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Intervista di Ilaria Merlini

Ilaria Merlini

Adrián Bravi ha 43 anni. A venticinque viene in Italia per studiare filosofia, o meglio per proseguire gli studi che aveva iniziato in Argentina. Origini italiane, accento argentino, affabile, solare, Bravi è al suo terzo romanzo. All’esordio in argentino, Río Sauce (1999, Buenos Aires), seguono due romanzi in lingua italiana, Restituiscimi il cappotto (2004, Fernandel) e l’ultima fatica La pelusa (2007, Nottetempo)

Come si immaginava questo paese? La scelta di venire a studiare in Italia celava forse il desiderio di ritrovare le sue origini?

Come può immaginare l’Italia che trapelava dai ricordi della mia famiglia era quella di un posto mitizzato, che apparteneva alla loro infanzia. Come tanti immigranti anche loro si trovavano in un esilio forzato dalla condizione economica del dopoguerra, in un altrove sconosciuto che gli accoglieva e gli respingeva allo stesso tempo; e loro hanno continuato, per anni e anni, ad immaginare l’Italia come il luogo della loro identità storica e culturale. Fin da piccolo ho capito che i ricordi erano un’altra forma della finzione. Quindi, non potevo farmi un’idea precisa di questo paese, ma sapevo cosa significava trovarsi a vivere fuori dal “borgo natio”. Comunque, la scelta di venire a studiare in Italia ha a che fare con quel “ritrovo” di cui parla, era una scelta e allo stesso tempo un dovere.

La scelta reiterata della lingua italiana ha ragioni ‘residenziali’?

Sì, soprattutto residenziali. Comunque, era la lingua che avrei dovuto imparare da piccolo, viste le mie origini italiane. L’italiano che io ricordo da bambino era quello di mia nonna, un pasticciaccio molisano con alcune intromissioni del “lunfardo” (una sorta di argot di Buenos Aires che ha ispirato tante canzoni di tango). In Argentina, questo modo di parlare, metà italiano, metà spagnolo, veniva chiamato “cocoliche” e nella nostra letteratura abbondano i personaggi che parlano in questo modo. Mi facevo delle grande risate ascoltando parlare mia nonna.

La pelusa è il racconto di un’ossessione. Oltre metà del romanzo è la spiegazione del titolo: il protagonista incontra, nella biblioteca in cui lavora, un argentino che ha la sua stessa ossessione per la polvere e che denomina nella sua lingua, ‘pelusa’. La scelta bilingue titolo-opera mi fa pensare alla nostra tradizione lirica, solo per citare gli esempi più vistosi: Petrarca intitola in latino il suo Canzoniere in volgare, e dopo lui Matteo Maria Boiardo segue il modello, il potere dell’effetto straniante è incontestabile, la ragione riguarda esclusivamente il contenuto?

... e ancora più recenti abbiamo il Des mois di Tommaso Landolfi, il Res amissa di Giorgio Caproni, il Frau Teleprocu dell’argentino Rodolfo Wilcock e così via. Certo, esiste un potere straniante, un cortocircuito tra l’opera e il titolo. Nel caso de La pelusa il titolo è venuto fuori da solo. All’inizio ero un po’ scettico sul titolo, ma alla fine l’editore mi ha convinto e ora penso che questo romanzo non potrebbe essere chiamato in altro modo. È la parola chiave di tutto il libro, penso.

Quello che sembra di cogliere è che questa parola (e forse meno chi la pronuncia) è il deus ex machina che risolve decisamente il racconto, dà una svolta decisiva all’ossessione. Anselmo, il protagonista, trovando finalmente il significante esatto che coglie l’essenza della sua ossessione «mai una parola era stata tanto calzante quanto quella», si avvia fatalmente verso l’epilogo. La sola parola argentina dà senso e sembra determinare l’intero racconto in italiano. Forse è più di un titolo?

Sì, è una svolta quella che si compie nel momento in cui il nostro eroe sente questa parola per la prima volta ed è giusto definirla il deus ex machina che risolve in qualche modo il racconto. Le cose hanno luogo nel momento in cui abbiamo la possibilità di nominarle. Solo la parola può svelare le cose, renderle possibili e determinarle, e Anselmo se ne accorge quando entra in biblioteca quello strano personaggio, che prende il nome dell’autore e che poi sparirà dal racconto. In quel momento capisce che c’è un nome con cui identificare quell’insieme sottile d’elementi che si deposita sulle cose che prescinde dal generico “polvere”.

«La voce di Adrián Bravi gli rimbombava ancora nella testa: l’accento argentino, il modo d’impostare la voce, i gesti». L’argentino Adrián Bravi, che decisamente cambia la vita di Anselmo, sparisce, lasciando solo il ricordo della voce e quella fondamentale parola. È sparito davvero l’argentino?

Il personaggio sparisce nel nulla (tra l’altro senza restituire alla biblioteca quel libro di W. H. Hudson, La vita della foresta, tradotto da Eugenio Montale), ma, appunto, lascia ad Anselmo quella parola che serba il segreto della sua ossessione. Da quel momento inizia una caccia, da parte di Anselmo, alla ricerca di questo sconosciuto, il quale, a sua volta, gli aveva rivelato la stessa ossessione.

O ha trovato un modo efficace per far parlare la sua lingua?

Chissà, forse è un escamotage per far parlare ancora lo spagnolo che è in me, per non abbandonarlo del tutto. La parola pelusa è stata accolta nel vocabolario di molti amici che ora chiamano così la polvere di casa. In realtà non esiste un corrispettivo in italiano. La parola “polvere” ha un’infinità di significati e in spagnolo andrebbe tradotta con “polvo”. La “pelusa”, invece, è meno generico come termine e ha a che fare con la polvere che produciamo dentro casa: un limite tra il visibile e l’invisibile.

Quando la lingua straniera diventa la lingua dell’espressione letteraria, peraltro con risultati apprezzabili, non ci si può non chiedere e chiederle che rapporto ha con l’italiano.

Ho un rapporto di estraneità, è l’unico “luogo” dove ancora posso smarrirmi e sentirmi davvero straniero, nel senso buono della parola: un ospite gradito. Comunque, come ogni “straniero”, anche io sono perennemente a caccia di questa lingua meravigliosa che mi sfugge sempre dalle mani. Trovo molte difficoltà a scrivere direttamente in italiano, perchè provengo da una lingua affine e spesso tendo a trascinarmi un corredo sintattico molto diverso.

È possibile secondo lei quantificare e confrontare l’espressività e l’intensità delle due lingue?

Non so, sono due lingue affascinanti. Forse nella tradizione letteraria argentina c’è un rapporto più diretto con il mondo dell’oralità: non bisogna dimenticare che dopo un’indipendenza politica ci fu un’indipendenza linguistica dallo spagnolo classico. Questo fece nascere una letteratura fortemente legata alla tradizione popolare, penso alla letteratura “gauchesca”, per esempio. In Italia, invece, la distinzione tra una lingua letteraria e una lingua popolare è più evidente. Forse perchè a noi manca il concetto di “volgare illustre”, di cui parla Dante. Per fare un esempio, in Argentina è frequente l’uso del passato remoto nella lingua parlata e questo fatto la rende ancora più vicina a quella letteraria; in italiano, invece, il passato remoto, a parte le regioni che ne fanno uso, è relegato al piano strettamente letterario. Ecco, penso che questo sia un fatto che colpisce subito chi si trova a scrivere in italiano: l’uso di una forma verbale che vive quasi esclusivamente nel piano letterario. Questa antitesi fra una “lingua gramatica” e una “lingua matrix” manca nella nostra tradizione argentina, sarà per questo, penso, che esiste un rapporto più diretto con l’oralità.

Da Culturiana (rivista di linguistica, glottodidattica e informazioni culturali per insegnanti d’italiano come lingua straniera)

14 marzo 2008

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(ISSN 1824-6648)

Adrian Bravi: l'antieroe

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

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