Terzo libro in lingua italiana di Adrián N. Bravi – già autore, in spagnolo, di Rio sauce (Paradiso,
Buenos Aires, 1999); poi del bel racconto-monologo Restituiscimi il cappotto (Fernandel, Ravenna
2004) e del romanzo tutto sommato “bien fait” La pelusa (nottetempo, Roma 2007) – Sud 1982 è la
storia di un ritorno: quello di Alberto, una giovane recluta di San Miguel (Buenos Aires), dalla
guerra delle Malvine, “delle Falkland” per gli inglesi e per la maggioranza dei volumi di storia che
il lettore italiano può consultare. Si tratta, com’è noto, di un episodio piuttosto intricato della nostra
storia recente, e tuttavia schematizzabile a questo modo: la Giunta Militare argentina, sotto il
commando del generale Galtieri, per rinfocolare il proprio vacillante potere rilancia la sfida
nazionalistica, mandando i suoi soldati di leva ad appropriarsi delle isole Falkland (dominio
coloniale britannico dal 1883). Il governo inglese, rappresentato in figura dalla “lady di ferro”
Margaret Thatcher, considera l’atto militare un’invasione illegittima del proprio territorio e lo va a
difendere, con incredibile e forse sproporzionato dispiegamento di pompa e di mezzi.
Consumato tra il 2 aprile, giorno dello sbarco argentino sulla città di Port Stanley, e il 14 giugno
1982, il conflitto si conclude con la vittoria dell’Inghilterra. Una guerra lampo e assurda, con un
abbrivio per molti aspetti imprevedibile e un finale ovvio, che costò la vita a parecchi soldati: «loro
combattevano la prima guerra tecnologica [….] della storia e noi l’ultima guerra del XIX secolo…»,
fa dire Bravi a uno dei suoi personaggi. E appunto il romanzo potrebbe essere scorso anche come
affabulante campione d’analisi sui falsi convincimenti istillati da ogni potere che crea soldati e
nemici maldestri per, maldestramente, autoconservare le proprie ragioni d’esistenza. Nel libro,
difatti, viene detto a più riprese come i soldati argentini, militarmente imberbi e mal attrezzati,
prendono il largo convinti di andare a liberare il popolo “malvinese” e invece, arrivati sul posto, per
un verso si dedicano a passare il tempo, a dar la caccia ai volatili e a sentirsi volare sopra al capo gli
aerei inglesi; per l’altro si accorgono fin da subito che la popolazione locale (i così detti kelplers)
non ha nessuna intenzione di schierarsi dalla loro parte.
Alberto, esemplare abbastanza tipico di giovane e sprovveduto soldatino ventenne (istruito,
«tendente al sublime» e al mal di testa), vive la guerra come un incubo senza morale e senza
eroismo, fatto di lunghe pause e di ordini inutili, al limite del grottesco. Torna infine come tanti altri
sul continente col “Camberra”, la nave inglese «che aveva interrotto una crociera nel Mediterraneo
per rientrare d’urgenza in patria e imbarcare più di duemila marine; la stessa nave che, secondo i
comunicati militari argentini, doveva essere in fondo all’oceano trafitta dai nostri missili».
È dunque soprattutto un libro su una guerra che finisce, che si ripensa, che si tenta di dimenticare,
che ritorna nei tic e nelle notti di chi vi ha partecipato, questo di Bravi. E la scelta è apprezzabile,
perché, con l’impostare il volume dentro un presente che lotta e non riesce farsi una ragione del
passato, si ribadisce come la vera guerra, la più vera e silente bestialità inizia spesso dopo la fine
della grancassa e degli scontri, col conto dei morti, delle distruzioni, delle ferite non rimarginabili
che si stampano sul corpo e nella testa della gente.
Gran parte del libro – fatto di tasselli narrativi che rifuggono l’ordine della fabula e possono essere
letti come racconti indipendenti – è infatti ambientato nella Buenos Aires che accoglie i reduci
come testimoni scomodi di un fallimento e che vuole anzitutto gettarsi alle spalle la guerra e la
sconfitta: «smalvinizzarsi», dice Bravi, con creazione linguistica che fa il verso all’idioma di
partenza. E allora il problema di Alberto sarà gestire in un simile contesto la sua sempre maggiore,
sempre più irrimediabile «malvinizzazione» – il ricordo della guerra, delle morti banali e pietose,
del rumore degli aerei che incessantemente tormentavano le sue notti. Di qui, l’inizio di una vita da
borderline, col tempo che si dilata («quei pomeriggi accaldati e pieni di sole gli sembrano
interminabili»), con la fidanzata Francisca «smalvinizzata» e oramai completamente dedita
all’astinenza sessuale, a guardare vetrine e togliersi di dosso «energie negative»; con un unico
momento atteso: la serale ubriacatura al Tío Pablo e poi lo sperdimento girovago per le strade buie
della città («mi sembrava che la vita, a quell’ora, valesse la pena di essere vissuta, al contrario di
quella diurna; ma poi, quando arrivavo a casa e guardavo la serratura della porta, e quello spazio
sconfinato si restringeva in una specie di buco mobile che si spostava da destra a sinistra, mentre io
cercavo di infilarci la chiave dentro, il mondo diventava di nuovo quello che era»).
Come si vede dalle citazioni riportate, un altro pregio di questo libro è la leggerezza dello stile,
insieme all’accorata ironia di molte pagine. Non tiene il parallelo con Hasek sollecitato dalla quarta
di copertina, perché la scuola è piuttosto quella di César Aira e di Fogwill (che subito dopo la
guerra scrisse Los pichiciegos – con i soldati argentini che scavano dei rifugi sotterranei per
sopravvivere, non avendo la minima intenzione di combattere).
E Bravi ha senz’altro digerito e corretto i suoi modelli: ci porta a spasso per questo mosaico di
racconti; parla la voce di un soldato che non riesce a capire perché è stato spedito al fronte; lascia
trapelare, di tanto in tanto, insieme ad uno sguardo disincantato nei riguardi delle spigolosità e delle
accensioni del protagonista, un’autentica partecipazione umana alle cose descritte. Ancora una volta
(l’abbiamo già ricordato, presentando su “Caffè Michelangiolo” alcuni racconti di Bravi) ci sembra
infine che la risorsa principale di questo narratore bilingue sia uno strano miscuglio di cinismo e
candore, di uso del vocabolario e di godibile colloquialità. Capace di trasformare tutti i suoi
argomenti in una fiaba non troppo triste, non troppo allegra, dalla morale ondivaga, Bravi ci
conferma inoltre che le sue pagine sono in combutta con la storia, con l’autobiografia e col
quotidiano per ragioni che non possono disgiungersi dallo stile e dal gusto di raccontare (che ci
pare, se non altro, una prova quasi esemplare di umiltà e intelligenza letteraria).
Elena Frontaloni - Caffè Michelangiolo - Rivista quadrimestrale - Anno XIII, n.2 maggio-agosto 2008