El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

L'asino sulla terrazza

Abdelmalek Smari

Questo racconto è stato pubblicato nel testo la lingua strappata, edito da Leoncavallo libri, oggi ormai mintrovabile.

L’asino sulla terrazza

Haine, œil de cyclone,
Tu me fais tourner la tête
La langue s’emballe et s’allonge
Sans contrôle et roule dans ma bouche
Et distille venin sur venin et mord
Et fait mal et fait mourir.

Moktar.
“Il mondo come rappresentazione di Odio”

“Wanted for 5 dollars” è scritto su uno schermo gigante, uno di quei grandi schermi che lo Stato degli stati ha impiantato dappertutto, ovunque si vada nelle città dei paesi federali del mondo.
“Crime against the humanity”, si legge anche scritto con cristalli liquidi, e gentilmente, “thanks”. La gente si ferma per leggere le ultime notizie, una volta staccata dalla Tv, ma solo per un momento, il tempo di andare al mercato.
Tutti si guardano indietro e attorno a sé non soltanto la merce delle rose sintetiche a mille colori, ma anche i volti con i sorrisi impauriti. Stanno cercando qualcosa? Certo, stanno cercando delle stelle o, che è la stessa cosa, quei petti di pelle gonfi e protetti da paraproiettili e paralaser su cui è incisa una stella di seta sintetica e a mille colori.
Gli “SS” sono le persone portatrici di quelle stelle su quei petti di pelle gonfi di protezione. Quegli “SS” non sono nient’altro che gli efficientissimi servizi segreti: non c’è niente che gli sfugge, non sono come i loro colleghi e rivali del servizio di ingegneria di schedatura, i “SIS”. Ad essi capita, quando devono schedare una persona, di contare per esempio di quanti litri di ossigeno al giorno un cittadino possa avere bisogno o di quanti grammi di carote sintetiche necessitino gli occhi di una persona per poter seguire le immagini-notizie alla Tv o sugli schermi.
La differenza tra questi due corpi risiede dunque nel fatto che gli “SS” sono spietati. Infatti Moktar, per esempio, parlando alla propria ombra - l’unica confidente in questi tempi di massima inquisizione e di massimo sospetto - li chiama gli Schiavi Spietati. Quanto ai “SIS”, pur essendo essi più clementi, egli non li considera nemmeno!
Per disprezzo? Forse. I “SIS” sono più clementi nel senso che, se gli si chiede perdono, anche se un minuto prima si è insultato lo Stato degli stati, essi perdonano. “Basta confessare e collaborare”, ecco la loro parola d’ordine.
Tutti i cittadini hanno commesso qualche reato, da quello imperdonabile di sospettare del fondamento di ogni minima informazione che lo Stato degli stati soffia nelle anime buone dei cittadini - e non c’è un’anima cattiva, dice Moktar, ma ci sono parecchie anime impaurite - a quello minimo di stancarsi prima dell’ora, passando per quello di dimenticare di menzionare ai “SIS” una boccata di ossigeno che magari si è presa in più rispetto alla quota ad essi riservata.
Tutti hanno commesso dei reati che entrano in questo ventaglio di delitti. Tutti hanno confessato il proprio reato. Tutti hanno giurato fedeltà e collaborazione. E tutti, alla fine, hanno accettato di denunciare e catturare, vivo o morto, il “Wanted”. Per quanto riguarda il premio, i cinque dollari, tutti hanno giurato di lasciarli nelle casse del tesoro federale. Ai signori tutti gli onori.
Il “Wanted”, alias Moktar, si è giurato di non confessare e di non collaborare. “Che cosa vogliono da me? Confessare, che cosa? Collaborare? E’ una parola la cui definizione non ho mai incontrato in nessun vocabolario, né nella storia, né nel mondo!” dice Moktar alla sua ombra, come se cercasse di resistere ad una velleità cieca e purulenta di vile e puro masochismo.
Si è sparsa la voce che egli non riconosce né reato né giudice. Questo significa, nell’etica mitica dello Stato degli stati, il reato dei reati. Ciononostante, i “SIS” cercarono di salvarlo, vollero perdonargli; “errori di genio” - dissero - o magari “errore di gioventù”. Ma lui, Moktar, non volle. La sua ombra morì di paura, quando le raccontò la sua decisione: “Nel nome della mia dignità”, disse, “dichiaro guerra allo Stato degli stati.” Così, lo Stato degli stati - sotto il regno della sua illuminata, clemente e spietata guida, detta Hagiadj Tritapalle - gli dichiarò guerra “nel nome della sua arroganza”, come dice Moktar, che ama anche giocare con le parole.
Quando lo Stato degli stati dichiara guerra a qualcuno, l’universo stesso non lo lascia tranquillo finché non lo riduce alle ceneri, al fumo, al nulla.
Le immagini di Cartagine e di Nagasaki, di Bagdad e di Belgrado sono ancora presenti nella mente dei cittadini coi sorrisi impauriti e le boccate di ossigeno contate fino al minuto. Forse sono queste immagini che terrorizzano i cittadini schiavi dello Stato degli stati, ancora fino ad oggi, fino agli albori del XXII° secolo della nostra era. Forse è questo il terrore che insegna a questi cittadini di stare attenti a tutto ciò che gli sta attorno, dietro, sotto e sopra, e a tutto ciò che può rimanere nascosto in ogni angolo della loro coscienza viva e di quella remota, “della loro coscienza che non c’è”, come fa notare Moktar.
Seguono poi altri scritti in alcune lingue volgari che sopravvivono ancora e che fra poco tempo, comunque, dovranno scomparire per lasciare il posto ad una lingua unica per il popolo unico: ed il tutto per la gloria del Hagiadj, unica guida ispirata dell’unico Stato degli stati.
“Ein volk, ein stadt, ein fùhrer” come ama ripetere Moktar alla sua ombra, terrificata ma rassegnata, e stesa sul muro o il pavimento. Gli unici, pavimento e muro, che sono rimasti refrattari all’architettura imposta ai cittadini!
“L’architettura della trasparenza”, orgoglio e fiore della vanità del capo dello Stato degli stati. Una strana architettura del resto in cui tu vedi palazzi interi costruiti in vetro. “Tutti spiano tutti!”, dice Moktar scandalizzato, “piuttosto vivere in una tana che essere preda degli sguardi delle spie!” spiega Moktar intrattabile.
Seguono quindi, in quelle lingue testarde, altri scritti come: “Oltre ciò, tutto è eresia. Abbiamo ridotto le insolenti onde di tutti i mari e quelle degli oceani a dei semplici tremolii inoffensivi, e soprattutto poetici. Abbiamo atterrato le Rockies, le Ande, le vecchie Alpi e il tremendo Himalaia. Abbiamo spento l’Etna ed ogni vulcano. Abbiamo dato all’umanità generosamente la nostra lingua, la nostra cultura e i nostri culti e costumi. Abbiamo diffuso ritmi universali, su cui l’umanità balla e ballerà fino alla fine dei secoli. Abbiamo ideato uno stile ed una Westetica senza pari. E sempre con prodigalità, li abbiamo regalati a quelli che, ancora mezzo secolo fa, erano delle scimmie che vivevano nelle arretrate terre lontane: indios, aborigeni, pigmei, schiavi neri e bianchi slavi, arabi musulmani...
La tuttacola si trova dappertutto sul globo. Essa, come si sa, ha contribuito molto ad innalzare queste orde di scimmie al rispettoso livello di esseri umani. La tutta cola ha il maggior merito nell’aver civilizzato, sempre con generosità, questa nuova umanità ancora grezza e rozza, cretina e degenerata”.
Il messaggio tace. Parte una musica, tipo marcia trionfale, che Moktar paragona a quel genere di musiche imperiali che si sentono una volta in un secolo, come ad esempio quella che le tribù teutoniche, nel lontano 1940, per 30 giorni, avevano fatto ascoltare ai prodi e pacifici soldati francesi. Costoro, dopo una vana resistenza, arresisi all’evidenza, si erano messi ad applaudire il trionfo e la marcia dell’aquila pesante e appesantita dalla croce uncinata.
Gli “SS” ed i “SIS” hanno anche loro come simboli un’aquila e una croce. La differenza fra di loro è che gli “SS” hanno, in più, delle stelle e non perdonano. Ma tutti e due hanno scelto di non usare la croce uncinata.
“Così”, commenta Moktar senza ridere, sempre di fronte alla sua ombra terrificata, “la storia non si confonde. Così si saprà per sempre che gli “SS” e i “SIS” del XXII° secolo non hanno niente a che vedere con gli “SS” delle tribù Teutoniche del lontano XX° secolo”.
“Guardate!” riprende il messaggio. Tutta la gente, nel mercato, si mette a guardare. Non importa dove. Il messaggio continua imperturbabile ed imperioso, sempre nel volgare in via d’estinzione: “Guardate le spiagge! C’è qualche scoglio forse che vi da’ ancora fastidio? Non è qui forse uno fra gli infiniti segni della nostra superpotenza intramontabile? Se siete convinti, gridate, come un sol uomo: gloria allo Stato degli stati! gloria alla lingua unica! gloria al suo padrone e giudice illuminato e giusto! I nostri occhi sono nel cielo e nella terra e in tutti i mari ed in ogni angolo di questo nostro universo, nei più ritirati angoli delle vostre coscienze e nei paesaggi dei vostri sogni. Gridate come un sol uomo!”
Tutti gli abitanti della terra allo stesso momento, “e tale un drago”, come ama dire Moktar alla sua ombra, tale un gigante metamorfosato, un mostro con miliardi di bocche sputano: “Gloria allo Stato degli stati! Gloria alla lingua unica! Gloria al suo padrone e giudice illuminato e giusto!” E il messaggio, “Ancora!” E la folla come folle “Gloria!”. “Ancora!”. “Gloria!”. E il messaggio: “Guardate!” E la folla, agli ordini, agli agguati, guarda il nulla e il tutto. E il messaggio: “Esistono forse ancora dei deserti roventi? Esistono ancora forse le tundre? Le carogne degli eretici e delle eretiche sono servite almeno per fertilizzare questi deserti insolenti e salvare milioni e milioni di esseri umani che hanno davvero il diritto di vivere e di curare la loro nobile pancia!”
E la folla, in un ultimo respiro ansimante, “Gloria! Gloria!”.
Il sole rovente arrostisce già da un bel po’ i volti esaltati e sudati dei fedeli sostenitori. “Chi non è fedele, del resto, oggigiorno sulla faccia di questa terra?”
“Persino gli abitanti della luna e di Marte devono fermarsi ogni due ore terrestri - sotto la pioggia come sotto il sole, nel mare o sotto terra, camminando o a spasso per il cielo - come in un saluto militare, ripetendo gloria e altre fesserie”, spiega Moktar alla sua ombra, stesa sulla parete della sua tana.
Moktar è un uomo, un vero uomo. Ovviamente, egli non ha mai creduto a ciò che egli chiama con piacere “vane orgogliezze della razza degli arrivisti, i cafoni della storia!”.
Qualcuno lo avrebbe chiamato l’idrocefalone, a causa della sua testa, talmente grossa che sembra un cervello dalle braccia e gambe minuscole. Visto da lontano, perfino a un non - miope, Moktar può sembrare una schifosa bestiola.
“Abbiamo dato generosamente - continua il messaggio - i nostri nomi ad ogni regione e ad ogni angolo della terra e degli altri territori stellari conquistati da noi. Noi, gli unici discendenti delle migliori razze della specie umana! Come mai Moktar non è ancora convinto della nostra supremazia? Come mai Moktar rifiuta ancora di convertirsi? Come mai proprio lui, figlio dei popoli di una razza che si trovava nella più bassa scala degli esseri intelligentizzati e civilizzati, rimane così ostile e ingrato?
Sapete, gente, che prima o poi i nostri efficientissimi “SS” con i loro colleghi, i “SIS”, riusciranno a stanarlo, a localizzarlo, ad identificarlo. Allora, quella schifosa bestiola avrà ciò che merita. Nel nostro vasto territorio stellare, un metro cubico di qualche giardino avrà ancora bisogno della carogna di quell’eretico scellerato e dei suoi complici, ombre vigliacche! I nostri ricercatori sono sulla giusta via. Fra poco, cara gente, avrete quella che può essere, con ogni probabilità, la sua immagine, sugli schermi di ogni angolo dell’universo. Ovunque siate, genti, fedeli del magnanimo Stato degli stati, potrete avere il piacere di seguire il suo processo giusto e la crudele sorte riservatagli. Vi assicuro che lo spettacolo vi piacerà. Sarà uno spettacolo molto divertente. Ve lo assicuro.”
“Il preside della mia scuola media mi ha sempre trattato male! Mi diceva: ‘Deficiente, vai a pascolare le pecore!’.
Conoscevo, allora, solo le lingue volgari. Quanto alla lingua che ogni essere intelligente deve imparare, per decreto di Newaschimarte (la nuova capitale dell’universo stellare che regna anche sulla terra), a svantaggio di ogni altra lingua, l’unica viva, secondo il preside - spiega Moktar prima di uscire per andare al mercato - io non la conoscevo ancora.
Ma più tardi, quando sono diventato bravo anche nella lingua ufficiale, che loro chiamano universale, cosmica - perché bisogna pure essere a volte figlio della propria epoca, seguendone, come un assiduo scolaro, gli alti e bassi d’umore, la cretineria e l’intelligenza - e quando anche lo stesso preside sentì parlare di me, della mia capacità straordinaria e del mio talento nella lingua cosmica, invece di apprezzarmi, egli vide in me, anziché una persona degna di tutto rispetto, un asino! L’invidia lo rese pazzo o miope!
Mi disse, davanti ai compagni e alle compagne di scuola: « Un asino sulla terrazza! ».
Ero ancora bambino. Avevo meno di quattro anni e sapevo già la maggior parte delle cose che un mio coetaneo poteva conoscere; a parte le quattro lingue volgari che amavo, avevo imparato a meraviglia la sedicente lingua cosmica o, se vuoi, newashimarziana. Sai che cosa avevo risposto al preside? Gli avevo detto, « sei tu l’asino! solo che a te sono vietate le terrazze », guardandolo dritto negli occhi.
« Da quel momento, mi raccontava mia madre arrabbiata, sei diventato insolente, perché hai mancato di rispetto verso il tuo signore e giudice. Se adesso sei così, è colpa tua. Il potere benefico del signore è grande ed è altrettanto grande il suo potere malefico! ».
Se ho la testa così grossa da non poter penetrare in nessun modello o modellarmi su nessuna forma, era forse colpa mia? Guardami! Sono un ragno. Ma che sto dicendo? Una schifosa bestiola. In fondo non mi viene mai di compiangere la mia sorte. La voglia di respingere l’umiliazione micidiale alla quale il preside mi aveva sottoposto era forte. Quanto è bello essere costantemente ribelle alle umiliazioni dei signori che si fanno anche giudici!!
E’ da un po’ di tempo che voglio mangiare della frutta biologica. Ne ho abbastanza di quella fittizia, artificiale, industriale, sintetico-chimicale e micidiale. L’ultima volta che l’ho voluta comprare risale a due anni fa. Due anni senza mangiare! E non credere che l’abbia fatto per masochismo o per sciopero della fame. Io non aiuto mai il mio boia a torturarmi o a liquidarmi. Mai!
Due anni di vita nell’oscurità e nel buio totali! Qualcuno avrebbe perso la ragione o il senso della dignità! Magari si sarebbe prostituito o lasciato ricattare. Due anni sotterranei perseguitato da tutti gli strumenti umani e disumani messi e promessi dallo strapotere newashimarziano e dal suo Hagiadj, presidente dello Stato degli stati.
Ciao, ombra mia. Ciao ombra vera, fedele e unica affidabile! Macché! Mi segui? Non hai mica paura se tratto così come si deve un tiranno? Lui ha le armi da fuoco, io invece ho questo fumo di parole che fanno male soltanto alla bocca da cui escono! E poi, questa storia, bene o male essa finirà un giorno, no?
Allora, perché si deve aver paura, se c’è comunque un termine? Magari vuoi assistere allo svolgimento della mia sorte? O forse vuoi avere il privilegio di dire un giorno che mi sei stata accanto nei grandi momenti di gioia e di dolore?
Dicono che non ci sono eroi, a parte Hagiadj, povera ombra mia, che tremola come una meschina anima e si ritrae dallo spazio ogni volta che sente parlare male di un male!
Prova a camminare per le strade e vedrai che troverai eroi
Sconosciuti, ma umili nella loro grandezza.
Continua a camminare e guardare e vedrai altri eroi
Fra i morti stessi, anche fra gli oppressi avvolti nel buio e nei silenzi,
Donne che continuano ad amare e partorire,
Uomini che continuano a sorridere sotto il sole rovente,
Nonostante la vigliaccheria a cui la paura li costringe,
Freschi bambini ribelli che non hanno paura di scalare sempre
In alto verso le terrazze, lontano dal sembrare asini,
Là dove i giardini babilonesi sono ancora fioriti e più rigogliosi.
Se questi eroi non sono famosi, la loro sensibilità
ed il loro amore sono grandi ed eterni.
If you looking for a hero look arround.

O forse, vuoi che un giorno si dica di te che mi hai seguito fin dalla nascita, come un destino sino alla mia morte?
E’ vero che mi sei stata utilissima in questi anni di assoluta solitudine, quando la paura dello Stato degli stati - che poi non è nemmeno padrone di se stesso, figuriamoci se si mette a convincerci d’essere il padrone dell’universo! - ha ridotto le anime e le sensibilità vive e ribelli in eroi silenziosi, che appena trovano la forza per sputare nell’aria fetida e viscosa qualche “gloria” a quello che si è arrogato lo statuto di signore.
Io continuo a chiamare Hagiadj: culone. Cosa ha più di me, se non un ventre da vitello, una testa da vitello, un culo, anzi un pozzo come culo?
Cazzo! Ho dimenticato di pettinare la barba! Devo nascondermi dietro, altrimenti, sono cotto. Non è che abbia paura dei supplizi o della morte! No! Non voglio che Hagiadj abbia qualche ragione per vantarsi d’intervenire nelle piccole e grandi faccende della vita di un uomo libero come me. No! Non voglio che Hagiadj o i suoi vassalli, di sotto o di sopra, di destra o di sinistra, non voglio che questi coglioni mi prendano e mi facciano subire un destino che proprio lui, l’innominabile, avrebbe scelto per me.
No! Se è riuscito finora a costringermi a vivere nascosto, clandestino come una volta gli immigrati di alcuni paesi in altri paesi, ciò non ha alterato l’affetto che ho per lui. Anzi, ogni minuto che passa, la mia stima ed il mio amore per lui si moltiplicano. Lo amo e lo stimo come un vigliacco ama la morte. Lo voglio lontano dall’universo. Lo voglio nel nulla. Lo voglio inesistente. Il mio amore è così; una volta mi hanno fatto un test attitudinale, mi ricordo che quel test era per entrare a fare parte del comitato redattore di un quotidiano della sedicente lingua universal - co(s)mica. In quel momento, tutto in me manifestava che io, quando amo, amo da morire.
Mi hanno fatto delle domande sulla grandeur della lingua ovverosia la longueur (la lingua di Hagiadj?). Allora, io risposi coerentemente con tutto ciò che mi ispirava la mia sensibilità. Ero tutto amore e passione per quella lingua. Il testatore - verificatore mi diede due pacche sulle spalle tali da strapparmi una raffica di tosse: « Tu, quando ami, ami con passione! Complimenti! » « E quando odio, cercai di chiedergli, ma non lo feci? ». Anzi, lo spavento mi tolse via le parole prima che uscissero. E lui, che credeva di indovinare la mia domanda, aggiunse, sparendo: « Con passione ».
Ma che cosa, ombra mia, tu - la calpestata ribelle che riesce sempre a calpestare il piede che pensa di calpestarti - che cosa vuoi da me? Non sono l’unico eroe.
Cazzo! E’ da un secolo che io cerco di pettinare questa barba dietro cui mi nasconderò, ma tu mi distrai. Lasciami fare per cortesia. Io non ho paura della morte.
La morte, per gente come me, è una specie di metamorfosi, né più né meno. Il nulla? E’ una creazione. Anche il nulla è vita; può esserci e può non esserci. E’ vivo. Non pensare che esso sia una specie di non esistenza. La morte è il nulla. Tutti e due possono essere delle tappe degli stati della materia sparsa nello spazio a geometria variabile. Ecco perché non c’è nella mia filosofia nulla da invidiare al sedicente padrone e giudice dello Stato degli stati.
Chissà perché il discorso sui dittatori fa saltare alla mente sempre il discorso sulla morte? Ecco perché mi considero - e lo sono davvero - come un eroe. Il resto - soprattutto quando questo resto fa parte dalla specie di Hagiadj - per me non ha nome, non ha importanza”.
Moktar si guarda poi nello specchio e dice alla sua ombra: “Sembro vecchio nonostante i pochi secoli della mia vita. Taglierò seduta stante questa barba della vergogna. Questa barba dei vigliacchi. Non devo più nascondermi. No! E’ contrario alla mia etica.”
Subito prende una macchinetta e si mette all’opera. Man mano un volto cupo, agitato, tormentato, sofferente prende forma. Aggettivi che non valgono che un istante, per poi svanire e lasciare al loro posto altri aggettivi più sorridenti e sereni. Stupito dalla sua giovane bellezza, per anni nascosta o gelosamente custodita, i suoi occhi si bagnano. E le lacrime “di gioia”, dirà qualcuno di fuori, gli riempiono in un lampo gli occhi, blu come il blu dei mari nelle burrasche.
Perché ha dovuto nascondere la sua bellezza quel giorno lontano, quando era ragazzino? Perché ha dovuto accettare il ricatto dell’amico? Questi gli pose la condizione, prima di invitarlo al matrimonio dello zio, di chiudersi dentro una sorta di cappuccio, che nel suo paese si chiamava Gellaba. « Deve essere una gellaba bianca, ma sporca e puzzolente, gli aveva spiegato l’amico, così, le ragazze non faranno attenzione a te, tanto la tua bellezza sarà nascosta ».
“Era l’unica grande cazzata e vigliaccheria che avevo mai fatto durante la mia fanciullezza” dice Moktar all’ombra, che è rimasta sospesa, sulla soglia della porta, vicino allo specchio raggiante.
“Del resto, era un comportamento ereditato dalle nostre donne, quando una volta le orde franche andavano nei paesi altrui per umanizzare o civilizzare, come dicevano loro, i popoli vittime del processo storico. Insomma, franchizzarli! Un tale processo si chiama ai nostri giorni processo di tuttacolare.
Allora le nostre donne, che non amavano mischiarsi con i porci - la parola era loro -, si spalmavano, dai capelli fino alla punta degli innocenti piedi, con della merda. Pare che, per combattere la porcheria dei tiranni umanizzatori, si debba essere più porci di loro.
Così le nostre prodi e valorose donne hanno fatto una scoperta geniale: la merda, laddove non ci vuole, non attira più gli stormi di mosche e le loro larve.
E’ stata una vera e propria scoperta, no? Ma con chi sto parlando? Con la mia ombra? A che serve? Non devo più nascondermi. Guardami, non sono bello? Altrimenti Assia non mi avrebbe amato.
Quando, scolaro, sputavo sul banco per pulirlo dall’inchiostro, era l’unica che aveva trovato il gioco innocente e divertente. Il resto dei compagni dicevano: che schifo! Che schifo! Assia, no.”
Di colpo, la sua testa sembra più proporzionata al resto del corpo. “Te lo dicevo che ero bello, no? Caspita! Potevo fare così da secoli! Chi si sarebbe accorto che si trattava di me?
I loro strumenti, pur essendo extra sensibili, non mi avrebbero scoperto. Una spia umana, invece, sì che ci sarebbe riuscita.
Le macchine hanno di me un identikit molto sfavorevole. Per loro sono brutto e questo le induce in errore; quando mi vedono, la prima cosa che viene loro in mente è di dire: questa persona è bella. Non può essere il mostro che tutti gli inquisitori del mondo stanno cercando. Invece gli uomini sono diversi; anche se non sei così brutto, essi, quando vogliono, fanno di te un mostro. Hai capito? Una sorta di maccartismo.
Infatti loro, quelli di Newashimarte, sono abituati al maccartismo. Del resto, si dice che siano stati proprio loro ad inventarlo. Maccartismo, ecco la parola!”
Moktar rammenta il lontanissimo XX° secolo, in un paese chi si chiamava, anche lui, guarda caso, gli Stati! “Era la più mostruosa fra le più grandi congiure di quel maledetto secolo” racconta Moktar alla propria ombra, che si è spostata nel frattempo dalla parete verso lo specchio, forse perché voleva distrarsi un attimo dal terrore o uscire dalla solitudine forzata in cui la mette sempre Moktar. Questi, comunque, si vanta, con tutta la legittimità del mondo, di avere il diritto di disporre del proprio riflesso, che sia ombra sul pavimento o sulle pareti o immagine a colori sullo specchio. Se c’è una cosa che egli considera come una proprietà privata, assolutamente sua, questa cosa è il proprio riflesso.
“Sembra, continua Moktar, che le cose stiano ancora dove le ha lasciate quel lontano XX° secolo! Era una congiura contro l’umanità dell’uomo, contro la libertà politico - estetica degli artisti, che si misero così, come per incanto, a sfidare il potere, caotico - arrogante e vuoto di ogni sensibilità, dei mercanti di quel paese. Uomini grandi e orgogliosi che il terrore e la paura per la libertà e per la pelle costringevano a fare il gioco del boia. E credimi, il gioco del boia è terrificante, eppure c’era gente per bene che accettava di farlo sugli altri, per non esserne il campo o farsi da cavia.
Quella gente perbene scongiurava il boia facendo il boia, finché un giorno si sono tutti svegliati con attorno al loro capo un cappuccio nero che aveva la forma grossolana e buffa del terrore dei cappucci del Ku Klux Klan. Solo che il cappuccio dei futuri maccartisti era nero, mentre quello del Ku Klux Klan era bianco, stranamente! Come pure era strano per gli etologi che la gente considerasse la colomba bianca (o anche il colombo bianco) come simbolo della pace!
« Come è possibile, s’indignano i nostri etologi, scegliere proprio l’animale più aggressivo in assoluto per farne il simbolo della pace!? »
Ironia della sorte o ironia di gente ignorante? Forse entrambe le cose... forse.
Colombo, (il genovese?), è stranamente considerato come il responsabile di due o tre paia di secoli di genocidio! Chissà perché? Forse perché anche lui si chiamava Colombo. ..forse. “Comunque, anni più tardi… “- continua Moktar a raccontare all’ombra, zitta e fedele come.., come dire? come un’ombra. Sì, proprio così! - “Quando lo Stato degli stati si mise in testa di cancellare ogni brutto ricordo, ogni cattiva memoria controproducente, dalla memoria delle persone, al fine di liberare i suoi cari cittadini da ogni forma di incubi della veglia e della memoria cosciente, esso ricorse agli psichiatri ed ai lobotomisti.
Grazie ai farmaci e ad altri interventi chirurgici a livello dei cervelli, i medici hanno tolto la capacità di ricordare gli incubi, ma non gli incubi stessi. Altrimenti anch’io mi sarei dato volentieri a questo tipo di interventi. Ma io so che gli incubi esistono ancora, e come!” ripete arrabbiato un po’ più del solito.
“Così lo Stato degli stati crede di aver messo a punto una strategia, demagogica ovviamente, ma secondo gli esperti estremamente scientifica ed efficace, per cancellare la cattiva memoria e rendere la vita più allegra, più sorridente”. Insomma, più imbecille possibile, come ama a dire Moktar.
E’ in questa fase critica della storia della costituzione di questo super stato che Moktar entrò in un violento scontro con la massima autorità, Hagiadj in persona! Fu lo stesso Hagiadj poi a fare, del suo dissenso con Moktar, un affare di stato, quando decise di coinvolgere persino la polizia di stato nascente.
Preoccupati per la trasparenza e per la necessità di stabilire saldamente il giovane stato cosmico, i dignitari invitarono una volta un neo convertito - un uomo forte, ultimo osso o sasso che rendeva la vita difficile all’impero cosmico nascente - a fare una relazione appunto sull’argomento del maccartismo.
“Diceva il relatore neofita e mistificatore” come raccontava Moktar: « Chi osa ancora oggi parlare del maccartismo!? Sfido chiunque a provarne l’esistenza storica! »
“L’iper - anfiteatro e tutte le piazze e abitazinoni del mondo esplosero in una raffica di applausi. Io, diceva Moktar per demarcare la posizione giusta e coraggiosa che era la sua, io in quel momento ero appena sbarcato nel paese in cui si svolgeva la conferenza. Come giornalista, mi si è data l’occasione d’essere il più possibile vicino all’irraggiungibile neofita mistificatore. C’era un chiasso insopportabile.
Ma io riuscivo a sopportarlo, perché, non lontano da me, c’era una bella femmina. Mi guardava con qualche interesse. Il mio cuore si rallegrò. Le sorrisi. Rispose al mio sorriso, fece qualche passo verso di me e disse: ‘Che sorriso!’ Ed io: ‘Se ho ancora un sorriso di quelli franchi e non impauriti è perché ho rifiutato di farmi lobotomizzare. Non voglio morire, perché trovo ancora assurdo chi mi ci costringe, proprio nell’epoca in cui la morte non è più necessaria.’ E lei, come il sordo nel concerto: « Che bei denti hai! ». Ed io: « L’ultima volta che una femmina mi ha fatto un complimento del genere, abbiamo finito tutti e due nudi, come dei vermi che si rispettano, in un letto stretto. Poi aggiunsi: In un letto... non di ospedale, ovviamente. Non mi ricordo però, se era a casa sua o nella mia tana ». E lei, divertita: « Anche io voglio finire in un letto, con te, ovviamente non in ospedale ».
Le femmine sono così, ti mettono in fiamme, ma mai accettano di spegnere il fuoco che ti consuma. Che vuoi? sono femmine! Guardai, e lei non c’era più. Il silenzio che ebbe luogo all’improvviso mi tolse dalla mente l’immagine di quella femmina.
Seguirono, dopo, un silenzio, poi un altro chiasso e poi ancora un altro silenzio. Approfittai della tregua; lasciai esplodere, nell’aria ancora euforica: « Come mai, ora, lei signor relatore, come mai... » E lui: « Sì, sì, certo. Qualche arresto per controllo di routine. Qualcuno aveva perso il suo posto di lavoro. Nient’altro di più. Dopo un breve tempo, tutto era rientrato nell’ordine ».
Un altro frastuono di applausi. Volli aggiungere o meglio, formulare, la mia domanda. Sentii vicino al mio orecchio una vocina minacciosa: « Per cortesia, ti ha risposto! Ora lascia lo spazio ad altri interventi mille volte più sensati! » Poi, altre voci di dietro: « Non sei convinto? Sei proprio scemo! Ma da dove esce questo qua?! Che stress! Che barba! ».
Per fortuna, avevo la barba! Approfittai di un altro silenzio: « Signor relatore... » E le voci si esasperarono: « Ancora…! » E il relatore, comprensivo e tollerante: « Lasciatelo pure, siamo in un paese strademocratico ».
Un’altra raffica di applausi. Un altro silenzio e poi la mia voce, più determinata che mai, più democratica che i democratici stessi: « Vogliamo dei veri testimoni! » E lui: « Non ci sono più, purtroppo! » Ed io, spietato: « Lo strastato li ha lobotomizzati! ».
Seguì un caotico e gigantesco frastuono di sdegno e di proteste: «Cacciatelo via! Ma che maniere! E’ uno straniero! Viene dal buco del culo del mondo! Ma che cazzo capisci? Ritorna piuttosto a pascolare la capra e il cammello! Proprio a noi, gente di gran cultura, vuoi dare delle lezioni!?>>
Qualcuno, nella confusione totale, afferrò il microfono e, con enfasi, con una specie di entusiasmo militante, se non soldatesco: «Signor Relatore, nel nome della gente civile e ben educata qui presente, le chiedo di scusarci per l’intrusione di questo cafone, di questo pagliaccio di giornalista, volgare, grossolano e stupido!’
Insomma, un asino sulla terrazza! ».
Sembra che il destino sia una macchia indelebile, che quando tocca l’abito della vita, non se ne stacchi più. E così, cara ombra, lasciai quella orda in furia e scappai. All’indomani, iniziò la mia caccia ed il mio divertente calvario.
Da allora ebbi un sogno ricorrente per anni e anni: un asino che si tiene dritto sui piedi. « Cazzo! - ripetevo ogni volta che lo vedevo - Non soltanto i sedicenti esseri umani sono capaci di erigersi. » Questo asino aveva uno scettro nella mano e davanti a lui stavano una fila di esseri umani fra cui c’era anche Hagiadj. Tutti erano prosternati in un sacro silenzio. Si trattava di un tempio? Forse. A un certo momento, l’asino ruppe quel silenzio con la sua solita bella e serafica voce.
Stranamente, tutti quelli della fila, uomini e donne, guardarono Hagiadj. Egli sudava e, senza perdere tempo, si mise a spogliarsi. Tutti lo guardavano. Tutti cercavano il suo pisellone. Qualcuno sicuramente aveva sparso in giro che le sue palle pesavano più di quelle dell’asino. A questo punto gli sguardi si voltarono nuovamente verso le palle e il pisellone dell’asino. Ma questo era già dietro Hagiadj, che aveva il sedere rosa e nudo. La folla guardava in un silenzio da tempio. Hagiadj gridò. La gente sputò: « Gloria! ».
Poi tutti si spogliarono, mentre sollecitavano l’asino ad incularli come aveva fatto con il loro padrone.
Mi sono reso conto che io, lontano dall’invidiare quella folla e il loro legittimo piacere orgiastico, e magari anche orgasmatico, ero lì in disparte che ridevo divertito. L’unico dispiacere era quella nuvola tricolore che ogni tanto rattristava il divertente panorama. Sarebbe stata anch’essa presa da qualche vento o fuoco di partecipare a quella orgia o a quel orgasmo? Forse.
Fatto sta che quella nuvola mi passava di tanto in tanto davanti, creandomi sul viso delle ombre scure. Allora un paio di domande mi assalivano, sempre le stesse: « Chi è questo eroe che sta inculando perfino Hagiadj? Ma l’asino ha inculato anche me? ».
Mi guardavo attorno. Non c’era nessuno fra gli inculati che mi stesse vicino. E la nuvola si spostava per appoggiarsi, con tutto il peso di ombre che aveva, sul viso di Hagiadj. Così, quando aprivo gli occhi, mi rendevo sempre conto che ero allegro”.
Moktar continuava a sognare. E continuava anche a ricordare nei loro particolari tutti i sogni che egli riteneva pertinenti.
Un giorno, quando lo strastato proibì la cultura della barba, egli fece un sogno che raccontò più tardi alla sua ombra: “Un asino arrabbiato” disse “correva, tutto agitato. Mi ricordava quello che andava all’università di Costantina, solo che questo non aveva finito i suoi studi. Era vestito di una giacca che aveva quasi gli stessi colori dei vestiti di Hagiadj. Ed io dicevo, « Poverino! Ormai assomiglia a quei cani milanesi senza difesa che subivano, nel silenzio di quei templi antichi, i capricci perversi dei loro cura(tortura)tori, che impedivano loro di mangiare, quando volevano, la cacca di ogni tipo e soprattutto quella buona, che i cani trovano squisita, quella umana. Li vestivano come quei vermi di una volta, che ormai si fanno passare per esseri umani. Povero asino! Adesso lo sterilizzano. Adesso lo portano a forza in chiesa, come quel cane che andava anche lui a celebrare la messa della vigilia di Natale, alla chiesa di Sant Ambrogio. Adesso... Ades... »
Mi svegliavo con queste lamentele con una bocca amara di sete.
Tra l’altro, io ho sempre fatto e disfatto la barba. Quanto ai vestiti, tu sai che ho deciso di non indossarli più, per solidarietà coi cani milanesi. Se i cani, intelligenti come sono, non riescono a difendersi da questa umiliazione secolare, devo custodire io la sana tradizione di vestirmi come il Re della fiaba”.
Infatti Moktar passeggiava sempre nudo, e soprattutto senza barba, quando gli andava di disfare la barba. Ovviamente, egli non aveva dei testimoni, a parte la sua ombra impaurita ma sempre estesa sulla parete. Saluta ed esce.
Appena fuori, Moktar si aspetta di trovare una bellissima e luminosa giornata, dopo anni e anni di prigione e di persecuzione e di delirio e di nostalgia e di amore represso con altri capricci deliziosi. Invece di quella bella giornata, egli si trova in mezzo a una nuvola nera che gli rammenta il colore della bandiera rosso sangue, poi nero destino, poi ancora rosso sangue, poi giallo - sporco - viscoso, colore vermi e odore da carogna.
Moktar sapeva che, quando lo Stato degli stati sarebbe caduto, l’universo intero avrebbe puzzato. Sapeva questo e sapeva anche che ogni corpo che s’ingrossa è una carogna in potenza, un corpo in via di decomposizione. Ma non si aspettava che fosse così vicino.
Con sua sorpresa, quella nuvola nera lo avvolge, lo prende e lo schiaccia. Lui non ha il tempo di capire il rumore che fa quella folla, o nuvola, e se sono cani o esseri umani... ma, il dovere purtroppo - questa voce del crudele destino - non smette un attimo di chiamarlo. Può non rispondere? No.
Si raccontava, quando era piccolo, una storia, un piccolo mito: c’era una voce strana in un paese che si faceva sentire solo dalle persone che stavano per morire. Chi la sentiva doveva rispondere e chi rispondeva doveva seguirla e chi la seguiva non ritornava più.
C’era un temerario che giurava sempre che, se mai un giorno avesse sentito quella voce, egli non avrebbe risposto. Gli anni passavano ed il temerario continuava a mantenere la sua parola. Ma ecco che un giorno il nostro eroe, che era in compagnia, credette di aver sentito la voce: “Mi chiamano” aveva detto agli amici “devo andare”. I suoi amici gli avevano ricordato la sua parola, ma lui doveva rispondere.
“Anch’ io devo rispondere” dice Moktar e canta:
Dans un monde régi par la terreur
La liberté choisit le camp de la folie
La solitude devient un chaud refuge
Y a -t- il alors, de plus navrant
Que d’imoler pour narguer la mort
Au bucher devant les temples
Sous le regard de Dieu et des hommes
La jeune rose à peine épanouie
Comme les rayons du soleil
Là où nait l’aube et dort l’arc-en-ciel
Qui, eux, se moquent bien de la mort
Et de ses serfs de vils bourreaux
Dans un monde régi par la terreur.

Milano 19 maggio 1999 01:00
Rivisto il 27 settembre 1999 12:30

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Abdelmalek Smari: il poeta della liberta'

A cura di raffaele taddeo

 

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