La «pelusa» non è la polvere:
In realtà non esiste un corrispettivo in italiano. La parola “polvere” ha un’infinità di
significati e in spagnolo andrebbe tradotta con “polvo”. La “pelusa”, invece, è meno
generico come termine e ha a che fare con la polvere che produciamo dentro casa: un
limite tra il visibile e l’invisibile.
E, infatti, è il confine tra il visibile e l’invisibile ad essere il centro di questo romanzo,
seppur camuffato da «pelusa», o per meglio dire dall’ossessione per la pelusa che
attanaglia il protagonista Anselmo: egli la vede ovunque; più si ostina a cacciarla con un
panno umido (chè altrimenti si sparge e basta), più quel sottilissimo strato copre
oggetti, cose, persone, si deposita sul pavimento e sui mobili, si infiltra ovunque, non
lasciandogli aria da respirare. I suoi occhi sono come coperti da quel velo che egli
vorrebbe eliminare: non riesce a pensare ad altro che agli acari e ai microrganismi che si
insidiano nella sua vita, mentre il suo lavoro di bibliotecario/
catalogatore/magazziniere, il rapporto con la moglie e la sua esistenza stessa si
logorano fino ad arrivare a un punto di non ritorno. E nella solitudine più totale e nel
vuoto di rapporti umani che si è creato, l’unica forma di comunicazione che Anselmo
riesce ad avere è quella con un suo vecchio amico, Paolo, al quale invia e-mail che
puntualmente gli ritornano indietro: è proprio e solo per questo che egli continua a
scrivergli, raccontandogli la sua ossessione per la pelusa, la sua necessità di controllo sul
reale, la sua fobia esistenziale.
Attraverso le tormentate e-mail risulta sempre più chiaro, infatti, che la pelusa diviene,
nella mente di Anselmo, la forma visibile della morte («non c’è niente che non torni
polvere», p. 89), la prova tangibile della corruzione del tutto, il confine tra l’essere,
l’apparenza e il non essere, tra la vita e la non-vita, il visibile e l’invisibile. Perché,
mentre la polvere è visibile, la pelusa è «appena percepibile» (p. 89): notarne la
presenza è quindi avere la capacità di andare oltre il confine tra la realtà e l’apparenza,
saper guardare in superfice e nelle piccole cose (p. 85), ovvero nell’infinito, perché
«cosa vuoi che venga alla luce dalla profondità?», scrive Anselmo in una delle ultime email,
«Concentriamoci sulle pieghe, in superficie. L’infinito, che ha martoriato tante
teste, è la polvere, mica altro» (p. 134).
L’ossessione per la pelusa si trasforma quindi in dramma e paura esistenziale, e la
ricerca di una forma di vita pura e assoluta diviene tragicamente non-vita, morte in vita.
Ma forse è proprio dalla fobia latente di Anselmo che si è originata l’ossessione per la
pelusa, e non viceversa. Come in Restituiscimi il cappotto il rapporto causa-effetto è
biunivoco, l’una alimenta l’altra, e l’oggetto (il cappotto, la polvere) è solo il simulacro
di un più profondo stato interiore. Ma, rispetto alla precedente opera, Adrián Bravi
colora il monotematismo ossessivo con un’ironia sottile, paradossale, leggera, spesso
comica; e dà corpo e sviluppo alla narrazione, che, seppur sempre e assolutamente
minimalistica, muove il racconto nel tempo e il personaggio nel divenire: una
trasformazione interiore ed esteriore che conduce inevitabilmente al tragico, ma senza
che questo risulti la dominante già all’inizio dell’opera.
D’altronde è proprio il sapiente dosaggio e il morbido impasto di umorismo e paradosso,
leggerezza ed esasperazione, comicità e tragicità a rendere La pelusa un perfetto
racconto lungo (o romanzo breve?), che eleva una banale ossessione a metafora
esistenziale.
Rosanna Morace
Il gioco degli specchi