Dopo un primo romanzo argentino, Rio Sauce (Buenos Aires, Pradiso, 1999), Adrián Bravi prosegue in Italia la sua attività di scrittore con Restituiscimi il cappotto e Un orizzonte così lontano, due racconti lunghi pubblicati dall’editore Fernandel nel 2004. Il primo testo è quello che dà il titolo alla raccolta, ma in entrambi sono ben riconoscibili una monocromaticità di tono, un’atemporalità sospesa e uniforme, una monospazialità e una propensione ossessiva e melanconica che stringono il lettore in una morsa da teatro dell’assurdo. E, infatti, quella che all’inizio sembra una situazione surreale, lentamente comincia a rivelarsi come possibile nell’assurdità, realistica nella paradossalità, senza che alcun significato metaforico o risvolto morale debba essere chiamato in causa per spiegare o alludere. La situazione è nuda e cruda come il tono che la descrive, e il ritmo immobile e antinarrativo della scrittura è ciò che rende credibile e reale il paradosso. Le trame dei due racconti sono praticamente inesistenti: un uomo ha deciso di uccidersi, ma prima va a brindare con i suoi amici «mal vestiti» al suo ultimo giorno. Arriva anche l’amico rappresentante di cosmetici, l’unico ad avere una posizione sociale diversa nel gruppo: e proprio lui ruberà il bel cappotto azzurro del protagonista-voce narrante, precludendogli la possibilità di uccidersi. Tutto il racconto è giocato sulla continua richiesta di restituire il cappotto a questo «tu», rappresentato dal venditore ma di fatto inesistente, perché il protagonista non lo va a cercare e non si rivolge davvero a lui: si barrica in casa, assalito dai debiti e dai creditori, ma soprattutto dall’ossessione del cappotto. Questo diviene, così, il centro nevralgico della sua esistenza e, paradossalmente, ciò che gli ha permesso di essere ancora in vita (non ha potuto suicidarsi per quel furto) contemporaneamente gli nega la vita. Egli rimane sospeso in una non-vita senza azione, senza voglia o possibilità di riscatto, senza tentare nemmeno di recuperare quel cappotto: aspetta beckettianamente che l’amico-traditore venga a portaglielo, e in quest’attesa si consuma il testo. Ma lentamente si insinua nella mente del lettore il dubbio che questo «tu» onnipresente non esista, sia solo una proiezione dell’animo del protagonista, un freno al suicidio e un freno alla vita che ha preso la forma di un rappresentante di cosmetici. Il dialogo col tu sarebbe allora psichico, e quel dialogo in assenza potrebbe essere, quindi, un parlare in presenza dell’altra parte di sé. Il dubbio permane, il testo suggerisce la possibilità di questo sdoppiamento, ma non esplicita quale sia il piano della realtà e quale quello della proiezione interiore; dove, quando e se il confine sia saltato. Parallelamente Un orizzonte così lontano è il camminare di due fratelli ex-carcerati, disperati e reietti, ad ovest nella pampa, per consegnare un lottatore di sumo giapponese ad un’ex SS tedesca, che si diverte a girare con un carrozzone da circo pieno di ‘fenomeni da baraccone’. I tre camminano e camminano per ore e ore guardando all’orizzonte e aspettando di veder apparire il circo. Ma niente. L’andamento della narrazione è lento, silenzioso, vuoto, come vuota è la landa desolata e pianeggiante che attraversano. Solo la mattina dopo scrogeranno il tendone. Ma il tedesco non ha soldi, e invece dei 50.000 dollari promessi dal gitano per rapire il lottatore, i due finiscono per accettare di tornare indietro col il mulo del circo. Che sia stato un’equivoco o una beffa del gitano poco importa, rimane un senso di vuoto, solitudine, sospensione, atemporalità, attesa; e la tenerezza per un’umanità abbandonata a se stessa, che cammina verso un orizzonte così lontano che non è mai raggiungibile, perché apre di volta in volta la visuale ad un nuovo orizzonte, sempre più lontano e sempre uguale a se stesso, nell’eterna attesa di Godot.
Rosanna Morace