Raccontare, parlare dei gulaq non è semplice, sia per il pudore di dover affrontare e discorrere di una delle maggiori vergogne della storia del XX secolo, sia perchè la materia rischia di rinsecchirsi in monotone ripetizioni perché la sofferenza è anche monotonia, perché il freddo paralizza anche chi deve discorrerne.
Ingrid Beatrice Coman usa un espediente singolare che è quello del ricordo, del riportare alla luce mediante oggetti. E’ risaputo che chi ha molto sofferto, come ad esempio nei lager tedeschi, o nei campi di prigionia sovietici, chi ne è uscito vivo, il che è una rarità, non parla volentieri della sua esperienza perchè in questo caso il ricordo non è una rielaborazione, non è una liberazione, ma è un riaprire la ferita, un ripristino della sofferenza. E’ possibile allora far parlare, ricordare attraverso la mediazione di qualcosa. Un oggetto, una foto. E’ stata la modalità usata dalla scrittrice romena nell’affrontare questo particolare argomento così difficile da trattare. In questo modo emergono ricordi di vita passata in Siberia, nella Kolima, emergono vicende che pur nella depauperazione fino alla animalità per la sopravvivenza, fanno intravvedere che l’umanità fortunatamente non scompare e può perfino instaurarsi amicizia. Da questi ricordi emergono singolari personalità, come quella del giornalista italiano, del musicista. Emergono fatti di brutalità e di generosità.
Tutta la materia è trattata con delicatezza e sensibilità, con partecipazione ed emotività. Ma il romanzo non è solo una raccolta di ricordati della prigionia nella Kolima, perché si struttura secondo tre direttrici fondamentali. I racconti sulla Kolima e sui compagni di prigionia di Alijosha, l’ex prigioniero che ricorda; la sua storia del come è finito nel sistema di prigionia sovietica, del come poi sia potuto ritornare; la storia di Vera, attuale compagna di Alijoshia.
Sono tre vicende che si intersecano, si rimandano. Singolare è che hanno in comune il luogo di partenza. Lo spazio d’origine è qui unitario quasi a significare che nella gioia, felicità o nella sofferenza, nell’angoscia, lo spazio è indifferente. Tutti i sentimenti dell’uomo derivano dalla sua interiorità, non dallo spazio. La scena in cui Alijoshia si trova con gli oggetti che gli fanno ricordare la sua prigionia è la sua casa da cui è partito prima di essere preso e destinato alla Kolima. Ma è anche la casa occupata da Vera e il suo ex marito, responsabile dell’allontanamento di Alijoshia. E’ la casa che ha permesso a Vera di conoscere e amare, prima nell’immaginazione e poi nella realtà, Alijoshia.
Singolare è anche il fatto che in tutto il romanzo non emergono pagine di recriminazione nei confronti della Russia sovietica, non perché penso che ci possa essere compiacenza nei confronti di quel sistema dittatoriale, me perché la Coman tende a fare narrazione più che disanima politica.
C’è un passo di riflessione abbastanza significativo nel romanzo che in qualche modo dà il senso della lievità al tessuto narrativo. Si legge ad un certo punto (il narratore è Alijoshia): “Il mondo non si divide in buoni da salvare e cattivi da annientare, Vera, in uomini sì e uomini no. Questa è solo una grande illusione, un imbroglio. La linea tra il bene e il male non passa tra noi e i nostri nemici. Questa frontiera ingannevole attraversa il cuore di ognuno di noi. Siamo come delle fiammelle che oscillano di qua e di là: basta un alito di vento improvviso per bruciare dalla parte sbagliata.” E’ questo uno dei temi più scottanti sul piano letterario e filosofico del 1900, ma penso di ogni tempo. Si pensi al romanzo di Elio Vittorini Uomini e no, in cui la linea di demarcazione fra l’essere umani e il non esserlo non appartiene alla parte politica, ma al singolo uomo e alla sua swcelta nei comportamenti quotidiani. E’ un tema filosofico che Hannah Arendt ha così lucidamente fatto presente con il suo scritto La banalità del male .
Il passato, l’esperienza che abbiamo accumulato è l’unica che può metterci sull’avviso della fragilità della linea di frontiera, della linea di demarcazione, ma proprio per questo può crearci gli anticorpi perché ci si possa aggrappare in ogni momento, anche nei più difficili all’essere uomini e non scendere al livello di animalità.