El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

poesie

Ingrid Beatrice Coman

Sotto il mio burqa

Che cosa provi quando senti il suono triste del mio passo
E quando guardi la fortezza che mi hai ricucito addosso?
Vuoi che ti parli della luce, del mio cielo spezzettato
Di che sapore abbia l’aria nel mio respiro imbavagliato?
Di che amore vuoi amarmi su questo letto di fatica
Se le tue dita sono cieche sulla mia pelle indurita?
Se il tuo inferno sono io e il mio cuore è dannato
Se ogni piccola carezza ha il sapore del peccato?
Sarà perché ti fa paura questo mistero che ho dentro
Che vuoi incidere col sangue la tua legge sul mio ventre?
Amore mio sconosciuto, gemello della stessa fame
Se scagli tu la prima pietra che altro Dio mi rimane?

La sera sul treno

L’ultimo fischio e si muove lento e goffo sui binari
Come se tutta la stanchezza nei corpi dei suoi pendolari
Gli appesantisse le carrozze. E quel vecchietto che si sporge
Su un tramonto impolverato di cui nessuno si accorge.

Quell’ uomo pensa: è andata la mia recita mondana
E può tirare le tendine sulla città che si allontana
Ripiega in fretta la cravatta dentro al solito giornale
Insieme al suo sorriso finto e al cartellino da timbrare.

La donna dai capelli rossi che guarda stanca allo specchio
Si accorge di una ruga nuova spuntata su un sorriso vecchio
Vorrebbe scendere dai tacchi, il trucco si è un po’ sbavato
E il seno scende un po’ più sotto dentro al suo tailleur firmato.

E quel signore elegante con quella smorfia da bambino
Trent’anni e più di carriera accartocciati in un cestino
Il suo tempo ancora buono, le sue virtù, la passione
Oggi inutili fardelli mandati tutti in pensione.

Ma nel vagone consumato tra carte e divise tristi
C’è una luce famigliare che accarezza i dolci resti
Di una giornata come un’altra, di un’anonima battaglia
Mai vinta e mai persa forse, e questa fragile famiglia
Di pochi metri e poche ore, gemelli dello stesso treno
Che alla sera sa di casa, di pane caldo, di ritorno
E si trascina lungo i muri tra favole e verità
Le ombre gravide di sogni tracciate di città in città.

Straniera

Eccoti qui: la testa bassa, le ali strette in un grembiule
Che cerchi in fretta nelle tasche un posto per le tue paure

Per ogni cosa un nome nuovo che non riesci a pronunciare
Come se tutte le parole fossero pillole amare.

Carte bollate e sportelli, frontiere e quote d’ingresso
Le tue speranze soffocate nella voragine di un cesso

Da pulire, da sbiancare, come un rituale antico
Da trafiggere e odiare come l’occhio di un nemico.

I tuoi abiti in un sacco tra memorie confuse
La tua lingua in un cassetto tra le cose che non usi

E cerchi in giro una chiesa per sussurrare una preghiera
E qualche Dio che ascolti la tua voce da straniera.

Che strano gusto questo pane fatto di acqua e rancore
Che strano affare questa vita presa in prestito a ore

Ti ho vista scrivere poesie all’alba su quella corriera
La schiena curva sopra un foglio come una candida bandiera.

Straniera tu? Straniera l’ora di questo tempio di cemento
Che ci fa nascere già vecchi col tempo che ci muore dentro.

Che l’acqua scenda a cascate su queste nostre menti oscure
E lavi via dalla storia colpe passate e future.

Richiama i sogni abbandonati laggiù, nel pozzo più profondo
E metti un po’ di candeggina sull’anima di questo mondo.

Una cartolina da Bagdad

Guardavi la foto sulla pagina di quel giornale,
c’era il mio viso scuro di polvere e inchiostro.
Sotto – l’articolo del tuo cronista preferito sull’ultimo attentato a Bagdad.
Ti sei chiesto quanti anni avevo
o forse
ti sei accorto che avevo l’età di tuo figlio.

Lo sai che suonavo il pianoforte e amavo Chopin?
Quella mattina mi sono svegliato
Sentivo ancora la mia musica
ma non avevo più le mie dita.
Eppure qualche volta
mi capita di sentire le rotondità dei tasti
sui polpastrelli delle mie dita
seminate chissà dove in quel prato.

Mi piaceva giocare a pallone.
Sai, un pallone è come un legame di sangue,
quando giocavamo
eravamo tutti fratelli.
Ma il mio ginocchio si è guastato
come un orologio caduto
e non si piega più.

Però sono ancora felice.
Certe volte riesco ancora a cogliere
il volo dei pettirossi
quando passano nel raggio
del mio unico occhio buono.
E penso che forse passeranno anche dalle tue parti, un giorno
e sfioreranno la tua memoria
con un fugace batter d’ali
una mattina di settembre
forse la stessa
in cui stai finendo il tuo giornale
e lo chiudi sulla mia foto in bianco e nero
adagiata con cura sopra il nome del tuo cronista preferito.

La mia pelle

Lavami la pelle, madre,
Come un abito macchiato
Di un futuro che non voglio
E indelebile passato.

Cambiami la pelle, madre,
Taglia, cuci e rammenda
E ricamami sul volto
Fiori candidi di seta.

Strappami la pelle, madre
Spogliami del mio colore
Solo il vento sul mio sangue
E la terra sul mio cuore.

Bruciami la pelle, madre
Come uno straccio lercio
Come un cane che uccidi
Perché ormai è troppo vecchio.

Lava, cambia, strappa, brucia
La mia pelle. O, magari
Questo mondo che mi guarda
E vuol tingermi le ali
Il suo occhio di ciclope
Questa miope frontiera
Che non sa vedere Dio
Dietro la mia pelle nera.

Trans Europe Express

Milano nella nebbia. Addobbi di Natale
Che pendono raggianti su un uomo che sta male
Avvolto in un cartone. Nei bar, la polizia
Che vigila su un mondo di fragile follia.

Ad Amsterdam la vita che scorre sui canali,
La gente che rincorre pubblicità banali.
Si può fumare l’erba, si può fare l’amore
Si può anche morire, ma senza far rumore.

Il muro di Berlino crollato a metà
La neve che scendeva coprendo la città
Da Est a Ovest, piano, tremando sul viale
Come se temesse di fargli troppo male.

Vienna a Natale, con luci e poesia
Che perdono colore, laggiù, in periferia.
La vecchia prostituta, all’ultimo tramvai
Aspetta un cliente che non arriva mai.

Graz, fermo su un valzer. Un’atmosfera mite.
C’è un uomo che mi fissa: I documenti, bitte!
Già, quasi lo scordavo, qui passa la frontiera.
Trascino verso casa un’anima straniera.

A Budapest la donna che legge nel caffè.
Per quindici fiorini mi giurerà che c’è
Un roseo futuro, un uomo che mi ama.
Per altri tre fiorini sa già come si chiama.

A Mosca mille madri riverse sui binari
Un ultimo abbraccio ai figli militari
Praschai! C’è una guerra, da vincere, lontano
O perdere. Che importa? Sbrigatevi, partiamo!

Quel bimbo sui gradini, a Bucarest, di notte
I guanti senza dita, i jeans, le scarpe rotte
Gli occhi blu sul mondo. Vuoi una caramella?
Da, multumesc. Ha freddo. Gli lascio la mantella.

E il cuore mi si stringe sul treno che riparte.
Mi chiede dove vado. Gli dico E departe
Per non dovergli dire che, forse, non lo so.
Che sto andando a casa, e mai arriverò…

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Ingrid Beatrice Coman:La memoria del passato come ricerca poetica

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 8, Numero 34
December 2011

 

 

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