva. Quella gente che sprofondava nella flemma e nel freddo, che quasi quasi aveva smesso di far rumore che si copriva di vestiti di cotone e che era diventata così densa attraverso le vetrine di lusso e la merce ammassata, tra i passanti che svolgevano in modo meccanico, putrefatti, oppure in gruppetti, ordinati come se fossero gelati negli stampi di ferro o di cemento armato, oppure gelati dentro il ghiaccio dei loro occhi bluastri, nebbiosi, mentre i loro movimenti si erano contratti ed essi si erano chiusi in se stessi senza nessun sorriso che venisse da loro, come ci fosse una forza schiacciante che li facesse muovere in maniera automatica. Movimento che era raffigurato dal gigantismo degli edifici, grande massa della cattedrale e dalle figure geometriche che si imponevano. Movimento che pure si immergeva in una luce scialba, malgrado la luce elettrica sembrasse non avesse energia sufficiente da dare luminosità ai lampioni e da mettere un po’ di vita nei cuori degli uomini e donne legati fra di loro, e da illuminare infine quelle zone d’ombra complesse delle strutture di cemento armato, di vetro, di acciaio, di ferro.
Pensava che lo stupore non avesse nessun senso; cioè ha sempre pensato che la gente venuta per invadere il suo paese non fosse costruttiva, non avesse quella volontà possente di dominare lo spazio, aprirlo, spiegarlo nella illimitata distanza. Tuttavia non si aspettava questo genere di movimento e di turbolenza su cui cadeva il suo sguardo in quella compatta e fitta folla, all’ora dell’uscita dagli uffici, di chiusura dei negozi e a quella della discesa dai treni pieni fino a scoppiare a cui non bastava attraversare lo spazio coi fili elettrici lanciati come dei lampi, ma che producevano, a causa di vecchi ferri, un rumore che spezzava il silenzio in cui si bagnava la gente mentre passava per le strade e che modellava la propria vita secondo rigidi tempi di isolamento. Era anche convinto che fosse capace di sistemarsi in quella parte della città e di seminarvi il terrore, ma...
Non nascondeva a se stesso quest’ovvietà, cioè non sarebbe mai riuscito a diventare un “Fidai” se fosse rimasto accanto a suo padre, quel vigliacco uomo, timoroso che si era arreso agli ordini degli stranieri.
Camminava nella città tra la folla di donne e uomini stanchi dagli occhi che fuoriuscivano, schiacciati da grandi massi di pietra incisa, scabra, dei quali si erano occupate parecchie mani umane, logorate a causa dei grandi lavori e della conquista di quelli che si erano ostinati a fare del mondo una vastissima cattedrale la cui vistosa architettura avrebbe giocato il ruolo di una fede da non trasgredire.
Sciams Eddin si accorgeva dell’aria esterna ondeggiante, tremolante a causa del calore del sole, il cui irraggiamento più che mai era sentito dai sensi per questa nudità improvvisa, quest’inaspettato squilibrio e dell’instabile fissità, anzi soprattutto per il silenzio che sommergeva in un colpo quei palazzoni enormi costruiti sotto forma di un cerchio steso, davanti e di dietro deserti, sinuosi e che si inseguivano in una sorta di piccole onde, spaziali che non sapevano né come, né quando l’una raggiungesse l’altra. I tratti di quest’architettura, fatti di cemento armato non erano chiari anch’essi. Anzi facevano danzare i limiti delle aperture come se fossero sgorgati dalla pietra raggiante con i suoi vetri prominenti simili a un cassetto rimasto aperto. Sciams Eddin notò, attraverso quei vetri, visi storti a causa della concavità del vetro, magari deboli come fossero spettri sul bordo di un precipizio. Tutto questo spettacolo si mise a danzare nell’aria compatta su cui si erano improntati i colori nella medesima maniera con cui si improntano in un sogno diurno, silenzioso che gli rammentava i pomeriggi del suo quartiere dove aveva l’abitudine di trascorrere il suo tempo a giocare a Domino e a Dama, in una tana di uno dei commercianti di cannella, di carne e di grasso di agnello asciugato e seccato - Ciò aveva lo stesso cattivo odore con cui puzzavano le persone piene di sudore, sommerse nel loro sale! - su delle corde che determinavano i limiti di quel piccolo negozio. Questi intrecci erano molto complessi a causa dei fili irrigiditi, incrociati, infiltrati nello spazio ombroso che invadeva l’orizzonte pari a un palo di una debole nave preda di un vento al largo. Poi gli interstizi e gli spettacoli si chiusero. Tutto si macchiò di giallo, il giallo del grasso. In effetti annebbiarono gli occhi dei giocatori di domino, ai quali non era più possibile vagare con le loro immagini e concentrarsi sul gioco. Adesso che era lontano quel tempo in cui prendeva posto su una sedia nel bar, mentre la mano sinistra a forza di premere sul coltello che teneva nascosto, s’intorpidiva, si chiedeva se quell’intreccio di corde di canapa e quel modo unico in cui erano sistemati i pezzi di grasso salato, non fossero che una strategia per vedere il nemico mentre si avvicinava da lontano o l’intruso estraneo in una divisa di gendarme o di poliziotto o di bidello. Tutto ciò lo costringeva a fare quella passeggiata rituale, nel tempo che l’aveva condotto da bambino, dal quartiere arabo dove abitava al quartiere europeo a lui vietato; specie lo schermo su cui si imprimono i ricordi è una sorta di spina piantata dai passanti con quel fischio simile al rumore che fa una stoffa pesante quando la si strappa progressivamente. E l’immagine si moltiplicava e diversificava, appariva e scompariva per riapparire secondo gli archi, le inclinazioni, le gradazioni, le curve e i limiti e se ne impadroniva proprio. Aveva passato molto tempo nel bar vagheggiandosi coi suoi occhi ove concluse che non valesse più la pena di rimanere cosciente della presenza accanto a lui degli altri passeggeri che stavano già viaggiando sull’ebbrezza e l’euforia o che si erano sprofondati nel balbettare, e ciascuno di loro si era racchiuso nel complesso del suo ego. Ciò lo infastidì. Sentì violenti colpi nel suo petto, più regolari dei battiti del suo cuore, nascosti sotto la sua pelle tramite pulsazioni appena percepibili. I suoi contratti e complicati muscoli erano legati ai diversi strati dell’ansia. Aveva già conosciuto la ragione per cui era venuto in questa parte della città, in cui non aveva niente da fare, questa parte in cui aveva rischiato la vita e quella degli altri perché era al corrente delle persecuzioni avvenute fin dallo scoppio della rivoluzione, dei cadaveri gettati nel fiume Rimel, delle pallottole sparate sui poveri quartieri, delle aggressioni mortali e perpetuate contro i suoi compatrioti da alcuni opportunisti che li davano ai loro carnefici in scambio di viltà e cupidità, giacché quei carnefici erano velocissimi nel tirare fuori le loro armi a fuoco e altre armi di dissuasione, martelli, manette, coltelli; perciò si lanciavano con rara barbarie a colpire istantaneamente con una mancanza di pietà che distruggeva i nervi, stritolava le ossa e copriva la pelle di ferite da cui colava il sangue quando i colpi tagliavano le arterie. Il sangue scorreva in un vene azzurre, facendo dei loro corpi sformati, bruciati, sprofondati, sepolti nei cimiteri di macchine simili ai cadaveri spugnosi pieni di pori da cui penetrava l’ansia ammassata fin da quando avevano messo piede sul pavimento di questo bar. Però aveva preso tutte le sue precauzioni ed era pronto non soltanto a difendere la sua pelle, ma ad uccidere tutti coloro che non volevano mettere in dubbio l’esistenza del nemico, anzi la sua identità stessa e la sua essenza. Non aveva voglia , neppure di delimitare il posto dell’immagine mentale (lo scrivere gli slogans con la compagnia di Tarik, suo cugino e socio di fanciullezza, sulla terrazza di casa). Tuttavia ciò non gli impediva d’aver paura e di sentire che i suoi occhi si strizzavano nel confrontarsi con quel lampo straordinario del treno storico che si infilava nelle gallerie, scavalcava precipizi, per scendere verso la pianura sudando con sudore viscoso, salato che gli colava sui magri fianchi sotto forma di fili trasparenti, che finivano nella fossa dei reni. Era al corrente dello iatus che avvenne nel suo corpo a causa della sua lettura dei giornali, “Nous sommes ici en terre francaise et nous allons le montrer”, dei pezzi di frase, del lutto ininterrotto, delle bare sigillate, dei titoli tendenziosi. “Une bande de hors-la loi aneantie”. Di là era pronto ad ogni novità, cauto preparato a essere il primo a dare colpi anziché riceverne, pronto a rispondere ad ogni colpo ricevuto. Anzi era pronto a prendere le iniziative anche a costo di lasciarci la testa. Sciams Eddin aveva paura di tutte le mescolanze e di tutte le misture sia intrecci e interferenze che raduni e ammucchiate varie provocate da un fenomeno storico unico unificato. Fenomeno che lo superava ovviamente e di cui era tuttavia cosciente - a causa della sua piccola età - anche se questo genere di coscienza era equivoco, scuro sapendo istintivamente che il segreto della estraneità dall’ambiente sociale e degli eventi che avevano fatto di lui nient’altro che uno fra i fattori potenziali , consisteva in quella solidarietà intelligente tra gli esseri, gli eventi, e gli elementi e finiva in quella rete luminosa implacabile che si chiama STORIA. E la tortura andava avanti.

Gialla, grigia e di nuovo gialla. La gru si lanciò come una freccia fissa, grattando con la sua superiore la volta azzurra del cielo. anzi batteva la sua strada alla guisa di una nave spaccando le onde. Invero si trattava soltanto del tessuto celeste, come se lo stesse confezionando in forme e colori diversi e spezzandolo in vari tipi. La gru con la sua ala automaticamente mobile trascorreva lo spazio. Passava davanti all’appiattito disco solare mentre egli intuiva che c’era un altro organo, fisso, inerte, legato impiantato nella terra solo che non riusciva a vederlo dal suo ufficio. La parte mobile disegnava, quasi, un’ombra definitiva sul vetro della finestra chiusa che giocava il ruolo di filtro gigante tra l’occhio e il sole. Allora si radunavano alcune briciole di leggera oscurità sul suo viso. Ciò lo faceva sentire come se qualcuno stesse passando una stoffa di velluto sul suo viso. L’apparecchio anzi la sua parte mobile veniva verso di lui . Gli sembrava che stesse per urtare il vetro distruggendolo e introducendo inesorabilmente il suo asse dentro la sala delle visite. Ovviamente niente di tutto ciò era successo malgrado l’apparecchio continuasse nel suo movimento ininterrotto a trascorrere tutto lo spazio dopo aver spezzato secondo la legge geometrica e la scala del suono che l’isolamento della materia di vetro rendeva quasi totale.
Gialla.. E quando l’occhio veniva chiuso diventava nera. I movimenti andavano adesso su un ritmo successivo che superava se stesso, eccezion fatta per quel mormorio causato dalla stessa aria esterna. Mormorio che invero non arrivava agli orecchi dell’individuo seduto dietro la scrivania opposta alla finestra attraverso cui non si poteva vedere nient’altro che l’organo dell’apparecchio giallo (rosso poi), mobile di marca POTAIN. Invece l’apparecchio rosso, recentemente installato, era di marca BOUIGHES. Anzi erano mere impressioni mentali prodotte magari dall’enormità dell’apparecchio appeso nell’aria, emerso con chiarezza attraverso il relativo stretto quadro. Pari impressioni mentali arrivavano fin alla sala delle visite, come il fruscio di seta se viene toccato dalle dita in una maniera un po’ brutale. L’apparecchio continuava - comunque fosse il suo colore adesso - in una forma tra la freccia e l’uccello, continuava dunque a muoversi in silenzio sbalorditivo nonostante quell’immaginato fruscio (delle ali degli uccelli?). Continuava il suo pattinaggio, il suo scivolo, il suo serpeggiare dall’orizzonte azzurro verso l’orizzonte azzurro, come se stesse cercando una preda da divorare e quindi passava vicino agli uccelli volando nel cielo quasi toccandoli. Ma non succedeva niente d’interessante...
Gialla dunque, grigia anche e gialla come i cavalli eretti dietro la baia dello stretto, pronti e preparati a lanciarsi nella battaglia ad attaccare e a fuggire, a indietreggiare, e avanzare senza tregua né pietà. Portavano questi cavalli gialli i cavalieri dell’avanguardia, ivi compresi i percussionisti, i trombettieri, i portatori degli stendardi, Tarik Ben Ziad stesso e magari anche il suo aiutante, Tarif Ben Malik Ennekh’i. Questi cavalli erano allineati tranne quello di un percussionista di tamburo che era un po’ più avanti. Ciò che colpiva maggiormente la vista era il fatto che il percussionista era in piedi sul suo cavallo, (mentre gli altri erano seduti sulle selle colle gambe legate ai fianchi di queste bestie stravaganti che quasi quasi cancellavano l’esistenza dei soldati ivi compreso il loro bravissimo generale e il suo aiutante Tarif Ben Malik Ennek’i, che la storia aveva dimenticato perché viveva all’ombra di due grandissimi gelosissimi e rivalisissimi generali che si odiavano ( e Tarik scrisse a Mussa sulla conquista e sul bottino; questi ne fu molto geloso), cioè all’ombra di Tarik Ben Ziad e Mussa Ben Nusseir il quale non era stato risparmiato egli stesso dall’umiliazione da parte del califfo El Walid ( El Walid Ben Abdelmalik scrisse a Mousse Ben Nusseir ammonendolo di non condurre i mussulmani su sentieri sconosciuti e ordinandogli di tornare indietro. Deluso Mussa tornò malvolentieri ma non senza pensare al momento di farla finita con i Goti che non erano stati ancora totalmente sconfitti e che erano allora barricati nei feudi di Galizia. Mentre Mussa si preparava a sferrare questa battaglia un’altra missiva gli venne da El Walid che ordinava a lui e a Tarik di ritornare il più velocemente possibile a causa del conflitto fra Mousse e Tarik e a causa dell’ambizione di Mussa e della sua intelligente tattica per appropriarsi del nuovo e lontano regno specialmente delle grandi ricchezze in monete e gioielli che Moussa aveva preso come bottino dall’Andalusia)).
Il percussionista era più avanti rispetto agli altri di due o tre passi. Invece gli strumenti musicali erano diversi nel colore, nella forma, nel grandezza. Anche gli stendardi e le bandiere erano di forme diverse, alcuni erano rettangolari, altri piccoli, altri erano grandi e larghi. Così pure i colori erano diversi corrispondenti alle caratteristiche dei cavalieri che li portavano. C’era il rosso, l’ocra, il granato, il grigio, il bianco ecc. I vestiti dei guerrieri (nella miniatura non c’era traccia di un’arma) erano anch’essi di colore e di forma varia. Lo stesso era per i turbanti che coprivano le teste dei soldati affollati davanti alla fortezza nella quale i goti si erano rinchiusi, mentre si preparavano a lanciarsi nella pianura di Sciarisc. Tutti guardavano davanti a loro, dal lato ovest. Sembrava che tutte le persone dipinte avessero una sorta di strabismo. Può darsi che quell’impressione nascesse per il fatto che il disegnatore fosse nel lato Nord-Ovest. La cosa strana era che tutti fossero inermi e sembrassero in atteggiamento di attesa.
Il colore giallo sovrastava tutti gli altri colori della miniatura antica, sempre appesa al muro opposto alla scrivania del padre che si trovava nell’enorme magazzino che profumava ancora per l’odore degli agrumi dopo mesi dalla loro commercializzazione. Nonostante la prevalenza del giallo, era il color rosso-ocra più di tutti gli altri scialbi colori del disegno che attirava gli sguardi per la semplice ragione che il cavaliere avanzato era sopra un cavallo di color rosso carminio, per il quale si dava luogo ad una macchia splendente. Tuttavia tutti questi colori, ivi compreso il rosso, il giallo e il grigio sembravano un po’ scialbi, acromatici, senza colore. Era come se fossero stati immersi nell’acqua subito dopo essere stati dipinti. E anche se quest’impressione fosse una mera illusione certamente il tempo avrebbe determinato i colori smorti della miniatura.

Sin dal giorno della morte di mia madre non ho potuto sbarazzarmi dell’odore della morte che ho preso l’abitudine di sentire ogniqualvolta entravo nella vecchia casa e perfino nella mia stanza la cui parte ad est è state ricoperta dalle foglie del gelso, dove c’era l’unica finestra con bordi disegnati. Forse quest’odore della morte che ho immagazzinato da tempo nella mia mente non rimaneva solo nella stanza dove era morta, ma si era diffusa in tutte le altre stanze, perfino nel giardino. Questo odore non era fatto con un’unica componente, ma con una sorta di miscuglio di funghi di paludi, del sudore puzzolente che usciva dai corpi dei lettori del Corano (E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni dì che è un male, allontanatevi dalle donne in mestruazione e non avvicinatevene fino a che non si siano purificate, allora possedetele da dove Dio vi ha ordinato. Dio ama quelli che si pentono e quelli che si purificano), dalla magra statura, vestiti di stracci, dalla tremenda golosità, dalla voce nasale, dalla canfora esalante dal sudario giallo (il colore dei cavalli allineati davanti alla baia dello stretto?) dall’incenso di Java che fumava nell’ardente braciere di cui si occupava una delle domestiche più vicina a lei. Tutta la sua vita, mia madre teneva in alta stima e trattava con rispetto e riguardo le sue domestiche. Non aveva dimenticato che la sua era un’origine modesta e povera.
Le “pulitrici” si erano impadronite del corpo di mia madre. La vidi che giaceva per terra. Un mucchio di carne, pelle ed ossa. Il suo corpo era magro, la sua pelle diafana, i suoi occhi chiusi e un fazzoletto legato fra il mento e il cranio le teneva chiusa la bocca, come se avesse rifiutato il silenzio al momento di morire, lei che non aveva mai avuto una voce durante la sua vita!
Da quel giorno l’odore della sua morte non mi ha più lasciato stare. Mio padre venne il giorno della inumazione. Lesse alla sua memoria alcuni versetti. Ebbi paura che egli incominciasse a leggere quel versetto che avevo rifiutato di scrivere da bambino. L’aveva ripudiata tante volte in 40 anni per sposarsi altrettante volte. Però non versò neppure una lacrima. Come se mia madre avesse voluto fuggire da queste paludi familiari, verdeggianti, dalle gallerie profonde che aggiravano a spirale quel giardino, che emanava profumi con le sue foglie, i rami, le radici, gli alberi, l’erba e i licheni così che mio padre era costretto a sbarrare tutte le aperture con una grata metallica, che aveva presto perso la sua efficacia a causa dell’abbondanza delle piante e della fecondità del suolo. La casa era diventata perciò più scura e quindi insopportabile. Non era abitata che dallo zio Hussein con la compagnia di sua moglie Nana, la madre di Sciams Eddin. Dov’era mia madre? Era morta. La mia fanciullezza si era legata alla sua tragedia. Mio padre mi ha scacciato dalle soglie del suo affetto perché aveva molte mogli e altrettanti figli.
Mia madre mi raccontò che un giorno le donne erano uscite e che loro avevano organizzato spontaneamente una clamorosa manifestazione. In quei tempi stavo vivendo gli incubi dell’obesità. C’era la guerra. Sciams Eddin era stato arrestato. Lo zio Hussein, suo padre era rimasto contento di ciò. Era andato alla sede dell’esercito francese per “lavarsi le mani” da tutti i comportamenti di suo figlio. Aveva firmato un documento in cui sottoscriveva che da allora in avanti avrebbe aiutato l’esercito francese a combattere la resistenza.
E’ ciò che mia mamma ci ha raccontato. Disse che le donne che manifestavano gettavano in aria le loro ceste piene di immondizia e di verdura marcia che cadevano simili a tartarughe rabbiose, impigrite, planate sulle teste dei soldati. Il venditore tunisino di “Crepe” piangeva il suo olio bollente sprecato dalle manifestanti che glielo avevano preso per scottare in questo modo i visi dei soldati. La città era furibonda. Straordinariamente, perciò le donne erano uscite. Avevano tinteggiato i limiti della sera coi loro veli dispiegandoli come le ali dei corvi. La preghiera funebre si diffuse nella città. Su una delle terrazze c’era un bambino che giocava con una gabbia piena di uccelli gialli. Ordinò ai suoi uccelli ammaestrati di orinare sulla squadra terribile. Erano le preghiere funebri e quelle dell’assente. Appena sentirono gli inni nazionali uscire dalle gole degli uccelli i soldati tirarono fuori le loro baionette e cominciarono a trafiggere tutto ciò che incontravano perfino la testa di un bambino. La separarono dal corpo con maestria e arte.

Lo zio Hussein corse alla postazione dell’esercito. Dichiarò che ripudiava definitivamente suo figlio. Un giorno io gli dissi che quel figlio era la creme degli uomini. Lo zio stava su una strada pedonale. Eretto come se non avesse conosciuto che quella posizione sin dall’inizio della storia. Ora incominciava ad invecchiare a vista d’occhio. I suoi occhi avevano uno sguardo idiota, superficiale, quando mi sentì elogiare suo figlio. Stava perdendo parecchio della sua statura ed il suo corpo s’era prosciugato. Ecco il suo collo nuotare proprio dentro il collo della camicia, talmente era diventato magro, e il suo pomo d’Adamo vedersi nettamente, vasto, largo, senza limite. Come se fosse stato fabbricato di cartone, si vedeva il collo rugato come quelli delle tartarughe. Il suo corpo era diventato un mucchio molle di muscoli, di bucce appassite e vecchie e di lineamenti vanescenti.
I suoi occhi tracomatosi mi fissavano in faccia. Ma lui non osava contraddirmi. Ripetei: “Sciams Eddin, tuo figlio è il meglio degli uomini”.
Il tizio puzzava di quella vigliaccheria e di quella malizia a cui ci aveva abituati. Mi sembrava, stando alla situazione presente che stesse parlando con la sua bocca sdentata e i suoi occhi appassiti allo stesso tempo.
Voleva cambiare il corso della conversazione. Subito, con malizia passò a un altro argomento. Disse: “povero tuo padre. Non ha avuto fortuna colle donne”. Non risposi a questa provocazione. Lo lasciai nuotare nel mare delle sue parole e delle sue frasi. La sua voce mi sembrava arrivasse a me dal profondo dell’universo. Ho cercato di salutarlo per sbarazzarmene. Gli ho dato la mano, ma senza risultato. Un pesce spennellato di sapone. Mi venivano in mente i testi di traduzione nell’ufficio del padre dove era appesa la miniatura su una delle pareti. Diceva: “Povero tuo padre....non ha avuto fortuna...Vedi noi, io e Nana...felici e prosperi....grazie a te, Dio dei mondi”: Mio padre diceva: ”Traduci figliolo”. Era appassionato delle lingue, della storia, del commercio e della matematica. Amava tradurre dalle lingue antiche. “Cerca di trovare un brano che tratti della guerra di Giugurta”
“Igitur denique die haud longe ab oppido Cirta
Undique simul speculatores citi sese ostendunt; quare
Hostis adesse intelligitur. Ita Jugurtam...”
Mio padre aggiunse: “Traduci parola per parola, letteralmente”.
Traducevo:
Igitur …… finalmente
Quarto…… dopo 4 giorni
Denique ….. non è lontano
Die …….. lo spazio di un giorno
Haud ………..al più
Longe …….. stima
Ab …………da
Oppido ……. sito
Cirta …….. Cirta
“Povero tuo padre”! Notai che si stava per permettersi un’altra volta per la mia esitazione e il mio pudore davanti a quell’arroganza e a quella maleducazione. Il tizio dimenticò se stesso. “Io e Nana in un paradiso....”All’improvviso scoppiò in una risata. Non potè più sopportare. Si era trattenuto il vigliacco, per lungo tempo per paura di me e delle mie reazioni. Smise di ridere e di ironizzare. Poi subito dopo, lo zio Hussein si mise a ridere, a manovrare, vittorioso mostrando i suoi tortuosi denti, marci, radi, sporchi...
Persi il mio equlibrio. mi arrabbiai. Sentii che stava per vincere in questa silenziosa lotta. “Che Dio gli perdoni, mio fratello Hassuna....però Sciams Eddin è un ubriacone, morirà nelle fiamme ardenti dell’inferno..” Rimasi al mio posto, raggelato, afono, senza movimento, cosa che l’incoraggiava a continuare a iniettarmi il suo cattivo veleno. Non sapevo come trattarlo. Non ebbi più pazienza. cercai di svincolarmi dalla sua presa. Dissi: ”Permesso zio...ci rivedremo....salutami la Nana...” Non mi voleva prestare l’orecchio. Anzi continuava a scherzare, a ....a burlarsi. Poi d’un colpo decisi di resistergli, “di rendergli il peso raddoppiato”. Dissi: “Sciams Eddin beve per dimenticare che suo padre è un traditore...non hai sottoscritto una dichiarazione all’ufficiale francese dei servizi segreti per informarlo di tutto quello che ti veniva all’orecchio, mentre noi facevamo una guerra atroce?”
Rimase stupito l’ipocrita. smise subito di ridere. Divenne muto. Gli vidi il viso contrarsi, rendendolo ancora più brutto. Rimase sgomento, fulminato, attonito. Aggiunsi: ”Pensavi che non avrei osato parlarti con franchezza della faccenda del tuo tradimento?” Non disse parola. Rimase al suo posto, non si mosse. Spiava i passanti come se temesse che qualcuno di loro avesse sentito ciò che gli avevo detto. Allora mi comparve con il suo magro corpo, i suoi larghi vestiti, i suoi occhi spaventati, simile a quello spauracchio che - bambino - installavo sulla cima del gelso, soprattutto nella stagione dell’allevamento dei bachi da seta. Così per arrivare a nutrirli con le foglie più grandi del gelso che quello spauracchio proteggeva dagli becchi degli uccelli. Rimase al suo posto in piedi. Ebbi paura che svenisse, tanto era teso. Lo vidi meschino, inutile, senza valore, fissato nel suo eterno isolamento. Dissi dentro di me: “Vai dalla Nana che ti dà il seno e ti alza il morale , vigliacco, cattivo, traditore”: Era uno spettacolo assurdo, mentre i dischi del sole si muovevano, gli anelli storti della luce si riflettevano attraverso le foglie degli alberi sul suo viso macchiandolo. Ciò rendeva quel viso meschino (da qui la parola “mesquin” in francese) e pallido e si dipingeva uno strano colore verde, spaventoso come se fosse venuto dal fondo della terra o da dietro quella storia che spezza tutto quello che gli va contro corrente.

CAPITOLO VI

Aprii un libro. Vidi parecchie immagini. Una di queste si fissò nella mia mente. Il disegno raffigurava qualcosa di equivoco, scuro, color marrone. Anzi era di color ocra e sanguigno. Il cielo era color rame. Le fiamme stavano divorando l’orizzonte e le schegge esplodevano nell’aria in maniera spaventosa, vibrante. Qua e là le fiamme arancioni si riflettevano arrivando fino ai fianchi dei cavalli e sotto i loro zoccoli, alienati, radunati. Si vedevano sul disegno anche gli occhi delle donne (siete stati informati delle belle donne che quest’isola ha creato dalle figlie della Grecia, ricche di perle, di corallo e di gioielli preziosi e residenti nelle corti dei re di corone...) stupiti, esorbitanti, pieni di terrore e di spavento mentre cercavano di fuggire, d’infilarsi tra i guerriglieri e i loro cavalli. Alcuni di esse stavano trascinando bambini, portavano lattanti con le piccole bocche dei bimbi macchiate di latte. Ciò colorava questo mucchio di morti con una impronta comica e burlesca. Forse quest’impressione risultava dal sangue che correva a fiotti dalle ferite che facevano scorrere sangue rosso come i crateri e le cascate furiose e spumose, senza tregua e senza limiti.
Da dove mi è venuto questo libro? Erano i testi della traduzione. Testi che traducevo. Si trattava della conquista islamica dell’Andalusia. Mentre mio padre mi perseguitava assediandomi. Li traducevo letteralmente, parola per parola. Non mi importava il senso o la logica interna, e traducevo senza ricorrere al vocabolario, perché mio padre lo nascondeva ogni volta occorresse nasconderlo! Perché questa terribile censura? Mentre mi occupavo del lavoro, nel salone dov’era il suo studio, mio padre diceva: “Traduci! Ma sei un asino per adoperare il vocabolario? Questo non aiuta che i deboli! Traduci ragazzo...i deboli sparirono! Traduci”
Facevo la traduzione letterale, occupandomi dei testi delle battaglie, delle vicende, mentre l’ardore della morte mi perseguitava. Cercavo di soddisfare i suoi capricci. Mi ossessionava soprattutto l’odore della sua morte (mia madre) e quello dei morti franchi, galli e goti. Così si mischiavano questi odori di morti nauseabondi, acri. Che relazione aveva mia madre con questi guerrieri caduti, queste donne sgozzate e questi inermi pugnalati? Non osavo porre la domanda. Lo lasciavo concionare e gridare, arrabbiato e pieno di dispetto! (...lo ha vinto. Ha confiscato il denaro degli infedeli e così la loro vita. Ha schiacciato le nazioni miscredenti. I goti sono stati sterminati. Così l’esercito mussulmano attraversò tutte le terre conquistando e penetrando nei territori dei franchi. Il vento dell’Islam sradicò le nazioni infedeli. Dopo questi fatti Tarik s’avviò verso l’Oriente con i bottini, con le scorte dei viveri e denaro sui carri e bestie. Si dice che ci furono 30000 cavalieri prigionieri).
Non pronunciai la domanda lasciandolo concionare e muggire come un leone trafitto da una freccia. Non esitò ad afferrare il libro (il libro della traduzione), mettere gli occhiali e leggere il titolo con una alta e chiara voce: Tarik Ben Ziad nel conquistare l’Andalusia e nelle sue guerre contro i Goti, i galli e i Franchi li fece sbarcare sul monte della vittoria “Il le FIT demarcare Au roche de la vittorie”; battezzato col suo nome “Qu’il baptiza de son propre nom”. Si costruirono dei bastioni dietro e si chiusero “Ils contruisirent des remparts et s’y enfermerent”.
“Deficiente questa traduzione non è letterale...vuoi...? vuoi senza dubbio giocare a pallone?...non, non ti lascio andare oggi. Stai attento deficiente...sono sicuro che vuoi andare a giocare a pallone...tu non sai niente...né di matematica, né di arabo, né di francese e neppure di latino.
Igitur quarto die denique haud longe ab oppido Cirta undique simul speculatores Citi sese ostendunt; quare hostis adesse intelligitur. Ita Jugurta...
Igitur quarto denique die = Finalmente dopo quattro giorni interi
Haud longe ab oppido Cirta = in un luogo non lontano da Cirta
Tu non conosci che il maledetto pallone! Quant’alla storia e come è stata la vittoria (si vide un gran numero di scaut = sese ostendunt) cioè la conquista dei mussulmani dell’Andalusia e come Jugurta resisteva alle giraffe dei romani, a te non importa niente di tutto ciò! Per te vale il minore pretesto! Sei come la scala dei cristiani, lunga ma vana! Pensi che sia scemo? So che sei un giocatore della Muludia nel M.O.C. So che ti alleni 3 volte alla settimana e giochi una partita ogni domenica, sotto uno pseudonimo...mi hanno detto Zuba 2”: Rise. “ Da dove hai preso questo nome? Se fossi stato in te avrei scelto uno dei grandi generali dei mussulmani conquistatori: Tarif per esempio...da Tarif Ben Malek Ennek’i, per esempio. Tarif II”. Rise di nuovo “oppure Juba II” con ironia pungente, maliziosa. “Che furbo” mi dicevo fra me e me: “Non gli basta che una intera città porti il nome di Tarif da più di 13 secoli? Povero babbo! L’hanno informato i delatori...sa che gioco a palla. Saranno stati i figli di Kamer che glielo hanno detto...Tarifa una città spagnola che porta anche oggi il nome di Tarif Ben Malek Ennek’i...Anche Gibilterra, Gibraltar porta fino ad oggi il nome di Tarik che la conquistò. Ciò non basta? Vuoi che prenda il nome di Tarif, oppure di Juba II che tradì il suo popolo e la sua fede! La storia islamica, araba, romana e berbera. Non hai più coscienza? Lasciami stare...Zuba II. Così mi chiamo e con questo nome vado...chi gli ha detto che gioco a pallone?? I figli dell’altra moglie, naturalmente, i figli di Kamer...Lui rideva. Non smetteva di ridere e di burlarsi. Poi cambiò subito atteggiamento. Tirò fuori il suo bastone. I suoi occhi vennero fuori dalle orbite proprio come quegli occhi che ho visto sul disegno che raffigurava la conquista mussulmana, come gli occhi di quelle donne fuggenti e spaventate. “Lo riconosci” Dissi. “No. Sono menzogne. Non ho mai messo piede in uno stadio, uomo!” Prese i bastone e picchiò. Mi dissi: “Picchia pure. Non dirò nulla” Non gli riconoscevo niente: Che calmasse la sua furia...Ne avevo abbastanza delle sue ossessioni politiche.. Che cosa c’entrava lui con la traduzione? Che mi lasciasse stare. So chi l’aveva informato. W. M.O.C.! Mi sono detto: “Sono abituato fin dai giorni della scuola del Corano. Che picchi pure...ne avrà abbastanza, però io non cederò mai. Conosco il delatore...è uno dei suoi figli fatti con Kamer (la sua terza moglie)” Diceva: ”traduci”. Tradussi (poi Tarik s’avviò verso l’oriente, portando bottini, scorte di viveri e danaro sui carri e sulle bestie. Si dice che ce n’erano 30000 cavalieri prigionieri). Conosco questo brano a memoria e lo portavo sempre con me. Ero il migliore alunno della mia classe...tranne Kamel. Quello era un genio.. Tutte le ragazze camminavano dietro di lui (ed il mare è dietro di voi...) I suoi occhi! Gli dissi: ”Kamel che tipo di cravatta è la tua? Ha colori accesi, forme attraenti...Cosa hai fratello mio?...Un gusto cattivo! E’ vero che sei il primo in latino e matematica, però che gusto mediocre hai. Vuoi che ti scriva una bella lettera d’amore per Jacqueline? Ho uno stile bellissimo. Il mio stile è meglio del tuo. Insomma...Però promettimi di lasciar stare questa cravatta, noiosissima, accesissima, brillantissima. Il professore di grammatica diceva...ti ricordi...era di nome” Kamel replicava:” Lascia stare la mia cravatta e prova a dirmi la tua opinione sulle scarpe. Sono di marca italiana. Tutte di cuoio cucite a mano. Stai attento figliolo mio non illuderti. Sei, come di solito geloso (Tarik scrisse a Mussa Ben Nusseir informandolo della sua vittoria e del bottino. Questi fu preso dalla gelosia). Non lasciarti influenzare dalla gelosia! Non lasciarti muovere dalla gelosia, figliolo...la gelosia porta a brutte conseguenze. Prova a vedere dove è andato a finire Mussa Ben Nusseir a causa della sua gelosia. ...Si dice che El Walid Ben Abdelmalek lo umiliò. Poi morì in situazioni oscure..
“Scommettiamo? Come avresti tradotto questa frase di saluto sulle guerre di Jugurta, il nostro Sciaui [berbero dell’Est dell’Algeria]. “Ita Jugurtham spes frustrata” Come?...”Ma le mie scarpe”. Ed io basta ostentazione (Ibn Mandour spiegò questo verbo , vantarsi diceva, vuol dire, cercare di cambiare il proprio parere e il proprio manifestarsi)..Basta divagazioni....giallo e nero...anche le tue scarpe sono brutte in tela intrecciate, sei di un pessimo gusto, Kamel. Come risolveresti questa equazione X3+3X2-3X-1=0? Con la velocità del lampo figliolo senza guardare sul quaderno, con il tuo grandioso cervello? figliolo...” E lui “accetto la sfida dammi 10 minuti; guardavo la lancetta del mio orologio. Cominciai a contare. Lui diceva: Dato che X-1 è la soluzione ovvia possiamo porre l’equazione in questa forma (1)3+3(1)2-3-1=0...Kamel dimenticò se stesso. Sprofondò nella sua equazione, lui che spesso confondeva l’insegnante. Proponeva spesso delle soluzioni più comode e veloci di quelle che proponeva l’insegnante...questi, dapprima si sentiva a disagio, ma subito dopo riconquistava il suo equilibrio dicendo contento, meravigliato: “Bravo ragazzo! Bravo genio!” Allora gli occhi violetti di Kamel si riempivano di lacrime e una tristezza copriva il suo viso; non ne capivo la causa purtroppo. Mio padre diceva: Riconoscilo, dì la verità” Replicai: ”No mai! Non sono mai stato in uno stadio...”Picchiava ferocemente. “Non basterebbero, padre mio, la pelle, le ossa, la carne, il grasso e il sangue!.

Gialla come quei cavalli che apparivano accanto a Tarik Ben Ziad e al suo gruppo di generali eretti davanti alla pianura di Sciarisc. Quel gruppo militare non andava oltre i 10 uomini, ivi compreso Tarif Ben Malek Ennek’i. Il resto dei cavalli era di colore granato o marrone o giallo. Erano 10 cavalli schierati su la stessa linea, tranne il cavallo di uno dei percussionisti di tamburo. Dietro il gruppo si vedevano 5 bandiere:
La prima. Una bandiera di stoffa grigia su cui erano ricamate con caratteri magrebini queste parole: Dì, lui è Allah, unico. Le altre parole cioè: “Allah, la provvidenza, non ha procreato, e non è stato procreato, non c’è nessuno che sia uguale”, erano nascoste a causa della testa di un soldato che c’era fra la bandiera e il pittore.
La seconda. Una bandiera rossa su cui era scritto su due righe, una superiore e l’altra inferiore le parole: Allah il grandissimo. La parola Allah era scritta nella prima riga e l’altra era incisa nella seconda in un riquadro identico a quello di sopra.
La terza. Una bandiera grigia su cui erano scritte parecchie parole. Erano ricamate in bianco e perciò era difficile leggerle per la somiglianza dei colori bianco e grigio. Tuttavia se uno avesse guardato bene, avrebbe potuto decifrare la parola Allah, ma non senza gradi difficoltà, e ciò nel terzo rigo della stoffa sulla parte sinistra.
La quarta. Una bandiera fatta di tessuto cupo, su cui si vedevano queste parole: Non c’è nessun altro Dio che Allah. Il resto della frase era nascosta a causa del braccio destro di un percussionista di tamburi.
La quinta. C’era anche un’altra bandiera granata su cui c’erano queste parole: Non c’è nessun altro Dio che Allah. Mohamed....anche qui il resto della frase era nascosto dalla testa di uno dei soldati (forse Tarif Ben Malek Ennek’i) di cui abbiamo parlato.
Ciò che si notava era che ognuna di quelle bandiere aveva in alto una treccia di cotone, di forma conica, di colore rosa. Il numero di queste trecce era 10. Dunque 5x2=10. Queste trecce avevano la funzione di fermagli, cioè fissavano il tessuto sull’asta della bandiera o sullo stendardo. Per essere sicuro che le cose fossero così bisognava avere nel guardare una percezione e una profonda capacità di osservazione.
Oltre queste cinque bandiere si poteva notare la presenza di altre tre bandiere portate ciascuna da un soldato, come se pari responsabilità fosse messa sulle spalle del soldato dopo il giuramento d’essere fedele. Erano riquadri rettangolari, triangolari, rotondi che arricchivano di colori la miniatura all’infinito. Si poteva classificare questi colori in tre scialbe gradazioni....
Le trecce che fissavano le bandiere erano invece di color giallo limone. Sulla sinistra della miniatura, all’estremità del disegno c’era uno stendardo di forma rettangolare, di sostanza spessa portata da uno degli ufficiali che teneva fermo il bastone come se temesse che questo potesse cadere per terra. Lo stendardo aveva due margini dorati, abbelliti da motivi di colore e forme varie. Era di lana, ma i caratteri, che era difficile decifrare, erano ricamati con la seta. Era difficile decifrarli a causa della deterioramento della miniatura stessa, nella sua parte superiore, a destra del quadro generale del disegno. Si potrebbero proporre parecchie ipotesi al riguardo. Fra l’altro si può dire che l’impossibilità di leggere il quadro è un fatto naturale nel momento in cui supponiamo che quei motivi erano una sorta di simboli misteriosi a carattere religioso e filosofico oppure avevano dei significati cifrati che avevano lo stesso senso militare che sarebbe difficile capire se non da soli collaboratori mussulmani. Così questi simboli incomprensibili creavano spavento nei nemici goti, franchi e galli, inibendoli e paralizzandoli così da impedire loro di prendere qualsiasi iniziativa. Allora i mussulmani sfruttavano quel momento di perplessità per prenderli d’assalto e vincerli e appropriarsi delle loro scorte di viveri, delle loro armi (anche se il loro numero fosse stato oltre i 40000 come dice Ibn Kaldun).
Ma le ipotesi sarebbero illimitate perché le guerre sono sempre state cose importantissime. Perciò ogni dettaglio, ogni particella e ogni forma ha la sua grande importanza. Eppoi si deve aspettare ovviamente, e sospettare in simili circostanze l’esistenza di parecchie trappole e piani ingannevoli.

“Ma si può visitare una città islamica solo perché essa è stata una volta il punto di partenza per la conquista della Andalusia per mezzo di Tari Ben Male Ennek’i, Tarik Ben Ziad e Mussa Ben Nusseir?”
Tarik non esitò a rispondermi affermativamente. Ci recammo allora a Gibilterra a cercare la minima traccia della conquista mussulmana. I nostri sforzi furono vani. Dopo una settimana di tentativi arrivammo, su una macchina noleggiata da Tarik, in un luogo lontano
Ci avevano detto che c’era un laghetto arabo che sarebbe stato costruito da Tarik stesso, stando alle parole di un cameriere dell’albergo in cui eravamo scesi al nostro arrivo a Gibilterra. Questi Era di origine araba. Siamo passati davanti a un piccolo caffè che aveva due tavolini, uno dentro e l’altro fuori. Non c’era nessuno fuori per l’alta temperatura e la grande canicola. Gettai uno sguardo all’interno dove si era radunato un gruppo di giocatori di carte. Alcuni avevano il petto nudo. Gli altri portavano vestiti leggeri. Chiesi al barista in piedi dietro il banco se per caso sapesse dove si trovasse il laghetto arabo. Con segni della mano mi rispose che non aveva capito. Mi rivolsi verso Tarik che era rimasto nella macchina, con le quattro porte spalancate alla ricerca di un po’ di aria. “Pare che questa gente non capisca l’inglese”. Disse: ”E che cosa capiscono allora? Vieni? Non possiamo ricavare niente da questi deficienti”. Salii sulla macchina. Tarik chiuse tre delle porte e io la quarta al mio fianco. Dissi: ”E’ l’inferno rosso che ha aperto le sue porte. Non ho mai sentito un calore del genere, neppure nel deserto...” La macchina ripartì guidata dal mio amico. Il sudore colava sul mio corpo. Una gallina dal collo nudo apparve sulla strada, come se fosse uscita dal nulla. Mancò poco che la macchina non la schiacciasse. Riuscì ad evitare la sciagura e continuare la sua strada facendo alzare una nuvola di polvere giallastra. Dissi: ”Se l’avessimo uccisa i contadini sarebbero sbucati da ogni parte”. Tarik rispose: ”Da dove credi che escano?...E’’ proprio un deserto”. Non risposi. Sentii che cominciava a disperare e ad avvertire la stanchezza. Capii che stava diventando nervoso. La macchina girò a destra. Passammo vicino a un piccolo campo di grano. La macchina sobbalzava per la strada di campagna dissestata. Tarik accese una sigaretta e me ne offrì una.
“Ti prego. - dissi - Non offrirmi sigarette. Ho deciso di non fumare più”.
”Capito, signore!” - ironizzò Tarik
”Hai ragione; se non ti avessi accompagnato in queste terre desolate non ti burleresti di me con un linguaggio da mediocre teleromanzo egiziano! Che egoista che sei...lo fai apposta con premeditazione. Tu non vuoi che io smetta di fumare, solo perché tu non hai volontà, senza la quale non potrai affrontare la prova”.
“Francamente siamo come una coppia...ci ripudiamo, - disse Tarik ridendo - litighiamo”:
”E’ vero. Sono stanco. Stanchissimo”.
La strada era tutta buche, sassi e sconnessioni. Il caldo non cessava di aumentare. La macchina passò davanti a una piccola casa di campagna, isolata di forma strana, unica nel suo genere. Una bambina di meno di 9 anni ne uscì. Tarik fermò la macchina. fece un segno alla bambina che corse verso di noi. Cauta si fermò a qualche metro di distanza . Di nuovo Tarik le fece segno con la mano, ma lei non si mosse. Sulla soglia della mansarda apparve una donna e chiamò la bambina con una lingua che non era né spagnola, né inglese. Tarik disse nervoso: ”Such e sheet country”. Dissi: “Così sei diventato razzista. Questa donna, forse potrebbe essere di origine araba e magari Tarik Ben Ziad stesso potrebbe essere un suo antico avo. Non rispose al mio scherzo. Di nuovo la macchina partì. Dissi: ”In che mese è arrivato in questo quieto paradiso?” Mi disse:” Lunedì 5 Rajad anno 92 dell’Egira che corrisponde al 27 aprile 711 d.C. Fu fortunato. Se fosse arrivato nel pieno del mese di agosto sarebbe stato certamente sconfitto e sarebbe ritornato da dove era venuto”. Aggiunse: ”E’ vero, per Dio. Hai ragione...E’ proprio l’inferno con le porte aperte”.

(O uomini! Dov’è la fuga? Il mare è dietro e il nemico è davanti a voi. Per dio non vi rimane che la fedeltà e la pazienza. Sappiate che in questa isola siete più frustrati degli orfani nei banchetti dei cupidi...e se poveri, come siete, vi riuscisse impossibile raggiungere la vostra meta, diventare deboli e di conseguenza la paura del nemico vi imprimerebbe coraggio...Il consiglio vale anche per me. Sto correndo con voi lo stesso rischio. Comincio da me stesso. Non pensiate che la vostra vita valga più della mia...se cadrò non indebolitevi, non disperate, non litigate perché non fallisca la vostra impresa e vi troviate o prigionieri e uccisi. State attenti, non accettate una vita misera, non arrendetevi. Cercate piuttosto di approfittare della dignità e del riposo anziché dell’umiliazione e della meschinità....ed eccomi attaccare; per averlo, seguitemi....) e l’autore del gioiello delle anime accennava al discorso di Tarik quando diceva: ”Quando si incontrarono arabi e goti si combatterono atrocemente per tre giorni interi; Tarik noto il lieve cedimento della sua truppa, ed allora fece l’orazione famosa per invitarli alla pazienza, alla resistenza, al sacrificio, alla speranza..” Così egli citava la famosa orazione. Il professore Ben Asciur diceva:” dunque, forse l’orazione è stata pronunciata non prima dell’offensiva, ma due giorni dopo, quando la battaglia era ormai al suo culmine. Ragazzi è un’altra ipotesi. Poi continuava: “Questa versione islamica sottolinea gli effetti dell’orazione con l’accendere l’entusiasmo dei mussulmani, il loro coraggio e la loro fiducia nella vittoria e nello spingerli sulla strada della vittoria.. Ma Tarik si era convertito all’Islam da poco tempo. Capite, ragazzi? Capite? Tarik era un berbero. Non c’è dubbio. Era di Zenata, figlio di Legu, figlio di Warfhum, figlio di Nirghas, figlio di Welhas. figlio di Iatmuth, figlio di Nefza lo zenatide. Avete capito ragazzi? Siete coscienti della difficoltà dello storico nel far pronunciare l’orazione a Tarik, anzi l’orazione a lui attribuita?)
Di colpo fummo fulminati. Per noi fu la fine del mondo. Sentimmo che il nostro insegnante ci aveva ingannato. Alcuni pensarono di denunciarlo alla resistenza per condannarlo a morte e giustiziarlo. Mio padre mi rubò il quaderno in cui avevo scritto le mie lezioni sottolineando queste sfumature della storia. Come poteva fare un’orazione di tal genere se si era convertito da poco tempo. Pronunciò il suo discorso prima della battaglia o dopo 3 giorni dall’inizio di essa? Era vero che aveva bruciato le sue navi? Ne aveva mai avute? Era la confusione totale. Kamel diceva “questo sciaui ci ha avvelenato con i suoi dubbi. Vergogna! I suoi occhi violetti si bagnarono. Dissi: ”Scommetti? Ti troverò una soluzione alla equazione più rapida della tua!
X3+3X2-3X-1=0
(1)3+3(1)2-3-1=0
P(X)= X3+3X2-3X-1=0
(X-1)
X3+3X2-3X-1 … X-1
4X2-3X-1 … X-1
(X-1)(X2+4X2+1)
--------------------------------- X=1
X=1
X= -2 -3
x= -2 +3
“Quando sarà giustiziato l’insegnante Asciur per il suo tradimento? E subito slogan contro l’insegnante di storia coprì le mura della scuola. Gli alunni si divisero in due parti: i sostenitori e gli avversari. Sul muro sopra la lavagna apparve una scritta: ”La storia è una dialettica continua, non è una disperazione proiettata. Evviva Tarik Ben Ziad Elleithi Ezzinati”.
Kamel disse:” Abat la France. L’insegnante di latino diceva: ”Pueri cavete canem! facendo allusione ai delatori e agli agenti di polizia infiltratisi nel liceo. Non ci convinse perché era un umanista, un pacifista in un periodo in cui la guerra furoreggiava e i suoi danni distruttivi aumentavano di giorno in giorno. Deformammo il suo famoso detto che è stato proposto parecchie volte: “Laudate pueri, nulla in mundo pax sincera in furore”. Cancellammo la parola “pax” cambiandola in “bellum”. la nuova frase suonava così: “Laudate pueri, nullum in mundo bellum sincerum sine furore (Augurtatevi ragazzi, non c’è mai stata una guerra sincera senza rabbia, clamore e ribellione”).
Al tramonto gli uccelli si radunavano sui 2 o 3 alberi del giardino di famiglia; nel mezzo c’era il folto gelso che copriva tutti gli altri spazi del luogo e che appena emergeva dagli strati di aria ancora illuminata con una luce che si impossessava delle cose e dei viventi con un’impronta spaventosa, terribile, funebre, triste, traendo spettri imperturbabili, diffidenti che attaccavano il suo aspetto tremendo. Allora sentii come se i colori si stessero riflettendo. Un’impressione strana mi invase, cioè il rettangolo della finestra si divise in due parti: Una superficie di color ciliegio (L’infiammazione degli occhi al tramonto infuocato) e una superficie il cui contrasto era olivo (l’opacità del gelso). Di colpo cominciai a udire i loro rumori, bassi in un primo tempo, ma che non tardarono poi ad aumentare di intensità progressivamente benché non ci fosse ancora un cambiamento sensibile di tempo anche se avevo intuito, soprattutto mentre il sonno stava infiltrandosi nelle cellule del mio cervello, che vi era un certo cambiamento; il tempo sarebbe rimasto lo stesso, non cambiò: cioè il tempo mutava in maniera quasi automatica, tra buio e crepuscolo. Gli uccelli cominciarono ad echeggiare gli uni agli altri con il loro debole canto dal timbro quasi esitante, balbettante cinguettio. Ciò in primo tempo; poi non tardarono ad alzare la voce a mano a mano. Il loro canto usciva allora chiaro e forte dalla profondità degli alberi e dalla profondità dello stesso gelso, in special modo da quei rami che graffiavano ancora i vetri della finestra.. Da lì uscì fuori una melodia seguita da un coro che andava crescendo su cui sovrastava un po’ di improvvisazione rendendo così inarmonica la melodia che divenne un po’ confusa, contrastata, stonata. Eppoi anche questo incominciò a cambiare con grande velocità, una strana e inaspettata velocità. Da una parte l’orizzonte si tinteggiò con una striscia rosa dai contorni giallo smorto; dall’altra la melodia divenne più acuta così da dare fastidio alle orecchie. Come se questo vecchio mondo, esistente nel suo lunghissimo e complessissimo percorso iniziato in tempi remotissimi stesse per lanciarsi di nuovo nella vita e ciò tramite melodia suonata da strumenti arrugginiti, vecchi e antichi. Quando alzai la testa, il tramonto si era infiltrato nel seno del giardino. Vidi un corteo di uccelli che sostavano sull’angolo della terrazza della casa. Li si poteva vedere attraverso l’oscurità crescente, calante dal cielo, il cui colore nilico non era ancora apparso. Rimaneva ancora il colore pallido smorto scorrevole di sotto gli strati di nuvole ammucchiate nel lontano orizzonte. Questi colori scialbi parevano in contrasto con centinaia di primi grigi, macchiati tinteggiati dal colore delle fogliolette emerse dal gelso che ora con la sua densità copriva la terrazza della casa e una gran parte delle terrazze delle case vicine oltre a una considerevole superficie del cielo stesso. Nonostante la loro inerzia queste fogliette riuscivano pure a fendere l’oscurità che circondava le cose e gli esseri dato che il crepuscolo del tramonto esitava ancora nel suo diffondersi, prima di coprire tutto l’ambiente, attraversando la finestra, il vetro e infine tutta la stanza. L’interno si saturò di tutta questa nuova materia che ne copriva tutta la mobilia e le figure varie. Tuttavia questo tipo di luce anche se mi costringeva ad accendere la lampada conteneva ancora senza dubbio un po’ degli strati del giorno finito che avevano tinteggiato col loro colore brillante l’universo intero, procedendo in ciò durante le lunghe giornate estive alla lunghezza e alla perennità infinita.
Mentre notavo questi dettagli a me arrivati dalle impressioni e dalle immagini mentali mi sembrava che i sedimenti materiali del resto del giorno si stessero colando, gocciolando, piovendo lentamente e adagio affinché non infastidissero questi numerosi cortei di uccelli che ci abitavano o che erano venuti a starci lungo la terrazza intera o li costringessero ad andarsene verso altri ripari o a nascondersi dentro il gelso enorme. Cosa che li avrebbe fatto perdere il solito colore grigio delle loro piume. Adesso che erano in piedi sulle loro magre zampe e che di tanto in tanto scorrevano nei loro delicati e irsuti corpi uno scintillante pelle d’oca che l’occhio percepiva appena, a causa della sua estrema velocità, mentre affrontavano ogni rumore e ogni caduta in armonia con quella indiscreta melodia, frantumata, senza forze e che tuttavia non tardò ad echeggiare, ad amplificarsi a mano a mano fino al caos senza pari. I loro occhi anche se piccolissimi apparivano netti, chiari, brillanti e anche i loro becchi si vedevano con chiarezza malgrado l’oscurità crescente, tinteggiandosi di colore limone-rosa. Gli uccelli andavano ingigantendosi ed i loro corpi respirando, mentre si beccheggiavano come se stessero tinteggiando le piume che ora si erano colorate definitivamente con un grigio contrastato, una specie di miscuglio di azzurro e lavanda. Ciò li aveva resi più fieri, più vanitosi, più languidi, più alteri. Così erano pronti a lanciarsi negli arcani del sonno, nei loro nidi dopo aver compiuto questa operazione di seduzione. Alzavano le loro piume e di nuovo si impegnavano a pettinare la peluria dei loro pulcini. Mentre i maschi rimanevano sul bordo della terrazza come se faticassero a sfidare la legge dell’attrazione terrestre, a pavoneggiarsi in un comportamento di corte, di civetteria e di grazia. Ciò aumentava lo scintillio dei loro piccoli, neri ondeggianti, infiammati e brillanti occhi.

Il padre diceva queste parole quando scorse il precettore mentre si avvicinava, soffiava sulle tavolette bagnate d’inchiostro e stese il tappeto per lui. Le sue mani tremavano per la violenza della parola. Era la guerra. Dov’era la sua fanciullezza? Dove si era nascosta? E come? Raccontava al crepuscolo che l’accompagnò fino alla soglia della scuola del Corano. Entrò nella stanza inferiore vicino al cortile. La luce stava scendendo ed il suo robone gli copriva le ginocchia. Lo vidi mentre gli sceglieva una penna. Diceva “scrivi”. Nel primo tempo scrisse parecchie surat e disegni. Scrisse lettere, ferite, morti sgozzati, titoli dei giornali e le parole incise sulle mura e perfino sulla terrazza di casa. W FLN W MOC. Diceva “scrivi”. Scrisse uno slogan e se ne andò.
Non rammentava la nostalgia delle sue dita inquinate col gesso giallo dallo stesso giallo della gru impiantata nelle profondità della terra e col braccio perso nel cielo.
Mentre lui stava seduto nella sala medica appartenente all’ambulatorio dei lavoratori edili, la parola POTAIN gli apparve (forse era il nome del suo inventore o quello della ditta). Ricordò gli anni passati. La vecchia infermiera entrò. Non gli rispose, era impegnato nell’esaminare i polmoni di un operaio. Non ricordava il tremore delle dita sporche colla polvere del gesso giallo? Tentava di pulirle strofinandosi le mani nella stoffa del grembiule scolastico o in un qualsiasi altro straccio. La storia entrava tra le pieghe del suo corpo obeso, floscio, moscio. Non ricordava gli amici mentre lo crivellavano con una pioggia di beffe, burlandosi, gridando: “Smina! Babba ‘agina! mangiatore di tannina!
Botti (Bud Abbot)! totti”! deformando il nome di quell’attore americano famoso per la sua obesità. Ha dimenticato anche il giorno in cui andò a vedere una partita di calcio, quando un soldato francese gli gridò in faccia: Che sacco di patate? Quel sac de patates!” Ciò avveniva nel primo anno della rivoluzione nazionale, cioè l’ultima domenica del 1954. No non ha dimenticato ciò. Anzi il suo odio per loro divenne molto più forte. Non ha mai dimenticato la nostalgia delle sua dita coperte dal gesso giallo e quel piacere nato dalla paura e dagli abissi della paura. Il precettore diceva: “E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni dì che è un male, perciò allontanatevi dalle donne nelle mestruazioni e non avvicinatevi finche non si purificano. Quando si saranno purificate possedetele da dove Allah vi ha ordinato.
Diceva:” Dov’è mia madre? Mia madre è pura. Mia madre è santa La mia infanzia è legata alla sua tragedia, io che ero stato scacciato via dalla casa di mio padre. Mio padre disse: pensi che sia imbecille? riconosci che tu giochi al pallone nella squadra del Muludia! risposi: “No. Dentro di me riconobbi che era vero. Riaffermai: No, mai. Prese il suo bastone e picchiò molto duramente. Stetti zitto MOC. W. FLN. Sapevo chi gli aveva parlato di me. Quanti delatori! Il figlio della concubina di mia madre. I figli di Kamer...Però non riconobbi niente, altrimenti mi avrebbe ucciso. Mi prese il quaderno di storia e tutto quanto avevo trascritto delle parole di Ben Asciur. sull’equivoco che caratterizzava la personalità di Tarik Ben Ziad e le incertezze legate al suo discorso e le vicende delle battaglia dello stretto. Lo riconosci - disse mio padre -No, dissi, diversamente avrei avuto a pentirmene per tutto il resto della mia vita.
Prese il bastone. Così come aveva fatto il maestro della scuola del Corano. La mia infanzia era legata alla sua tragedia. Ero stato scacciato dalla casa di mio padre.
Fece silenzio. Poi “Mia madre è pura. Un giorno mia madre uscì per una manifestazione contro i colonialisti. Era la guerra. I bordi del Rimel bollivano delle teste vigliaccamente decapitate all’epoca di Salah Bey che si era barricato dentro le mura della città. Mio padre mi chiese: Quanti gironi durò quella barricata. Non lo so. Quel giorno la città si riempì di donne che manifestavano. Lo ricordo ancora anche col passare dei mesi. Quanti soldati accompagnarono Tarik alla baia dello stretto? 300 arabi circa, a cui aggiunse 10000 berberi- dissi- ricordo ancora la miniatura come ricordo il grido del soldato francese quando mi vide costretto nella mia obesità: un sacco di patate. Quanti erano i soldati che accompagnarono Laerdrik? 40000 stando a Ben Kaldun e 100000 secondo Il Biladri - dissi - Qual è la verità? - chiese - Nel mezzo. Mi schiaffeggiò e disse: scemo, pensi che sia così imbecille? Tutta la città sa che fai parte della squadra di calcio e che indossi la maglia n. 5.....lo riconosci? Hai ragione padre, la versione del Biladri è più logica di quella di Ibn Kaldun- gli dissi per compiacerlo. Si rassicurò. Dimenticò la storia della squadra di calcio e il fatto che ne facessi parte segretamente. Continuai fino a un ordine nuovo. Traduci questo brano del Biladri. Disse.
Mio padre non poteva resistere di fronte ad un compito di traduzione, ne qualunque fosse la lingua, fosse stato pure il latino. Conosceva il latino. Secoli interi erano entrati nel suo sangue traducendo un piccolo brano di Sallustio sulla guerra jugurtina. Vide gli invasori girare intorno a Cirta. Giugurta lottò contro gli eserciti romani e Tarik Ezzinati, mascherato, dichiarò guerra a 40000 (forse 100000) soldati goti. Vidi la città in cui Kamel pose le trappole a Jeacqueline, la moglie del capitano. Questi era assente perché era impegnato nella guerra del Vietnam. Vidi la città e le donne che la riempirono con i loro veli. Uscirono; non era nella loro abitudine (mestruazione=abitudine). Mentre la città era assediata da 20000 soldati all’epoca della resistenza di Salah Bey. Non si arrese che nel 1856. Nel sangue di mio padre correvano secoli in cui aveva visto i conquistatori aggirarsi attorno all’isola verde. Si diceva che fossero berberi e arabi. Vide altri conquistatori che si aggiravano intorno all’Algeria. Non riuscivo a capire che poche cose dai minimi fatti storici. 40000 soldati resistettero a Tarik e ai suoi compagni. Erano sulla difensiva. Ben Asciur disse: Che cosa ha spinto Tarik a venire nella baia dello stretto?.
La città era piena di donne i cui veli scuri facevano pensare al calare della sera, veli che assomigliavano alle ali di corvo che cadevano in picchiata dal cielo. La preghiera funebre si diffuse nel paese. Poi la preghiera dell’assente. Arrivarono con una cassa sigillata. Pretendevano che mio fratello vi fosse steso morto. Forse il venditore di “crêpes”, il tunisino, piangeva il suo olio bollito sprecato sulle teste dei morti.
Ho visto in bambino che giocava sulla terrazza con una gabbia di canarini gialli come il gesso. Ho scritto i miei primi slogan nel momento in cui ho cominciato la mia lunghissima lotta contro il mio grasso corpo, che trasbordava da destra e da sinistra, davanti e di dietro. Ero stato preso dall’obesità. Dicevano: Babba agina mangiatore di tannina. Botti”. I ragazzi avevano inventato questo neologismo ispirandosi al nome di un attore comico grasso anche lui. Da Bud Abbot crearono la parola Botti! Totti!
Nei primi tempi della guerra civile entrai nello stadio municipale per vedere una partita di una squadra locale. Un soldato francese si mise a burlare di me. Diceva:” E’ un vero sacco di patate! Un vrai sac de patates!” Incominciai allora una lunghissima lotta contro il mio corpo, contro la mia anima, contro mio padre, contro gli stranieri, contro lo zio Hussein, contro il precettore e contro tutti i membri della famiglia, ad eccezione di mia madre e Sciams Eddin. La guerra tra me e il mio corpo durò tutto il periodo della adolescenza. L’obesità era stata una reazione allo scoppio della guerra? Oppure una reazione a mia madre quando mi schiaffeggiò senza giustificazione mentre dai miei piedi colava sangue innocente?
Un bambino giocava sulla terrazza di una casa araba il giorno in cui le donne uscirono e con i loro veli e la violenza dei loro slogan confezionò i limiti del mattino31. L’acqua gialla dei docili canarini aveva iniziato a gocciolare dopo che il loro istruttore aveva dato il segnale. Questi risposero all’unisono. Sulla testa dei soldati piovve urina e canti. Essi tirarono fuori le loro baionette per trafiggere tutto ciò che incontravano sulla loro strada. Persero la loro abituale pazienza, il loro spirito scherzoso. fecero a pezzi ogni cosa, compreso le ceste di verdura, quelle delle uova, la gabbia dei canarini, lo strillone del tram, il recipiente di olio bollito del tunisino e perfino la testa del bambino che addomesticava gli uccellini. Il sangue fu lanciato per metri in alto. La testa del bambino non fu trovata sul luogo , ma lontano da quel massacro. Sentii i loro passi. Li sentii mentre si confondevano, si ricomponevano. Vidi un braccio tagliato; su di esso era stata tatuata la parola “VIVE MOY!”
Il mio corpo si lasciò andare. Caddi sulle mia ginocchia. I tratti del viso si contrassero. Furono eseguite nello stesso momento la preghiera funebre e quella dell’assente. Mio fratello era assente. Mesi dopo questa drammatica e terribile vicenda ritornò in un sudario sigillato e blindato. Le autorità militari si rifiutarono di aprire la bara. Non riesco a dimenticare e non dimenticherò mai la stranezza del sigillo rosso della dogana. Mi chiesi se la cassa contenesse una qualsiasi merce. Mio padre, che era quello a cui spettava l’ultima parola, che possedeva il sigillo e aveva parecchi negozi disse: “è tuo fratello”.
Mi sono recato nei secoli, sono sprofondato nelle loro immagini, che si rinnovavano continuamente.
Le falangi delle mie 10 dita erano gelate a causa del grande freddo, portavano le tracce del reato che abbiamo commesso io e mio cugino contro l’autorità straniera. Algerie libre! La scrissi nella lingua dello stesso nemico. Sciams Eddin scrisse un altro slogan ‘Abat la France!’ Litigammo tra di noi perché non eravamo sicuri sull’ortografia delle parole che avevamo scritto. Consultammo i vocabolari. Sciams Eddin pianse per il dispetto. Aveva perso la scommessa. Pagò il pegno: un gelato. Non smise di fissarmi intensamente di soppiatto. Divorai quel gelato. L’obesità; ero obeso......Ero pieno. La mia avarizia offese mio cugino. Disse: “mi fai leccare un po’ di gelato”. Risposi:” No, mai. Hai perso la scommessa”. Allora aggiunse: “Botti, smina, mangiatore di crima”. Lo schiaffeggiai. Era più piccolo di me di 4 anni. Egli rispose alla mia violenza dandomi 2 schiaffi. Il gelato cadde. Andai sulla terrazza. Cancellai la parola ‘abat’ correggendola con quella giusta ‘abas’. Sciams Eddin cercò di vendicarsi. “Tutto questo rispetto per la lingua del nemico è indice di complicità”. Risposi: “Sei uno scemo. Tu non sai né la lingua francese, né quella araba...tu sei geloso di me, non sai come devi comportarti ogni volta che perdi una scommessa”.
Non tardammo a rimetterci d’accordo. Pagai il secondo gelato che poi diedi a Sciams Eddin e che mangiò tutto.
“O uomini dove potete fuggire? Il mare è dietro di voi e il nemico vi è davanti” mi ripetei.
Mio cugino non capì le mie parole e disse. “Dai proviamo a scrivere altri slogan prima che cali la notte”. Volle regalarmi un altro gelato. dissi: “No, sono rigido nel seguire la mia dieta”. Incominciò a ridere fragorosamente. Finsi di non averne capito il motivo. Era stata l’atroce guerra. La mia fanciullezza si era legata al suo dramma, ai suoi complessi, alle sue pigre ghiandole. Mio padre continuava a proferire parole politiche. Un giorno mi accompagnò fin nella scuola nell’aula inferiore. Il maestro era cieco, si chiamava Salah. Mio padre gli aveva detto: ”Mi renderai conto con la pelle, con le ossa, la carne e il sangue”. Avevo paura che aggiungesse ”anche col grasso”. Ero obeso, perciò ero emarginato dai miei coetanei e malvisto in famiglia. Sciams Eddin si scagliò contro di me perché avevo rifiutato di dargli un po’ di gelato. Egli era il mio unico e incondizionato alleato. Mio padre disse belle parole quando vidi nel scuola il maestro cieco che stava soffiando sulla tavoletta bagnata di inchiostro che riversava nei flaconi di color viola e di forma convessa. Il maestro, poverino era molto ossequiente. Mi stese un tappeto. Mi imposi una dieta. Avevo paura delle nefaste conseguenze, di beffe contro di me e della perdita di reputazione fra i miei coetanei. Non dimentico ancora gli scherni di mio cugino e alleato in ogni azione. Questi decise di non mettere più piede nella scuola dal giorno in cui il vecchio cieco mi picchiò. Suo padre, mio zio Hussein lo punì crudelmente senza ottenere risultati. Ero geloso della sua fermezza temeraria, il suo grande coraggio e la sua resistenza alle percosse. L’ossequentissimo maestro disse: ”scrivi” Scrissi finché non arrivò questo versetto: “E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni dì che è un male” Poi proseguì: “Che cosa aspetti? Scrivi ragazzo”. dissi: “No. Non scriverò”. Continuò: “Quando si tratta di religione non bisogna essere pudici” Replicai: ”No”. E lui: ”Dammi la falaca, ragazzo”. Uno dei ragazzi traditori gliela passò, mentre un altro si alzò per tenermi i piedi. Il maestro si alzò anche lui e si mise a picchiare. Picchiava ingiustamente con durezza, pieno di orgoglio. Lo lasciai fare. “Faccia quello che vuole fare”. Tornai a casa mentre i miei piedi gocciolavano di sangue denso, tale era la mia obesità. Cercai mia madre per dirle che lei era pura al contrario di quello che diceva il vecchio cieco. Non avevo scritto il versetto per solidarietà nei suoi confronti. Era in fondo al giardino. Stava stendendo i suoi stracci intimi. Li stava stendendo sull’isolata corda le cui estremità erano fissate ai rami del vecchio e antico olivo, che aveva rifiutato di dare frutti perché era stato trascurato e non veniva più potato, né concimato dalla morte di mio nonno, che era un operaio delle ferrovie.
Mia madre mi schiaffeggiò, mia madre pura, senza motivo. E così si radicò in me un forte complesso. Ricordo che le sue mani e braccia erano alzate e che le sue ascelle erano scoperte e rasate. E ciononostante c’erano delle linee di carbone di forma granulare.
Mi nascondevo dalla gente sulla terrazza dove c’erano gli slogan. Vi era un bambino su una terrazza con una gabbia piena di uccelli di vario tipo. Uccelli canterini. Li addomesticava. Insegnava loro musica e inni nazionali con rara abilità. L’avevo considerato un deficiente in un primo momento. Poi non ho tardato a capire che era un genio nell’addomesticare gli uccelli. E’ stato lui ad insegnarmi, come ai suoi uccelli, l’inno rivoluzionario. Il bambino partecipò alla manifestazione delle donne. Un soldato lo uccise proprio per questo. Portarono la salma a casa sua. Dalla terrazza vidi una grande folla che recitava davanti alla porta della sua casa la preghiera funebre. E i giorni passarono e poi venne il vecchio cieco per fare la preghiera dell’assente. Per giorni ho aspettato l’arrivo del sudario in cui c’era mio fratello. Non ho voluto lasciare il porto prima dell’arrivo della salma. Ho quasi voluto radicare nella mia anima ferita un dolore inespresso. Mi sottoposi ad una dieta implacabile per non far sbeffeggiare la mia obesità dai soldati. La guerra aumentò gradatamente di violenza e si diffuse capillarmente.
I bordi del Rimel bollivano di teste vigliaccamente decapitate nel 1846. Ricordo ancora quei giorni terribile del 1956: i cadaveri dei canarini sparsi e la gabbia ridotta a pezzi. Fu allora che capii che la nostra morte poteva avvenire per un nonnulla. La luce apparve. I bachi da seta incominciarono a muoversi nello scintillio dell’aria. Il maestro disse: “Scrivi”. Scrissi. Da allora non ho più smesso di scrivere. Non ho più rifiutato di scrivere eccetto che quel versetto che lo lega alle mestruazioni. Da quel giorno la mia fanciullezza si è collegata alla sua tragedia, sottomettendosi alla legge delle ghiandole lacrimali, cerumiche, surrenali, tiroidea. Era anche affascinato dalla conoscenza delle lingue. “Laudate pueri, nulla in mundo pax sincera in furore, laudate.” La ricerca del verbo nella frase era la cosa più difficile nella analisi grammaticale e logica del testo. Ma di più la relazione tra la frase latina, l’inizio della guerra, la catastrofe delle mestruazioni, la preghiera dell’assente dedicata all’anima di mio fratello, il turbamento delle ghiandole nella loro varietà, perché il mio corpo non riusciva più a resistere a quegli scok.
“Che ne fu del destino di Tarik Ben Ziad dopo il suo ritorno a Damasco, ubbidendo agli ordini del califfo? La versione islamica non dice nulla su ciò. Tutto ciò che si può dire è che Suliman Ben Abdel Malik, il califfo ommeiade, voleva designarlo governatore dell’Andalusia al posto di Mussa Ben Nusseir. Se ne astenne quando seppe da Mughith Errumi, il conquistatore di Cordoba, il grande rispetto e l’enorme fama di cui godeva Tarik nell’Andalusia. Ebbe paura dell’ambizione di Tarik degli eventuali suoi progetti per quelle terre lontane dagli immensi territori del califfato. Mughith aveva sentito per entrambi, Mussa Ben Nusseir e Tarik Ben Ziad, fin dalla conquista concorrenza politica. Cercava di nuocerli. Se le notizie non ci dicono niente sul destino di Tarik, tuttavia possiamo ipotizzare che questi non ha avuto la stessa sfortunata fine. Abbiamo visto come questo grande liberatore fosse stato umiliato da Suliman Ben Abdelmalik che aveva ereditato il potere da suo fratello El Walid Ben Abdelmalik, dopo il suo ritorno a Damasco. Alcune storie raccontano che Suliman Ben Abdelmalik ci tenesse a umiliare Mussa dopo il suo ritorno dall’Andalusia , a rimproverarlo, a multarlo. Questi andava nei quartieri arabi per chiedere soldi al fine di pagare il riscatto. Rimase in quella condizione finché morì nella più nera miseria e umiliazione nel Nord del Higiaz[ zona dell’Arabia saudita] nel 97. Gli intrighi di Mughith contro Tarik furono la causa principale del richiamo di quest’ultimo a Damasco. La versione mussulmana non dice niente del destino di Tarik Ben Ziad. Non dice niente né dove, né quando, né come sia morto. Anzi abbassa una cortina di silenzio profondo sulla sua fine. Quanto a Julien che aiutò i mussulmani a conquistare l’Andalusia la storia mussulmana non ne ha fatto parola, nonostante l’esistenza del trattato di alleanza tra Tarik Ben Ziad e Julien, senza le navi del quale Tarik non avrebbe mai attraversato lo stretto verso l’isola verde. Secondo quel documento Tarik fu un modello di prudenza e tolleranza. Ecco ciò che dice il testo (si tratta di una copia del trattato di alleanza che Tarik stipulò con Julien il goto): “Nel nome di Allah, clemente e misericordioso. Da Tarik a Julien. Ho scelto l’accordo. Mi impegno davanti ad Allah di lasciargli i suoi beni, come a tutti i cristiani. Non saranno uccisi, né imprigionati, né loro, né i loro figli, né le loro donne. Non saranno costretti a rinunciare alla loro religione. Le loro chiese non saranno bruciate. Le condizioni da lui accettate valgono per 7città sono leseguenti:
- Non deve tradire
-- Non deve nascondere le informazioni utili a noi.
-- Lui e i suoi devono pagare ciascuno 1 dinar ogni anno, quattro pesi di grano, 4 di orzo, quattro di aceto, 2 di miele, due di olio. Lo schiavo deve pagare la metà. E’ stato redatto il 4 Rajab dell’anno 92 dell’Egira. Erano presenti....”.

Rimanemmo stupiti da quello che sentimmo dall’insegnante Ben Asciur a proposito di Mussa Ben Nusseir e soprattutto di Tarik Ben Zian Ezzenati. Fummo quasi fulminati anche quando il nostro maestro ci sorprese con i dubbi che caratterizzavano l’attribuzione del famoso discorso a Tarik, con i dubbi sull’assurdità della leggenda delle navi bruciate. Fu una disgrazia. Rifiutammo simili discorsi e simili lezioni maliziose. Kamel disse:” Ezzenati lo sciaui fu vittima di congiure e di intrighi. Lo distrusse Suleman Ben Abdelmalik e lo finì Mughith Errumi...lo sciaui rimane sempre sciaui...Vergogna, figlio di Nirghas!”
Decidemmo di denunciare al fronte quel maestro traditore perché fosse giustiziato. Nessuno ebbe però il coraggio di redigere la denuncia. Sapevamo infatti che l’insegnante era un cittadino conosciuto e rispettato per il suo patriottismo il suo amore per la patria e il suo odio per il colonialismo. Un alunno imbecille aveva scritto: “Abbasso l’insegnate Ben Asciur!”, un altro rispose, sempre in scritto: ”Evviva l’insegnante Ben Asciur”. L’intensità del dissenso e dell’odio crebbero. Le sensibilità entrarono in conflitto. Che calamità! Ciò accadde quasi nello stesso tempo in cui uno dei figli della concubina di mia madre rivelò a mio padre che io ero segretamente in una squadra di pallone. “Sei cosciente della tua colpa?” - disse mio padre - “No” - risposi - “Mai”. Prese il bastone e si mise a picchiarmi. Dissi: “Picchia quanto vuoi tanto la sorte dei grandi uomini è sempre stata segnata dalle avversità. Non si sa neppure dove fu seppellito Ben Ziad; Mussa Ben Nusseir morì chiedendo l’elemosina”. Mio padre disse “Riconosci la tua colpa o ti uccido”. Dissi dentro di me “Certo che morirò...anzi ero già morto dal giorno in cui il vecchio cieco mi ordinò di scrivere e io rifiutai di ubbidire”.

Gialla poi grigia, rossa, poi rosa. La gru POTAIN si lanciò nell’aria come una freccia fendendo la volta del cielo azzurro. Fendeva il suo cammino librandosi come gli uccelli nel tessuto del firmamento. Sollevai la testa verso la finestra. C’era una linea verde che cominciava a diffondersi nel giallo dello spazio tra me e il piatto disco solare. Il rosso apparecchio BOUIGHES andava e veniva continuamente senza nessuna fretta. Notai che non portava niente al suo becco, anzi in questo braccio che vedevo appeso al cielo. Adesso la gru rossa stava passando davanti al sole, perciò la tinteggiava per un istante con un rossore disfatto, vanescente mentre la sua parte fissa rimaneva inerte, legata. Anche la gru perdeva il suo colore originale. Poi disegnava un’ombra quasi definitiva sul vetro della finestra chiusa , che era un ostacolo fine, trasparente e leggero., ma anche un filtro di tutte le impurità ottiche, respingendo ogni parassitismo, capace di impedire la relazione ideale che legava tra loro il disco solare e l’apertura dell’occhio, respingendo tutte le imposture in relazione con tutto ciò che si stava svolgendo nell’aria, negli avvenimenti che cambiavano quasi ogni secondo e che avevano la capacità di ripetersi in ogni momento.
Sul mio viso si ammucchiavano alcune macchie scure, leggere, ogni volta che una nuvola passava abbagliandomi. Sentivo come un panno di velluto che passava sul mio viso per qualche minuto. In quel momento il primo apparecchio (il giallo di tipo POTAIN) aumentò la sua velocità andando avanti e indietro ripetitivo, automatico, discontinuo, superficiale. Notai che aveva invaso l’aria fusa davanti a me attraverso il quadro materiale che apriva un largo varco nel muro: la finestra.
Ciò secondo quello che gli impediva la legge geometrica e la scala del suono la cui gradazione non può andare al di sotto dello zero. Il silenzio gli era imposto dall’isolamento della stessa materia vetrosa.
Gialla, grigia; di nuovo gialla. Notai che il numero delle gru si era moltiplicato in maniera mostruosa. Il colore delle nuove gru era rosso. Le vecchie invece erano gialle - anzi - giallastre. E’ difficile delimitare con precisione i colori in un cantiere a causa della sporcizia, delle polveri e altra materia che copre gli apparecchi, e perfino i visi degli operai e i loro vestiti. Nei giorni piovosi, invece, mi riusciva difficile vederli a causa della nebbia che sarebbe stato un ostacolo impossibile da superare qualunque fosse stata la distanza dalla finestra. Forse gli apparecchi rossi erano il prodotto di una fabbrica diversa da quella degli altri, anche perché il nome dell’azienda che commercializzava quegli apparecchi era stampato su un lato (BOUIGHES).
Le parole apparivano chiare scritte in caratteri latini di colore azzurro. Vidi gli operai mentre si impegnavano a montare le gru supplementari. Erano rosse, poi rosa quando passavano davanti al disco solare , più piatto di quanto l’occhio non fosse abituato a vederlo. La causa era la convessità del vetro della finestra attraverso cui si poteva vedere il cantiere. Non riuscivo a vedere che le sue gru numerose poiché il posto in cui mi trovavo, il policlinico, era al decimo piano. La costruzione dell’edificio fino ad allora realizzata non andava oltre il primo piano, perciò non si potevano vedere gli operai e seguirne da vicino la loro costruzione, nonostante la fatica che facevo nei rari movimenti liberi. Però, le gru salivano fin dove c’ero io, senza che io c’entrassi molto. Le potevo vedere, seduto dietro la scrivania, mentre esse rompevano lo spazio che la finestra divideva in un rettangolo prominente; dietro di lui si vedevano quegli apparecchi semoventi, di forma strana, che sfioravano le nuvole e che davano l’impressione che si stessero librando in volo passando davanti alla finestra. La loro ombra quasi disegnava delle schegge sul mio viso seduto dietro la scrivania. Quest’ombra chiazzava le mie mani, il mio viso e una parte del mio busto, secondo il percorso del sole quando si avvicinavano le tre del pomeriggio. Questo spettacolo, dunque, magari creava in me un sentimento di frustrazione perché non riuscivo a vedere il movimento del cantiere salvo quella delle gru. Tuttavia questo sentimento non tardò a svanire perché le gru nel percorrere l’universo latteo creavano una bellezza meravigliosa che non riuscivo a trascurare, a lasciare, ad ignorare neppure per un secondo.
Le gru assomigliavano a uccelli enormi che volavano nel cielo lentamente, barcollanti, cauti, prudenti. Anzi esse, prima del tramonto impaurivano gli stormi dei veri uccelli. Chi li vedeva avrebbe potuto pensare che gli uccelli fossero un po’ artefatti, o meglio ipnotizzati nel loro movimento incrociato; artificiale, mentre le gru fossero dei veri uccelli e non semplici apparecchi automatici. Quest’impressione diventava maggiore quando mi mettevo a paragonare, inconsciamente, le grazie delle giraffe (cioè gru e apparecchi elevatori) con la mediocrità degli uccelli che rimanevano fuori tiro senza via d’uscita. Un’idea contraria, immaginaria sorgeva man mano nella mia testa, cioè: le gru erano più facili da toccare. Bastava solo tendere la mano verso di esse.

Su una delle miniature che mio padre custodiva vidi una scena di battaglia. Queste miniature riproducevano tutte le guerre che Tarik Ben Ziad aveva fatto per conquistare l’Andalusia. La scena era la seguente: Qualcosa di cupo, marrone, ocra, sanguigno. Non si riusciva a delimitare con precisione; al di sopra un cielo ramato, le strade d’ardesia; le fiamme divoravano tutto ciò che era d’attorno perfino lo stesso cielo d’ardesia. Così le schegge si diffondevano, dirigendosi verso l’orizzonte rossastro, esplodendo nei cieli. I riflessi degli incendi arancioni, coloravano i fianchi dei cavalli schierati su parecchie linee. Alcuni di essi sembravano in ordine, gli altri invece parevano radunati senza ordine. Il pittore andava esagerando l’atrocità della crudele guerra. Ha posto in rilievo ai colli stesi delle donne e ai loro occhi esorbitanti di terrore e di spavento. Sembravano fuggenti, prese dal panico sgomenti di paura, di terrore e di spavento. Le donne sembravano che fuggissero prese da tremore, angosciate per la paura. Trascinavano i loro figli, quasi spezzando i loro arti, avevano i volti su cui era dipinto lo spavento, c’erano dei crani schiacciati. La guerra fu atroce. Mio padre entrò. Mi sorprese mentre guardavo le crudeli miniature. Mi diede uno schiaffo gridandomi in faccia: “Sei uno sfaticato. Non sai fare altre cose che guardare le immagini...dov’è il libro da tradurre? Dov’è il brano di Ibn Khaldun? Hai finito la traduzione del discorso di Tarik? E la matematica ( X3+3X2-3X-1=0). Sei riuscito a risolvere questa equazione? Senza dubbio Kamel l’ha già risolta. Invece tu sei pigro. La pigrizia e il tuo nemico numero 1...Traduci, sfaticato, avaro (è avaro chi non fa un lavoro sia intellettuale che fisico)!”
Allora traducevo. Non mi permetteva di adoperare il vocabolario. Mi chiedevo a che cosa servisse il vocabolario se non ad aiutare gli studenti. Lui imponeva: ”E’ proibito usare il vocabolario. Tutto deve essere nella testa, non sui quaderni”. Pretendeva che risolvessi le equazioni senza ricorrere ai fogli e alla penna. Voleva che lo facessi mentalmente. Continuava: ”O conosci il modo di risolverla , o non lo conosci. Ricorrere ai fogli e alla penna è una pura perdita di tempo”.
Provai: “ X3+3X2-3X-1=0, possiamo trasformarla in (1)3+3(1)2-3-1=0”
Intervenne continuando: “X=X3+3X2-3X-1”. Poi lasciò stare la matematica aggiungendo: “Basta, il resto è facile. .Un jeu d’enfants! Prova a tradurre, senza vocabolario!”
Cercai di convincerlo che questo strumento era stato creato per gli studenti, non volle capire niente. Passò ad un altro argomento sulla lingua e disse: ”Sai chi ha creato la ‘lingua araba’?” Risposi: “Muhamed Ben Mukrim Ben Ali Ben Ahmed El Ensari, l’africano. Poi l’egiziano Jamel Eddin Abu El Fadl Ibn Mandhor.
Egli nacque nel 630 dell’Egira nel Muharam. Studiò da Ibn el Mukir, da Marked Ben Hatem da Abderrahman Ben Tufail, da Josef Ben el Muhhili e altri. E’ vissuto per molti anni. Egli era un appassionato nel riassumere i lunghissimi libri di letteratura. Ha riassunto “i canti”, “la collana”, “il risparmio”, “L’ubriaco delle conferenze”, “le parole di Ibn el Baitar” e le grandi opere di storia. “Basta” disse interrompendomi. Non mi fermai sfidandolo e continuai a parlare di Ibn Mandhor l’africano:” Ci ha lasciato 500 volumi delle sue opere. Ha scritto un libro sulla lingua intitolato ‘la lingua araba’, lo perfezionò e lo sistemò alla maniera dei‘Sihah’. Lavorò come segretario per tutta la vita. Fece il giudice a Tripoli nel Magreb ed era...” Mi interruppe ancora: ”Stai zitto! mi stai sfidando? Traduci senza vocabolario e senza dizionario se no ti spacco la testa. Sei così ignorante da servirti del vocabolario?”
Non osai più continuare la narrazione della biografia d’Ibn Mandhor l’autore della “lingua degli arabi”, finché fui nella sua casa. Però dovunque poi sia andato, anche da adulto ho trovato l’odore della morte che mi seguiva. L’odore della morte di mia madre e quella dei goti, dei galli e dei franchi. Gli odori si mischiavano così come i morti (ivi compresi i soldati assassinati da Kamel, Sciams Eddin e un gruppo di loro amici, di cui non ricordo i nomi).
“Ma che rapporto hanno i soldati francesi con i guerrieri franchi che Tarik aveva combattuto?”
Mi misi a tradurre letteralmente: “e Tarik Ben Ziad attraversò il mare nell’anno 92.
attraversò = prit
Tarik Ben Ziad (Non occorre tradurre)
il mare = la mer
nell’anno = en l’an
92 = Quattre vingt douze
Poi con l’autorizzazione del suo comandante Mussa Ben Nusseir, con circa 300 arabi a cui aggiunse circa 10000 berberi trasformatosi in soldati.
Con l’autorizzazione del suo comandante = avec l’assentiment de son chef.
Mussa Ben Nusseir
con circa 300 arabi = en compagnie d’environ 300 guerriers arabes
a cui aggiunse = il recruta, il enrola, il leva.
Mio padre si arrabbiò:” Non voglio nè due, nè tre parole. Basta una sola parola. E’ questa la regola della traduzione letterale. A parola corrisponde parola. Parallelamente. Come ‘dente per dente’, oppure ‘occhio per occhio’. Imbecille! So che non dai importanza a queste cose. So che sei contro queste che chiami conquiste inutili, come dici tu e i tuoi coetanei istigati da quel grande falsificatore che è il prof. Ben Asciur. Uno di questi giorni l’incontrerò. Lui chiama queste gloriose conquiste di liberazione: colonizzazioni classiche...traditore, eretico. So che non condividi la conquista dell’Andalusia fatta da Tarik Ben Ziad....distruttore. Dio ti castigherà per la tua flagrante eresia ...sei veramente ignorante....non sai e non capisci niente né in lingua araba, né in francese, né in inglese o latino e non hai nessuna cognizione di matematica (X3+3X2-3X-1). La lunghezza e la vanità proprio come la scala dei cristiani32...anche il tuo amico Kamel è come te, nonostante la sua conoscenza della matematica...è un eretico...non sa innamorassi che delle donne francesi. dai continua...traduci quello che rimane del brano”.
Mi ricordai della mia mamma. Provavo dolore al ricordo di lei. Ricordai il suo odore, mentre lei guardava da dietro le sbarre della finestra in mezzo dove c’erano le rose che crescevano all’impazzata facendo fiorire rose di colore scialbo, rose d’Ispahan (rose-the); ricordai anche l’odore della casa. Lo sentii gridare: ”Traduci. ‘Trasformatisi in soldati posero l’accampamento sul monte della conquista divenuto poi “gebeltarik”. L’odore della sua morte. Chissà se si lavano anche i capelli dei morti? Chissà se si usa lo shampoo mischiato all’acqua come quello che lei adoperava? “mia madre è pura”. Quello shampoo mischiato all’acqua...e alla lavanda.
“Traduci, furbo” Tacque, aspettò un istante poi ritornò alla traduzione letterale:” Per proteggersi costruirono delle mura”: Sconfitto lasciò stare. Capì che stavo scrivendo per provocarlo. Disse: “Mi prendi in giro nella mia casa?” “Chissà se le hanno lavato i capelli e le ascelle? Mia madre è pura”. Lo lasciai divagare.
Mi disse: “Sei un pesce insaponato...Non so da dove prenderti. Sei in continua fuga. (insieme come una roccia, saldata l’una all’altro, andavamo avanti e indietro fuggendo e attaccando)33.
Stai scappando. “Che c’entrava lui nei miei affari scolastici, visto che sapeva bene che ero un bravo alunno per l’unica ragione che temevo le sue terribili punizioni. Ero bravo, mio malgrado. Ero costretto a realizzare elevate performance. Kamel era un testimone oculare di ciò.
(E lui, Kamel disse con rabbia:
“Che cosa hanno le mie scarpe. Sono di qualità. Sono di marca italiana”
”Figliolo mio , non essere così sicuro...”
“E la cravatta? Che cos’ha la cravatta. E’ di pura seta. E’ il regalo di una delle mie amanti, non del tipo bululu, come le vostre donne...una signora nobile. E’ ricca ed è potente”.
”Anche lei - chiesi - è colta, sapiente, brillante, di una bellezza accecante....basta così Kamel. Ma la tua cravatta è brutta e chiassosa”
“Chiassosa? Da dove hai pescato questa parola?”
“E’ la traduzione letterale di CRIARDE”
“Che cosa dici?” - Scoppiò in una risata. -“Sei un genio Tarik. Tuo padre è un grand’uomo...
“Niente. Lascia la grammatica per un momento, figliolo mio...”.
“il tuo nome sul tuo corpo, Tarik, nonostante la tua perplessità nei riguardi dello Sciaui zinati. ma ritorniamo ai nostri montoni! La traduzione letterale, nevvero? Revenons à nos moutons. Cosa ha la mia cravatta?” Dissi
” Chiassosa, parlante. - dissi - CRIARDE! Non importa che sia di pura seta. Sei di cattivo gusto proprio perché sei un imbecille. E queste scarpe...nere....e gialle....”
” E’ un regalo della rispettosa signora, moglie del governatore generale”. - rispose.
” Sei diventato pazzo: Dici che te la sei fatta?”- aggiunsi.
“Naturalmente. E’ caduta nella mia trappola”
“Scemo...le scarpe.....nere e gialle...”
“E’ un regalo della signora, - replicò - perché no? Dovevo approfittarne”
“Non c’è più niente da fare...il fronte farà giustizia” - continuai.
”Ma è d’accordo. L’ho fatto con la sua autorizzazione (con l’autorizzazione di Mussa Ben Nusseir). Insinui che sono un traditore? Sono un sincero patriota. Senza macchia figliolo mio”
”Credo a tutto salvo che a questa finzione...non ci sto...è impossibile”.
“L’egregia signora non è venuta a scuola un mese fa?”
Confermai.
” Allora? - continuò - Uno sguardo, poi un sorriso, poi un saluto, poi un incontro. Tutto con l’autorizzazione, l’accordo, il patrocinio del FLN”.
”E’ stato un bel piano; ovviamente c’è qualche vantaggio dietro. Picchia 5[ gesto di congratulazione battendosi le mani], Kamel. Sei il signore dei rivoluzionari...giuro che la tua cravatta è stupenda così come lo sono le tue scarpe di marca italiana....il tribunale ti ha riconosciuto buon gusto...non ci sarà un ricorso in quest’affare. Picchia 5 Kamel)
Sottomissione davanti alla tirannia del padre. Non mi importava dunque niente salvo il calcio. Avevo aderito in segreto alla squadra di Moludia. Uno dei figli della terza moglie glielo aveva detto. Pensai: Mi vendicherò di quel traditore e anche di sua madre. Questa vendetta sarà fatta.

Non amavo molto lo zio Hussein. Anche lui era un delatore. Veniva a casa nostra fingendo incoscienza al solo scopo di spiarci. Diceva: Poverino vostro padre non è stato fortunato con le donne. Io invece, grazie a Dio, ho una moglie, Warda (la chiamò Nana, dopo aver visto un mediocre film francese la cui protagonista portava quel nome poco vivo) che è la più cara persona che abbia in questo mondo”.
Non dimenticherò il giorno in cui i soldati vennero a casa. Mia madre diceva: “Sono arrivati all’improvviso. “Come si può tradurre quest’immagine e quest’espressione popolare, Kamel? Non è possibile”.
I soldati irruppero nella casa e salirono sulla terrazza. Scoprirono gli slogan che io e Sciams Eddin avevamo scritto: “W F.L.N. Abat la Frausse!”
Mancò poco che lo zio Hussein non svenisse, tanta fu la paura. Incominciò a chiedere scusa all’ufficiale dichiarando con insistenza che non sapeva niente e disse: ”Ecco i criminali...signor capitano. Può mandarli in carcere!”
Che posizione meschina! Gli altri membri della famiglia si nascosero sotto i letti, tranne mia madre- Era coraggiosa mia madre. Disse allo zio: ”Taci, uomo. E’ la guerra...che cosa possono fare? Ci tagliano la testa? Calmati, abbi un po’ i nervi saldi”:
“Sciams Eddin sputò sull’ufficiale. Questi lo schiaffeggiò su tutte e due le guance. Ma lui non si mosse. Era abituato a ricevere botte da suo padre che era un campione nel torturarlo e nell’umiliarlo. Sciams Eddin guardò l’ufficiale con odio, rancore e risentimento. Il militare diceva: “Se tu non fossi stato così piccolo t’avrei ucciso con una pallottola nella tua grande testa”: Ci costrinsero a lavare gli slogan scritti col gesso giallo sul pavimento della terrazza: “W MOC, W L’ALGERIE”.
Lo zio Hussein tremava di paura. Il giorno seguente egli si recò al posto di guardia dell’esercito francese per rimuovere da sé ogni responsabilità per la condotta passata, presente e futura di suo figlio. Qualche giorno dopo, rifacemmo la stessa cosa. Questa volta adoperammo il gesso rosso. Sciams Eddin fece lo stesso errore ortografico. Scrisse:
”Abat la Fransse”.
”Sei così stupido?” Dissi
“Perché vuoi che scriva la parola corretta?”
“Hai ragione. Sei un genio? Ti offro un gelato. Quale gusto vuoi?”
“Cioccolato e fragola”
“OK. Domani andremo in gelateria”.
Non osai fargli notare l’errore ortografico della parola Abat. Mia madre disse: “Questa volta ci impiccheranno tutti quanti, perfino la zia Fatima la cui età era superiore ai 100 anni”
Mi sono chiesto chi le avesse tradotto quegli slogan dal momento che non conosceva nessuna parola della lingua francese.
Il giorno dopo entrai nella scuola percorrendo in meno di un secondo la Hall antica, costruita secondo i canoni estetici dell’architettura turca. L’attraversai con la velocità del lampo. L’attraversai correndo con le mie lunghe gambe (la lunghezza e la vanità come la scala dei cristiani), perché temevo le reazioni dell’insegnante di latino appassionato di ogni cosa che presentasse un legame con la civiltà romana.
“Se morirete un giorno, morite almeno sapienti e non ignoranti”. traduci furbo. Pensi che con questa vostra ignoranza potete cacciar via i francesi? Perchè questo ritardo? Ti punirò. Traduci”...”sarà fatto: At Jughurtam, dum sustentare suos et prope jam adeptam victoriam retinere cupit: circumvectus ab equitibus dextra sinistraque omnibus occisis solus inter tela hostium erumpit. (Giugurta cercava di aiutare i suoi soldati e di non farsi sfuggire una vittoria quasi sicura. Tuttavia e nonostante l’assedio della cavalleria e dopo aver visto i suoi cadere a destra e a sionistra egli si lanciò da solo, riuscendo ad aprire un varco fra il nugulo di frecce dei suoi nemici). L’insegnante ripeté; “quella è una delle vostre civiltà. Quando morite, morite almeno sapienti”. “At Jugurtam dum sostentare....ma Giugura mentre cercava di aiutare...” L’insegnante si arrabbiò di nuovo: “No, no. questo è superfluo. Mi vuoi provocare forse? porco, maleducato. Non conoscete che la guerra. La guerra. Potete consegnarmi al fronte. Non ho paura. Non sono un vigliacco. Ho vissuto la guerra prima della vostra nascita. “suos et prope=la famiglia e i suoi più vicini. La traduzione è intuizione, non è una “charabia” (comprare e vendere). sai, figliolo che questa parola è di origine araba. Ve l’hanno rubata. Torniamo alla traduzione”.
Dissi a Kamel: ”devi scrivere un rapporto su questo tizio. Pensa che non sappiamo che la civiltà romana ci appartiene? Però questo imbecille non dice perché Giugurta combattè contro il generale Mario. Si, è opportuno scrivere un rapporto”. Kamel replicò:” Sei scemo. E’ il presidente della cellula segreta degli insegnanti. E’ uno dei membri più importanti del fronte. Egli finge di essere nemico per noi, sveglio che sei.”

Mio padre aveva il potere della decisone ed era padrone della ditta. Diceva: “Questo ragazzo è roba tua”. Vidi il maestro cieco che si avvicinava mentre soffiava sulla tavoletta bagnata d’inchiostro e stendeva un tappeto per me, per fare piacere a mio padre e sedurlo. Il palmo della mia mano incominciò a vibrare per la forza della parola. La guerra non era ancora iniziata? Dov’è la mia fanciullezza? Ma come fa Kamel a raccontare senza sapere, lui che mi accompagnava fino alla porta della scuola del Corano senza entrarvi? Mi lasciava preda tra gli artigli del vecchio cieco. Entrai nella moschea inferiore, al centro c’era la luce che scendeva. Il mio robone mi copriva le ginocchia. Lo vidi mentre sceglieva per me una penna poi disse: ”Scrivi”
Scrissi le lettere, le ferite, le parole, i versetti, le ‘surat’ i morti, gli slogan incisi sulle mura e perfino sulla terrazza della casa. “W MOC F.L.N. vaincra!” Disse: Scrivi: E quando ti chiedono a proposito delle mestruazioni, dì che è un male.
Rifiutai di scriverlo. Il vecchio mi punì severamente. Mio padre disse:” Non rendermi conto se non con la pelle, le ossa, il sangue”. Un sangue denso scorreva sui miei piedi. Non ho dimenticato il colore delle mia dita sporche di inchiostro e di gesso giallo (come è gialla la gru, il cui piede è incastrato nelle profondità della terra, con il braccio mobile, che si eleva negli orizzonti del cielo). Ho scritto sul foglio la parola POTAIN ora che sono passati 30 anni dal tempo di questa storia della scuola. La storia allora si infilava fluida tra le pieghe del mio corpo obeso, adiposo, flaccido. Non capivo allora perché aveva tante biforcazioni e tanti lineamenti. La mia testa era piena di Corano, di grammatica araba, di scienza islamica, di coniugazioni francesi, latine, di equazioni di terzo grado (X3+3X2-3X-1=0). Come ho fatto fra tutte queste materie a pensare a me? I bambini gridavano burlandosi di me: “Babba agina, Ukkel ettamina. Botti totti! (Bud Abbot)”.
Mi dissi: Un giorno ricorderò questa nostalgia infantile e la guerra atroce e il violento piacere nato dalla paura, dagli arcani della paura”
Il vecchio cieco diceva:” Fai ricordare, perché il ricordo è utile per i credenti”. (Tarik attraversò il mare...). non dimenticherò mai. Le dita dolevano. Le parole erano disperse. Il precettore diceva: Siediti”. Inghiottii la lacrima appena versata.
Mia madre disse: Non arrabbiarti è il tuo maestro. La luce scendeva dall’alto dell’olivo.
Il maestro dettava. Riempiva l’atmosfera di un immenso mistero e di fuochi divoranti. (Sapete quante belle donne questa isola ha fatto nascere! Figlie della Grecia ricche di perla e di corallo e di vari gioielli preziosi e residenti nelle corti dei re di corone). Donne lapidate e madri con mestruazioni.
Mia madre diceva: “Non arrabbiarti, capirai queste cose quando sarai grande...se tuo nonno fosse vivo ti spiegherebbe tutte queste questioni, anche pur essendo un comunista”.
Ho dimenticato le mie dita tra lo stupore. Il maestro mi faceva vibrare l’orecchio per la forza della strage. “Dov’è mia madre?”
La mia infanzia fu legata alla sua dura condizione. “Questo corpo infantile sbordava di obesità”. I suoi coetanei non ne ebbero pietà: “Babba smina, il suo ventre è pieno di tannina”.
Diventato grande ho scritto la mia violenza nel desiderio, nel kaolino, nell’odore dello shampoo mischiato ....nella lavanda, nell’inchiostro, nel sangue. Non ho mai dimenticato.

Alzai la testa. La gru gialla continuava nel suo perpetuo movimento. Ho preso una ricetta bianca; ho scritto: “Gente, dov’è la fuga?”.

1 penna rudimentale per scrivere sul legno.
2 un piatto tradizionale che si prepara in fretta per i contadini
3 il legno su cui scrivono gli studenti del Corano nel Kuttab
4 un'espressione che si usava una volta nei Kut¬tab, dagli studenti per chiedere al maestro di dettar loro altri versetti
5 di Kufa, una città dell'Irak in cui è nata quel tipo di calligrafia
6 gioco di parole della lingua araba
7 verso di poesia
8 fiume che attraversa Constantine, città di cui si parla in questo romanzo
9 secondo la leggenda coranica questi erano inviati da Dio per castigare l’armata degli abissini che intendevano distruggere la Kaaba, cioè la casa di Dio.
10 espressione di riconoscenza
11 un verso di un poeta arabo
12 città a nord di Constantine
13 versetto del Corano
14 una categoria di mussulmani che era fatta da mussulmani non arabi, prigionieri o figli di prigionieri delle conquiste
15 città spagnola nel Marocco di oggi
16 città dell’Iran
17 dell’orina
18 città nell’Est dell’Algeria, dove scoppiò la rivoluzione
19 colaboratore dei colonizzatori città nell’Est dell’Algeria, dove scoppiò la rivoluzione
21 strumento di punizione corporeo città nell’Est dell’Algeria, dove scoppiò la rivoluzione
22 coniglio
23 inchiostro preparato con la pasta della lana bruciata, che si usava per scrivere sulle tavolette di legno nelle scuole coraniche
24 cristiani
25 ringraziamo Dio
26 un abito per uomini che copre tutto il corpo- originario dell’Algeria
27 in berbero nel testo
28 allusione ad un versetto coranico
29 festa in cui si sgozza il montone
30 uccelli della leggenda coranica inviati da dio per castigare le orde degli abissini che volevano distruggere la Kaaba santa
31/sup> una specie di partigiano
32 costruirono i segni della speranza di vittoria
33 sei senza valore

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(ISSN 1824-6648)

Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 9, Numero 36
June 2012

 

 

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