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Intervista di Michele Lupo

Michele Lupo

Dunque, miei motivi personali acuiscono la curiosità per la tua storia di argentino immigrato che a un certo punto decide di cimentarsi con la lingua d’arrivo. Ma prima di entrare nello specifico letterario mi interessa il tuo, ovviamente semplificato, punto di vista sulla situazione argentina dopo gli sconquassi di qualche anno fa.

Per l’Argentina, secondo me, è già stato un traguardo importante essere riuscita a liberarsi da un presidente come Menen. Adesso tocca liberarsi dal menemismo. A parte questo, credo che dopo la crisi economica del 2001 si è aperto un nuovo panorama nella politica e nella cultura argentina.

Come sei arrivato alla scelta di scrivere in italiano?

Non saprei bene, perché in realtà dopo essere arrivato in Italia, ed essermi radicato definitivamente qui, ho continuato a scrivere in spagnolo (sarebbe meglio dire in castellano), tant’è vero che il mio primo libro l’ho pubblicato a Buenos Aires quando vivevo in Italia da una decina d’anni. Quindi, diciamo così, il mio cambio di lingua è piuttosto recente, da quando ho cominciato a scrivere Restituiscimi il cappotto. Ma c’è una ragione ancora più radicale. Nell’anno duemila è nato mio figlio, e prima della sua nascita vivevo ancora con un piede in Argentina e un altro in Italia, o meglio, con la testa in Argentina e con i piedi in Italia. Dopo la sua nascita, insomma, ho capito che questo era il mio posto e d’allora ho cominciato a scrivere in italiano e adesso vivo con la testa e con i piedi qui.

Ovviamente, pensando a un argentino che scrive in italiano, viene in mente Wilcock. Una certa stramberia di fondo accomuna le tue storie alle sue, anche se la tua mi sembra più contenuta, i tuoi personaggi più tradizionali. Sbaglio?

È vero. Io però la stramberia di cui parli in Wilcock la sento di più nella sua lingua, piuttosto che nella costruzione dei personaggi. Wilcock ha questa capacità quasi unica di portare il lettore su un piano narrativo, ma tenendosi fuori da questo con una lingua e un registro saggistico. Basti pensare a La sinagoga degli iconoclasti, un testo meraviglioso dove si raccontano le storie di una serie di personaggi che si muovono su delle basi scientifiche strampalate. Un altro libro che rientra in questo registro, che si tiene tra la narrativa e il saggio, è Fatti inquietanti. Comunque, questo non toglie che i suoi libri strettamente narrativi siano meno belli, anzi, trovo che Il caos (una raccolta di racconti), uscito in Italia nel 1960 e purtroppo un po’ dimenticato, sia un testo stupendo. Una cosa sulla quale bisognerebbe riflettere nell’opera di Wilcock è il tema dell’autotraduzione. Il racconto “Il caos” era stato scritto in spagnolo e pubblicato nella rivista “Sur” e poi autotradotto all’italiano, anche le Poesie spagnole, uscite per Guanda nel 1963, sono autotraduzioni di libri già pubblicati in Argentina. Ecco, io penso che autotradursi sia un’impresa molto difficile che solo alcuni sono riusciti a compiere.

Anni fa hai scritto romanzi anche nella tua lingua d’origine. Avrai avuto i tuoi scrittori di riferimento, argentini intendo. Ti chiederei intanto quali sono stati e per quali, sintetiche ragioni. E se poi hanno continuato ad agire nel passaggio alla nuova lingua.

Questa domanda mi ricorda quel saggio memorabile di Borges che si chiama Kafka y sus precursores, dove si dice che ogni autore si crea i propri precursori, o come dici tu, i suoi scrittori di riferimento. Io mi sono sempre sentito e mi sento tutt’ora legato alla tradizione letteraria argentina. Certo, se ti dovessi fare un nome su tutti non esiterei a dirti che Borges è stato sempre un punto di riferimento, per me e per tante generazioni d’argentini, soprattutto perché ha introdotto una nuova lettura di tutta la letteratura mondiale, sia occidentale che orientale. Mi sento legato anche a autori come Ricardo Güiraldes (per il modo in cui ripesca la tradizione gauchesca); Roberto Arlt (sarebbe impossibile per un argentino non fare i conti con Arlt, I sette pazzi, Il giocattolo rabbioso e tanti altri dei suoi libri sono stati fondamentali); Ezequiel Martínez Estrada (per il ritratto puntuale che fa dell’Argentina, ricordo La cabeza de Goliat, Radiografia de la Pampa); Horacio Quiroga (anche se lui era uruguaiano, i suoi libri sulla giungla, Anaconda o Cuentos de la selva, mi hanno incantato da piccolo - era ed è il nostro Kipling, se posso fare un paragone); Cortázar (perché lo leggo e rileggo tutt’ora). La lista potrebbe continuare - come non aggiungere Juan Carlos Onetti, uruguaiano come Quiroga, ma facciamo finta che sia argentino anche lui, o Leopoldo Marechal, di cui recentemente hanno tradotto in italiano il monumentale Adán Buenosayres?), o ancora Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo (due monumenti della letteratura argentina). E Puig e Juan José Saer, non li vogliamo ricordare? La Nottetempo ha pubblicato un libro bello di Saer, Luogo.

I più da noi conoscono i grandi argentini degli ultimi decenni, compreso Ernesto Sábato appena scomparso. Hai qualche nome da farci fra le nuove generazioni di narratori del tuo paese, tradotti ma poco noti, o da suggerire agli editori?

Ernesto Sábato! Sono stato vicino di casa sua per otto anni, a Santos Lugares. Il giardino davanti a casa sua era il luogo prediletto per nascondermi, quando giocavo a nascondino con gli amici. Era un giardino alla Gilles Clémant, con una varietà di piante incredibile, che venivano su da sole, incuranti e rigogliose. La facciata di casa sua, dietro a questo giardino (lo ricordo immenso, ma quando l’ho rivisto dopo tanti anni mi sono accorto che non è tanto grande) era tutta coperta d’edera. Per venire alla tua domanda. Ci sono autori importanti che seguo attentamente, tra questi, faccio il nome di César Aira, per esempio. In Italia si sono pubblicati solo tre dei suoi libri, è un autore relativamente giovane e molto prolifico, al quale mi sento vicino: Come diventai monaca, trovo che sia un libro bellissimo. Ricardo Piglia, già noto al pubblico italiano per due romanzi di un certo successo, Soldi bruciati e il recente Bersaglio notturno (ricordo anche un libro di saggistica molto bello che si chiama L’ultimo lettore). Da quanto mi risulta non è stato ancora tradotto un altro libro di saggi, che varrebbe la pena tradurre, si chiama Formas breves, sempre di Piglia. C’è anche il grande Fogwill che purtroppo è venuto a mancare di recente (uno dei suoi libri, Los pichiciegos, dovrebbe uscire nella nuova collana “Sur” di Minum fax). Anche Sergio Bizzio trovo interessante. Alcune cose di Bizzio sono state già tradotte in Italia. C’è un libro che ho letto di recente di Bizzio, il titolo è Aiwa, che parla di un paese completamente isolato dove agli uomini crescono le tette, molto bello. C’è un autore, uruguaiano ma facciamo finta che sia argentino anche lui, che si chiama Felisberto Hernández (1902-1964) che io non mi spiego come mai non abbiano ancora tradotto. Era uscita negli ’70 un’antologia per Einaudi curata da Italo Calvino e poi il silenzio. Ho un libro qui accanto di Felisberto Hernández, Las Hortencias, rieditato di recente, dove leggo nella quarta di copertina (traduco alla meglio): “Se non avessi letto le storie di Felisberto Hernández nel 1950, oggi non sarei lo scrittore che sono” e questo l’ha detto García Márquez.

Veniamo a 'Il riporto' (edizioni nottetempo) il tuo ultimo, quarto romanzo in italiano. Racconta sostanzialmente una fuga. L’idea di approfittare di un’occasione qualsiasi – qui lo sberleffo di uno studente a un professore che osa andare in giro con un riporto alla Giulio Cesare – per sparire e cambiare vita. Più Pirandello che Borges…

Ho cominciato a pensare alla storia di Il riporto dopo che ho letto un interessante articolo di Léna Mauger, uscito sull’Internazionale, verso la fine di ottobre del 2009. L’articolo, intitolato 'Evaporati nel nulla', parlava di alcune persone che decidono di scomparire per costruirsi una nuova vita e chiudere col passato. In Giappone sono chiamati “johatsu”, che vuol dire evaporare, sfumare nel nulla. Quando lessi quell’articolo mi sentii un tristezza addosso, specie per la storia di un certo Kazufumi Kuni (una sorta di eroe della fuga), il quale un giorno esce dal lavoro e non torna più a casa, scompare per sempre. Dopo anni però conserva ancora la sua vecchia carta d’identità, con un nome che non esiste più, un nome al quale non corrisponde più un passato. Allora mi sono venuti in mente alcuni racconti: il 'Wakefild' di Hawthorne, una specie di “johatsu” americano della prima metà dell’800. Mi è venuto in mente quel romanzo straordinario di Paasilinna, 'L’anno della lepre' (la storia di Vatanen, giornalista a Helsinki, che una sera tornando a casa in macchina con un amico fotografo investono una lepre sulla strada, allora Vatanen scende, cerca la lepre nel bosco e la trova con una zampa rotta che penzola. Da quel momento in poi sparisce con la lepre nel bosco, e si mette a vagabondare). Mi è venuto in mente il 'Brooksmith' di Henry James, forse il personaggio letterario che più riesco a pensare come un “johatsu” giapponese (una sera esce come al solito per andare a servire a tavola, col bianco panciotto, e non torna più a casa). Ma c’è un’altra storia simile a queste ed è la storia di San Gerolamo (traduttore della Bibbia in latino, ci ha messo 55 anni e sei mesi per tradurla). Si racconta nella Legenda aurea che San Gerolamo un giorno si sveglia presto per recitare il mattutino e trova accanto al letto una veste da donna, che alcuni monaci invidiosi avevano messo lì per prenderlo in giro; credendo che fosse la sua, Gerolamo l’indossa ed entra in chiesa (i monaci avevano fatto questo per far credere che Gerolamo tenesse una donna nel suo letto). Quando Gerolamo si accorge dell’accaduto, decide di andare da Gregorio Nazianzeno, vescovo di Costantinopoli e dopo aver da lui appreso le lettere sacre, si ritira nel deserto. Certo, come non ricordare il Fu Mattia Pascal di Pirandello? Dunque, per primo sono partito dall’idea della fuga, poi ho pensato che se un maniaco del riporto cesariano si trovasse davanti a una platea di studenti e all’improvviso uno di questi si alzasse per scoperchiargli la testa, ecco questo gesto sarebbe un buon motivo per abbandonare tutto, famiglia, lavoro, e partire. Aggiungo che il riporto prima o poi tornerà di moda, e allora bisognerà fare i conti con Arduino Gherarducci (protagonista del mio romanzo).

Nel paesaggio letterario italiano attuale, c’è qualcuno che ti sembra particolarmente interessante?

Ci sono molti autori che mi piacciono e che leggo con interesse. Ermanno Cavazzoni è uno di questi, anche Gianni Celati. Mi piacciono le letture pubbliche di Paolo Nori (i suoi “pubblici discorsi”), i saggi di Claudio Magris (e anche i suoi romanzi), o di Antonio Prete (e anche i suoi racconti). Adesso sto leggendo Fare scene di Domenico Starnone, un libro molto bello. Io trovo interessante il panorama letterario italiano e anche quello dei nuovi autori stranieri che scrivono in italiano, la così detta letteratura della migrazione.

Che rapporto hai con la “società letteraria” italiana? Frequenti il mondo editoriale, altri scrittori?

In verità io esco molto poco da Recanati, il posto dove abito. Faccio fatica a muovermi. Un periodo andavo alle riunioni di una rivista, “L’accalappiacani”, a Reggio Emilia. Ho degli amici che scrivono e che apprezzo moltissimo, ogni tanto ci vediamo, ma in linea di massima passo molto tempo da solo (non lo dico mica per lamentarmi).

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(ISSN 1824-6648)

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A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

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