Tu sei arrivata in Italia giovanissima negli anni ’90. La domanda d’obbligo è quella dell’impressione che hai avuto dell’Italia di quel periodo, della sua gente, della sua politica, della sua cultura.
Sono arrivata in Italia con una valigia piena di sogni e altrettanta incoscienza. E, in fondo, forse le due cose si sposano perfettamente. Se dovessimo fare solo scelte ragionate, i sogni ne soffrirebbero molto. L’Italia che ho trovato era comunque drammaticamente diversa da ciò che i libri mi avevano insegnato. Ero in ritardo di un centinaio di anni. Niente romanticismo e tante cose pratiche da affrontare e a cui non ero preparata. Ma la vita è anche questo, non solo cose lette sui libri, ma anche realtà concrete, altrimenti si finisce per vivere in un mondo di carta pesta.
La tua vena di scrittrice è stata scoperta in Italia oppure anche da bambina, adolescente avevi questa tensione alla scrittura?
Le mie lettere sbavate sui pezzi di carta mettevano insieme storie e poesie da quando avevo cinque anni. Certo, prima che una favoletta scarabocchiata possa crescere e mutare in un romanzo, ci passa una vita in mezzo, ma ricordo che la cosa mi dava gioia e segreto nutrimento già da allora.
Passando alla caratteristica dei tuoi romanzi. Perché prendi in esame nei tuoi romanzi vicende che si situano all’interno di contesti dittatoriali, come quelli russi, afgani e romeni?
Bisognerebbe ridefinire il concetto di dittatura che, a mio avviso, si insinua nelle nostre vite sotto le forme più impensate anche nelle democrazie più indiscusse. Comunque ho scritto anche dei racconti che affrontavano argomenti diversi. Resta il fatto che mi piace camminare insieme ai miei personaggi in mezzo a contesti storici complessi, per cercare di capire, per loro e per me, come fare a restare in piedi anche sotto i venti più avversi.
Stai sperimentando diverse forme di scrittura (nelle biografie scritte su di te si legge che hai frequentato anche scuola di sceneggiatura), perché scrivi romanzi, racconti, poesie, teatro. Quali di queste forme espressive senti più vicine alla tua forma creativa?
Un po’ tutte. Ognuna mi concede un viaggio in una forma diversa di espressione, ed è una cosa meravigliosa. Ho frequentato i corsi di sceneggiatura con grande passione, e mi hanno insegnato davvero molto. Certo le mie sceneggiature non sono mai diventate film, ma la mia scrittura ha acquistato una dimensione diversa, diventando una specie di “scrittura per immagini” in cui mi trovo davvero a casa. Certe volte vedo una scena in ogni suo dettaglio, e solo dopo cerco di tradurla in parole. Probabilmente, se avessi talento per la pittura, il passaggio sarebbe molto più immediato.
Hai avuto difficoltà a scrivere in italiano dato che la tua lingua madre è il romeno? Quali sono stati gli ostacoli più significativi da superare nella espressione letteraria in lingua italiana?
Il passaggio à stato dolce. All’inizio la mia pagina era come un puzzle i cui pezzi erano tutti sparsi in giro. Avevo in mente il concetto e alla fine della storia tornavo indietro a completare quelle parole che non avevo ancora in tasca. Ma ne è valsa la pena. Si sbava, si cade, si sbaglia: sono tutti modi per andare avanti.
Quale è stata la tua formazione culturale, cioè quanto incide in te la cultura romena e quella italiana, e che cosa di questa ti sembra più significativa?
Entrambe. Si intrecciano e si completano in modo meraviglioso.
Ti sei stabilita a Malta e incominci a scrivere in inglese. Quale la ragione di questa scelta? Continuerai a scrivere in italiano o la lontananza dal suolo italico ti sarà di ostacolo? Non pensi che l’attenzione al consolidamento letterario di due tre lingue possa essere dannosa ai fini di una riflessione maggiore su temi e sensi della scrittura letteraria?
Ho seguito il vento, un desiderio di cambiamento, o chissà quale altra cosa misteriosa. Certo è che sono arrivata su quest’isola e mi ci sono innamorata. E’ difficile da spiegare come un posto che a malapena si può definire con un puntino sulla carta (ed alcune edizioni puntualmente lo ignorano!) possa darmi un così grande senso di libertà. Ma per ora è il posto che si più avvicina al concetto di casa.
Certo, continuerò a scrivere in italiano. Ormai mi è rimasto addosso come una seconda pelle. La lontananza non mi sarà di ostacolo. L’italiano è ancora parte della mia quotidianità, in tanti modi, compreso quello del dialogo con il mio bambino (dettaglio non trascurabile, dato che riesce ad esprimere certi concetti meglio di me). Potrebbe anche darsi che “l’attenzione al consolidamento letterario” di più lingue, come dici tu, possa, inevitabilmente, far perdere per strada qualche parola. Ma non lo vedo come un grande problema, dato che in cambio ci si arricchisce in tanti modi diversi, e spesso una lingua aggiunge concetti che l’altra non ha, e allora si cerca di trovarli, e così la nuova lingua che ne nasce acquisisce più sfumature. Può essere faticoso, ma è bellissimo.
Hanno avuto successo i tuoi scritti? Hai mai contattato qualche grande case editrice per cercare di far pubblicare da loro i tuoi scritti?
Lo spero, e forse anche il concetto di successo andrebbe ridefinito. Se per successo intendi vendite colossali, prime pagine sui giornali e il posto fisso nei dibattiti televisivi, allora la risposta è no. Ma se possiamo aggiungere al concetto di successo l’emozione dei lettori che ho avuto modo di incontrare di persona, il filo invisibile che si crea da cuore a cuore tra chi scrive e chi legge, le loro strette di mano e spesso i loro affettuosi abbracci, allora la risposta potrebbe anche contemplare un sì. Queste piccole cose danno senso alle mie notti in bianco e al mio domani.
Sì, ho contattato anche alcune case editrici grandi. Come ogni scrittore che ha già consumato qualche suola nel camminare e bussare alle porte, conosco il sapore dolciastro dell’incoraggiamento come conosco il sapore amaro del rifiuto. Gli inglesi le chiamano “rejection slips”, e richiamano molto il suono secco delle porte sbattute in faccia. In qualche fortunato caso, un rifiuto ben motivato e spiegato mi ha dato una preziosa lezione. In uno di questi casi, la casa editrice che mi aveva detto, anni fa, “stai sbagliando questo o quest’altro, devi ancora lavorare” è stata la stessa che, anni dopo, mi ha aperto le pagine della sua rivista e si è dichiarata pronta ad accogliere i miei libri. Ma questo succede davvero raramente, oggi il ritmo incalzante delle cose non concede nemmeno più lo spazio per un buon consiglio. Il più delle volte agli esordienti arrivano no secchi o, peggio, solo silenzio. Ho preso atto anche del fatto che spesso le grandi case editrici chiudono i cancelli prima ancora di leggere anche una sola parola di un nome che non fa rumore. A volte si sente la condizione di “esordiente” o “scrittore in erba” quasi come una malattia. Ma sono tutte cose con cui fare i conti e probabilmente, nel quadro più ampio della maturazione di uno scrittore, hanno il loro senso.Che cosa pensi della cosiddetta Letteratura della migrazione. Ha un senso chiamare l’insieme degli scritti di quegli immigrati che scrivono in italiano Letteratura della migrazione?
No, per me non ha alcun senso. Ma tant’è: non credo che, in fondo, sia importante come la si chiami. Ciò che conta è che i libri dei cosidetti scrittori migranti stanno portando una ventata d’aria fresca, fuori dai canoni, fuori dalle cose prestampate, fuori, forse, anche dalle aspettative dei più. E questo non rimarrà di certo senza seguito, e non solo in Italia.
Che funzione assegni alla rivista el-ghibli? Ritieni che nel panorama delle riviste letterarie stia ricoprendo qualche ruolo importante?
Non smetterò mai di essere grata a questa rivista per il semplice fatto di esistere. E’ una cosa meravigliosa, una specie di casa di tutti, e ogni volta che sfoglio le sue pagine mi si scalda il cuore. Per la gioia che provo nel leggerli, alcuni degli scrittori ospiti sono miei amici e loro nemmeno lo sanno! Per me è stato un grande onore essere accolta nelle pagine di El-ghibli, e farò del mio meglio per meritarlo.