Il mollificatore di scarpe
Lo zio Peppino è morto il mese scorso, faceva il calzolaio. È stato una settimana a dibattersi sul letto, poi è morto. Credeva nell’aldilà, anche se lui nell’aldilà non c’era mai stato; ora invece se ne era andato e non poteva crederci più. Per lo zio l’aldilà era una specie di palla gonfiabile gestita da uno stuolo di serafini, fatta per metà d’aria e per metà d’acqua, dove tu entravi per una fessura vicino a Montefortino e trovavi tutte le tue cose così come le avevi lasciate nell’aldiquà: il negozio con le scarpe sparse, gli scaffali e così via. Trovavi pure i tuoi cari o i clienti, anche quelli che non avevano finito di pagare nonostante continuassi a ripetere che non volevi buffi nel tuo negozio, gente morta da tempo, che stavano lì dentro, oltre la fessura, a nuotare o a volare, ché nell’aldilà non c’è differenza tra nuotare e volare, e parlavano tra di loro delle cose più strampalate. All’inizio non capivi bene, perché, diceva lo zio, ti ci devi abituare ai nuovi discorsi dell’aldilà:
“Come quando prendi le scarpe nuove, insomma le devi ammorbidire per camminarci bene”.
La zia Adelina gli aveva detto che quando lui sarebbe morto avrebbe spostato le sue cianfrusaglie in cantina, perché, diceva sempre la zia, era stufa di vedersi tra i piedi tutte quelle candele puzzolenti. Lo zio Peppino, oltre a fare il calzolaio e il venditore di scarpe, collezionava candele e per la zia, le candele dello zio, erano solo cianfrusaglie. A casa loro, in tutti gli angoli del pavimento c’erano candele: grandi, piccole, colorate, profumate, candele a forma d’ippopotamo, di giraffa. E lo zio, terrorizzato dall’idea di vedere le sue candele buttate giù in cantina, che da loro la cantina era una sorte di anticamera della spazzatura, credeva dell’aldilà, perché anche le candele, diceva lo zio, hanno il loro aldilà, uguale a noi.
“Ma per te, zio,” chiedevo a mio zio, “l’aldilà sta dentro l’universo o fuori l’universo?” Questo non lo sapeva. Diceva che a lui bastava che ci fossero le sue candele, poi poteva stare dove gli pareva, l’aldilà.
Io ci andavo spesso al negozio e alla casa dello zio, specie negli ultimi tempi, quando stava male e si premeva la pancia e diceva che sentiva un bruciore dentro come se tutte le candele gli stessero abbrustolendo lo stomaco. A me faceva pena vedere lo zio così, attorcigliarsi sul letto come un lombrico, perché uno zio, vuoi o non vuoi, è sempre un pezzo della famiglia; ma l’idea di sapere che le sue candele gli stessero abbrustolendo davvero lo stomaco mi faceva star bene. In fondo erano le sue candele. Dopo che è morto ho chiesto alla zia Adelina perché non accendeva le candele, che magari tutte quelle fiamme l’avrebbero aiutato a raggiungere la fessura vicino a Montefortino, perché ai morti, dicevo alla zia, se li spingi ad arrivare a destinazione sono contenti.
“Macché aldilà,” ha detto lei, “queste porcherie fanno una puzza che non te la levi più di dosso, e poi io c’ho da lavorare... Sono rimasta da sola in negozio, non vedi?” Allora le ho chiesto se voleva darle a me le candele, che io me ne avrei preso cura e le avrei continuato a collezionare. “È un’idea,” ha detto la zia. A me quando le persone dicono “è un’idea” e non dicono se è un’idea buon o cattiva mi danno sui nervi. Dopo qualche giorno la zia mi ha chiamato per dirmi:
“Allora, ‘ste candele, te le vieni a prendere o no?”
“È un’idea,” ho risposto.
“Dunque sbrigati, altrimenti le butto nella spazzatura”.
Le candele dello zio erano belle. A me davano tranquillità quando tornavo a casa dalla scuola e le vedevo tutte diritte sul tavolo e sul pavimento della mia camera, con gli stoppini che fuoriuscivano dalla punta. Certe volte mi veniva voglia di accenderle tutte insieme, ma oramai lo zio era morto da un pezzo e sicuramente aveva già oltrepassato la fessura di Montefortino.
Un giorno mi ha chiamato la zia Adelina per dirmi che lei da sola non ce la faceva a tirare avanti il negozio di scarpe e che se io non le davo una mano buttava via pure quello, come le candele. Le ho spiegato che io di scarpe non sapevo niente, ma che ci poteva contare lo stesso su di me, che piano piano avrei imparato a fare il calzolaio o il venditore, quello che c’era bisogno di fare.
“Voglio fornire un nuovo servizio,” ha detto, “un servizio di mollificazione; tu non devi fare quasi nulla, devi solo mollificare le scarpe... Ci metto un cartello: Si mollificano scarpe di tutte le misure e tu devi fare quello”.
Io non sapevo che cosa fosse questo nuovo servizio, così la zia mi ha spiegato tutto nei dettagli. Allora quando tornavo dalla scuola facevo come mi diceva lei. Stendevo lungo la stanza una stola di moquette rossa per camminarci sopra, mi lavavo i piedi (“se vuoi lavorare,” si è raccomandata, “devi fare così, non voglio zozzerie”), mi mettevo il talco, poi mi infilavo un paio di calzini di cotone o due o tre, secondo il numero che portava il cliente, e per ultimo mi mettevo le scarpe da mollificare. Le scarpe non le mettevo mai con le dita dietro, dovevo usare un calzascarpe lungo (anche questo mi ha detto la zia: “I clienti non vogliono mai portarsi via le scarpe nuove che feriscono dietro il piede o stringono davanti, le vogliono già mollificate, e se li metti col dito dietro rischi di romperle, usa sempre il calzascarpe che ti ho dato”). Allora io, che dovevo cominciare a fare il mollificatore di professione, camminavo avanti indietro sulla moquette lungo la stanza. Certe volte riscaldavo la suola con una delle candele dello zio Peppino, giusto per ammorbidirla, ci mettevo il grasso di maiale, la spazzolavo. Io capivo subito quando la scarpa era pronta per l’uso, ma se la zia mi diceva che per una determinata scarpa ci volevano otto ore di mollificazione, io facevo otto ore di mollificazione, né un minuto di più né un minuto di meno. Mi pagava per questo ed era bene che rispettassi i patti. A volte lei tornava con una scarpa già mollificata e mi rimproverava, con quella voce da sergente in pensione:
“Guarda che gli fa male il dito destro al cliente, vedi di darti da fare... E la notte prima di andare a dormire devi metterci anche il tendiscarpe, non ti scordare”.
“Va bene, zia, scusami, pensavo bastava così”.
“No,” diceva lei, “te l’ho detto, gli fa ancora male, quindi riscalda la suola con quelle candele, almeno servono a qualcosa”.
Allora riprendevo la scarpa destra, la riscaldavo sopra la fiamma di una candela, ne sceglievo una a caso, poi mi avvolgevo il dito del piede con un fazzoletto o con una benda e ricominciavo a camminare sopra la moquette senza fermarmi fino a quando la scarpa si ammorbidiva bene sulla punta del dito. A me piaceva fare quel lavoro. Se avevo da studiare, prendevo il libro in mano e camminavo lungo la moquette con le scarpe ai piedi. Certe volte, quando ero soprapensiero, e mi grattavo la schiena con la manina del calzascarpe, mi veniva in mente lo zio Peppino. Me lo vedevo oltre la fessura di Montefortino, circondato dalle sue candele o in negozio mentre parlava con un cliente, con tutte le sue cose duplicate nell’aldilà, così come le aveva lasciate quaggiù. Allora mi alzavo, mi infilavo le scarpe col calzascarpe, come mi aveva raccomandato la zia, e riprendevo a camminare lungo la moquette senza pensarci più, perché in fondo a me quella teoria dello zio sull’aldilà mi aveva messo sempre tanta tristezza addosso.
Commissionato da Carlo Carabba per “Il mese - cultura” della “Rassegna sindacale”, marzo 2010
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