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Il muro sulla frontiera

Adrian Bravi

Il muro sulla frontiera

Mi hanno svegliato nel cuore della notte, erano le tre o le quattro, non ha importanza. Mi hanno chiesto di alzarmi subito perché stava arrivando un altro convoglio di slavi che doveva attraversare la frontiera. Capita spesso di dovermi alzare all’improvviso per via dei convogli. Sono stati i gendarmi (o quelli che sostengono di essere dei gendarmi) a bussare alla mia porta per farmi alzare in fretta. È da un anno che va avanti così. Bussano forte: “Dai, alzati e vieni giù,” fanno, e vanno via senza aggiungere altro. Io mi alzo, mi infilo il cappotto, le scarpe e vado alla stazione. Chiedo una sigaretta a qualcuno e aspetto. I gendarmi vogliono accertarsi che sia tutto in regola e che ogni slavo (è così che chiamano gli emigranti che vengono dall’est) abbia i documenti a posto e porti con sé una certa somma di denaro. Qui in frontiera nessuno parla la loro lingua, eccetto io che sono slavo. È per questo che mi fanno dormire in una casupola presso la stazione del treno. Il giorno che sono stato fermato dai gendarmi anche io ero in un convoglio che si accingeva ad attraversare la frontiera. Non avevo i documenti in regola, o meglio, ce li avevo in regola ma secondo loro mancavano dei timbri, e poi non avevo i soldi sufficienti per entrare, allora mi hanno chiuso in questa casupola e quando arriva un convoglio mi chiamano perché faccia da traduttore. Non ho mai pensato in vita mia di dover fare questo mestiere, se si può chiamare mestiere, visto che non vengo pagato per farlo, ma posso mangiare in caserma quando voglio e dormire senza pagare e qualche soldo, comunque, ogni tanto riesco a rimediare lo stesso facendo altri lavori. È sempre meglio che vivere disoccupato nel mio paese. Laggiù le cose non si sa mai come vanno a finire, con tutte quelle guerriglie, e ad ogni modo un giorno, quando mi sarò sistemato, tornerò a salutare i parenti e gli amici e potrò dire che ne è valsa la pena partire.
Gli slavi che arrivano in stazione si sforzano sempre di parlare la lingua dei gendarmi, hanno molta familiarità con le parole, alcuni però non la conoscono o la conoscono poco, e in frontiera nessuno vuole sforzarsi per capire: “Ogni straniero che vuole venire da noi ha il dovere di parlare in modo corretto la nostra lingua,” dicono i gendarmi che non vogliono neanche prendere in considerazione quei termini pronunciati male: un’erre in più o in meno, una vocale troppo aperta o troppo chiusa. Certe volte gli slavi che non conoscono bene la lingua dei gendarmi si limitano a fare dei cenni col capo o a gesticolare con le mani o semplicemente a mormorare a fior di labbra qualche termine, per non far capire il loro accento slavo. Con me non hanno problemi perché io capisco ogni loro parola, a prescindere dalla provenienza e riesco a tradurla in modo corretto, anche se la pronunciano male o parlano nella loro lingua. E se per caso non riesco a capire alla perfezione il loro discorso, allora in quel caso, traduco più o meno quello che ho colto, l’importante è che quando lo riferisco ai gendarmi usi la pronuncia giusta. Amano fare domande agli stranieri, anche quando non sono necessarie. Vogliono sentirsi ripetere pari pari tutto quello che c’è scritto nei documenti, età, stato civile, figli, perché hanno scelto di fare un determinato mestiere, da quanto tempo fanno quel mestiere, dove lo facevano e così via.
Quando arriva un convoglio la prima cosa che fanno i gendarmi, oltre a far scendere le persone e verificare i documenti e la disponibilità economica, è controllare tutto scrupolosamente, prima di lasciarlo passare. Hanno sempre il sospetto che gli slavi nascondano delle armi da qualche parte o si facciano esplodere col tritolo. E quando gli stranieri parlano tra di loro nella propria lingua, pensano subito che stiano complottando qualcosa, un attentato o cose che mettano in pericolo il paese, allora li fanno azzittire o adottano delle strategie per separarli in gruppi diversi. Per fortuna non è mai successo niente, tranne una mattina in cui hanno trovato uno slavo, alto, biondo, un uomo molto serio senza pieghe nel volto, con un coltello a serramanico nella tasca della giacca. Lo hanno ammanettato e chiuso in caserma per una settimana, poi lo hanno rimandato indietro, al suo paese.
Col passare del tempo, da questo lato della frontiera, si è creato un piccolo villaggio di slavi. Gente ubbidiente che si attiene alle regole del posto senza confonderle con le proprie. Nessuno sa di preciso fino a quando dovrà restare qui. Sono tutti in attesa di documenti o di soldi o di tutte e due le cose. Finora nessuno è tornato indietro per rientrare al proprio paese: “Prima o poi ci faranno attraversare,” dicono sempre tra di loro. Neanche io so fino a quando dovrò rimanere in questa casupola ad aspettare i convogli.
Tempo fa si poteva attraversare la frontiera senza problemi, non c’era bisogno né di permessi speciali né di soldi. Bastava il passaporto o una carta d’identità. Arrivavano stranieri da tutte le parti del mondo e di ogni età. Si poteva viaggiare da una città all’altra, a qualsiasi ora, e tutti parlavano con tutti e addirittura si poteva cambiar mestiere o studiare per diventare ingegnere o dentista, per esempio. Io ho conosciuto dei vicini di casa che quando erano tornati giù in paese raccontavano delle cose che a me mi hanno sempre fatto venire voglia di partire. Per esempio dicevano che tutti i muratori o gli idraulici avevano delle grosse macchine e le case attrezzate con gli elettrodomestici, che potevano pure andare in vacanza al mare o a sciare, cose di questo tipo, e poi tiravano fuori delle foto a colori per farceli vedere. Nonostante questo, però, raccontavano i vicini, molti oriundi erano contrari all’arrivo degli stranieri, ma ancora si poteva convivere lo stesso. Non appena il lavoro aveva cominciato a scarseggiare, ecco che hanno chiuso le frontiere del paese come se fosse un castello fortificato.
Ad ogni modo qui in frontiera per ora il lavoro non manca, perché la maggior parte degli slavi che arriva in stazione viene arruolata per la costruzione del grande muro che divide il paese dal resto del mondo. Sia verso nord che verso sud hanno cominciato ad alzare una grossa barriera protettiva che segue tutta la linea verticale del confine. Non si sa bene da cosa si debbano proteggere, perché nessuno slavo o straniero in generale ha mai tentano di valicare la frontiera clandestinamente, ma certe cose vanno prevenute e non c’è bisogno di farle succedere. Anche se non sono ben remunerati, la gente che lavora a questa grande impresa (che serve a garantire la pubblica sicurezza), lo fa senza lamentarsi e nel pieno rispetto della legge. Pensano che sia preferibile aspettare lavorando piuttosto che essere costretti a ripartire per ricominciare da capo nel proprio paese.
Finora si sono verificati pochi casi in cui a qualcuno siano arrivati i documenti e poi sia riuscito ad attraversare la frontiera. Uno di questi era un carrozziere, arruolato per la costruzione del muro. Un giorno, mentre faceva l’impasto per i mattoni in una pattumiera, era stato chiamato in caserma per rispondere ad alcune domande (istruzione, posizione sociale, familiare, provenienza e così via), poi gli avevano riferito che dall’altro lato della frontiera, in una piccola città balneare, era morto un carrozziere, l’unico carrozziere che c’era. Allora la sera, quando aveva finito di lavorare, il carrozziere aveva raccolto le sue cose e dopo una serie di saluti amichevoli con i compaesani era riuscito a entrare dall’altro lato. Quel giorno noi che eravamo da questo lato abbiamo applaudito entusiasti, mentre il carrozziere alzava la mano come a dire: “A presto, a presto... Prima o poi ci rivedremo da quest’altro lato”.
Da quando i gendarmi hanno assunto il comando della frontiera non parlano più con gli stranieri che arrivano sui convogli se non per fare delle domande precise che rivolgono a tutti allo stesso modo. Diffidano di tutto e di tutti. Lo dicono anche loro: “Non siamo tenuti a tenere conversazioni con voi”. Dunque, parlano tra di loro durante la sorveglianza o con i capi costruzione o al limite con i proprietari dei negozi, che hanno aperto da quando hanno cominciato a trattenere gli stranieri. Dicono che è solo un problema di comprensione, che è molto difficile capire gli slavi e che gli slavi addirittura non si capiscono neanche quando parlano tra loro: “Figuriamoci se riusciamo a capirli noi”.
La maggior parte dei gendarmi vive in un quartiere isolato che fa parte della gendarmeria di frontiera: una serie di case a schiera al di là della stazione, un campo da calcio, un’osteria solo per loro, un ospedale di pronto intervento e tanti capannoni. Il loro compito è mantenere l’ordine per la costruzione del muro e, come ho già detto, controllare l’arrivo dei convogli. Gli slavi invece vivono da quest’altro lato (tranne me che, ho già detto anche questo, vivo in una casupola presso la stazione). Dormono in otto o dieci persone in case di legno tirate su alla svelta da loro stessi. Aspettano solo di attraversare la frontiera per farsi una vita migliore, occupare i lavori che gli oriundi non vogliono più fare perché troppo faticosi. Come nel mio caso. Io ero partito con l’intenzione di fare il falegname, che è un lavoro che so fare abbastanza bene e ho sempre fatto laggiù nel mio paese (mobili, sedie, credenze, di tutto un po’), invece mi hanno fermato e con la scusa dei documenti mi trattengo qui. “E poi,” mi ha detto un gendarme, “dall’altro lato di falegnami ce ne sono già abbastanza, quindi fino a quando non si libera un posto non puoi attraversare la frontiera”. Nel frattempo aspetto che cambino le cose, che qualche vecchio falegname muoia o vada in pensione.
A molti slavi piace la vita di frontiera. C’è addirittura chi ha fatto chiamare il resto della famiglia per venire a vivere qui. Il lavoro non manca. Tra l’altro corrono voci che vogliono circondare tutta la parte orientale, e quindi ci vorranno altri slavi e altro tempo da impiegare per la costruzione del muro. Il muro ha un’altezza di circa tre metri, in cima corrono, lungo tutta la linea orizzontale, due strisce di filo spinato. È una grande impresa. Un’impresa necessaria, sostengono in molti. Io sono coinvolto parzialmente nella costruzione. Quando non arrivano i convogli, insomma, aiuto a scaricare la legna ai facchini o do una mano ai commercianti a sistemare la merce, oppure aiuto qualcuno a tradurre una lettera, per esempio. L’importante è che all’ora del bisogno mi trovi alla stazione pronto per fare il mio lavoro.
Ogni slavo che arriva, senza eccezione, viene sottoposto a un interrogatorio. Per ogni risposta io devo dare la mia versione, anche se non capisco tutto alla perfezione. I gendarmi non mi guardano mai in faccia mentre traduco. Piantano gli occhi sull’interrogato e non li abbassano fino alla fine delle domande. Dalla sala interrogatorio gli slavi vengono accompagnati a gruppi in infermeria per la visita medica e dall’infermeria, infine, agli alloggi, per essere arruolati l’indomani nella costruzione del muro. Tutti si alzano alla stessa ora, intorno alla sei del mattino, quando suonano la sveglia (percuotendo con un martello un pezzo di lamiera). Poi vengono chiamati all’appello nella postazione di comando (per fortuna il mio nome non compare sull’elenco degli addetti alla costruzione del muro). Poi viene servita la colazione, dopodiché si parte verso gli estremi della frontiera. A quell’ora c’è sempre un grande andirivieni di persone che corrono da una parte all’altra. Riuniscono tutti in gruppo e poi, scortati dai gendarmi, vengono accompagnati nei camion. A fine giornata ognuno riceve la sua paga, prima ancora di risalire sui camion che li riportano alle loro case. Mangiano tutti insieme e la sera dopo cena vanno all’osteria a spendersi quei pochi spiccioli guadagnati a forza di tirare su i mattoni. Così di giorno in giorno.
In frontiera ci sono due osterie, frequentate da gruppi diversi di slavi. Una è gestita dal fratello di un capo costruttore, un uomo sulla cinquantina, moro, non tanto alto, sempre diffidente. L’altra osteria invece la gestisce la moglie di un capo gendarme, insieme a altre persone. Il denaro in questo posto è come l’acqua di un presepe che gira e ritorna allo stesso punto di partenza. Comunque entrambe le osterie hanno l’obbligo di chiudere prima delle undici di sera. Dopodiché ogni slavo torna alla sua abitazione (c’è il divieto di girare di notte per la strada ed è meglio non fare sciocchezze altrimenti ti rispediscono indietro). Nessuno di noi sa se una volta conclusa l’impresa del muro ci concederanno di entrare o se dovremmo aspettare ancora. Nel frattempo gli slavi continuano a lavorare alla grande impresa. Dall’altro lato ogni giorno arrivano altri gendarmi, altri negozianti, altri costruttori; da questo lato invece continuano a arrivare altri convogli pieni di slavi. Io ho il sospetto che vogliano creare uno stato parallelo lungo la frontiera. Spero che un giorno, al più presto, possa andare dall’altro lato e vedere finalmente quel posto di cui ho sentito tanto parlare dai vicini, e praticare con la gente del posto questa lingua che ho imparato da lontano, leggendo i libri e i giornali che ogni tanto trovavo. Quando ho cominciato a capirla ho iniziato a imparare le poesie a memoria. Poesie di qualsiasi tipo, antiche, moderne, quelle che mi capitavano sotto mano. La ripetevo per giorni e giorni, sempre la stessa, poi ne imparavo un’altra e dopo un’altra e così via. Certe volte mandavo a memoria intere pagine. Ho la fortuna di ricordare tutto alla perfezione. Quando sento il suono o la pronuncia di una parola non la dimentico più. Mi rimane impressa per sempre, perché la mia mente funziona come un registratore. Se chiudo gli occhi potrei elencare nella mia testa tutti gli stranieri che sono arrivati qui: quei pochi che sono riusciti ad attraversare la frontiera o quelli che lavorano alla costruzione del muro e che ritornano ogni sera con la paga in tasca; potrei elencare anche tutti i gendarmi, quelli che sono già ripartiti, quelli arrivati da poco e che adesso sono in servizio. Anche se non ho lavorato alla costruzione del muro posso dire che lo ho visto crescere mattone per mattone. Ricordo ogni parola scambiata davanti ai gendarmi, con la sua pronuncia particolare, gli sguardi delusi degli slavi. So che tutto questo non ha importanza. L’unica cosa certa è che siamo qui e che ogni giorno ci alziamo presto il mattino e pensiamo che qualcosa cambierà (che un giorno abbatteranno il muro o continueranno a rinforzarlo, oppure che lassù si libererà un posto da falegname). Forse non riusciremo mai ad attraversare la frontiera, o forse la attraverseremo domani stesso, chissà. Noi aspettiamo perché è questo il nostro destino. Quando si realizzerà ciò che abbiamo aspettato forse capiremo che era meglio tornare indietro o non partire affatto. Nessuno ce lo può dire. Nel frattempo io continuo a svegliarmi nel cuore della notte quando bussano forte sulla porta di questa casupola e mi dicono: “Dai, alzati e vieni giù che sta arrivando un convoglio”.

Il muro sulla frontiera, è uscito nell’antologia Permesso di soggiorno: gli scrittori stranieri raccontano l’Italia, a cura di Angelo Ferracuti, Roma, Ediesse 2010, pp. 15-23, ISBN: 9788823014756.

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A cura di raffaele taddeo

 

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