El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Dopo la linea dell'equatore

Adrian Bravi

Dopo la linea dell’equatore

La storia della traversata in nave di Franco Jarkiewicz l’ho sentita raccontare tante volte in famiglia e ogni volta, col passare del tempo, diventava sempre più avventurosa. Ognuno ci aggiungeva un’osservazione, un particolare, ma io qui mi limiterò a raccontare solo i fatti, così come sono accaduti allora, nel 1946. Devo aggiungere che di tutti quelli che hanno sentito e raccontato quella storia nessuno ha immaginato il destino che nascondeva la vita di Franco Jarkiewicz. L’ultima parte del racconto, accaduta cinquantasei anni dopo l’inizio, mi è stata riferita in una lettera scritta dall’Argentina, non tanto tempo fa.
Nel 1946 Franco Jarkiewicz era su una nave che dieci giorni prima era partita dal porto di Genova carica di emigranti. Aveva appena quattro mesi e passava la giornata appeso al seno della madre. Non piangeva, ma capiva che la sua vita dipendeva da quel capezzolo morbido che teneva in bocca. Il padre, Jósef Jarkiewicz, era un polacco, alto, biondo quasi albino; arrivato in Italia a fine maggio 1944 col Secondo Corpo polacco, impegnato sul fronte adriatico per la conquista del porto d’Ancona. Maria, la madre, era una contadina di vent’anni, bella, alta e bionda anche lei. Abitava vicino Macerata, accanto al fiume Potenza. Si era innamorata del soldato polacco il primo giorno che l’aveva visto arrivare a casa sua per nascondersi dai bombardamenti tedeschi:
“Mi chiamo Jósef,” aveva detto il polacco con un accento che a lei faceva un po’ ridere.
In quel periodo Maria era fidanzata con un vicino di casa, un certo Giancardi, contadino anche lui. Un ragazzo magro, non tanto alto, forse più basso di lei; quando andava a trovarla si metteva un borsalino di feltro in testa e una giacca a righe che gli andava un po’ grande. Si sedeva davanti al camino e la aspettava, a volte anche un paio d’ore. Poi lei scendeva le scale, lo salutava appena e tornava su un’altra volta, senza di dire niente. Non l’aveva mai entusiasmata quel ragazzo, ma era pur sempre un vicino di casa. Quando però aveva conosciuto il soldato polacco stava sempre di sotto in cucina ad aspettarlo. Trascorsi alcuni mesi, prima ancora che finisse la guerra, aveva piantato Giancardi e si era messa insieme a Jósef. Dopo la liberazione, lui era rimasto a vivere con lei, in quel casolare. Beveva della grappa, la mattina presto si tuffava nel fiume, poi lavorava nei campi fino a sera. Nel 1946 era nato Franco ma quello stesso anno Jósef era stato costretto a partire, come tanti soldati polacchi rimasti in Italia. Tra le due possibilità che gli proponevano, o l’Australia o l’Argentina, aveva scelto l’Argentina. Della sua famiglia su a Varsavia non aveva saputo più niente, mai una lettera, un saluto da qualcuno. Nemmeno loro, i suoi genitori, avevano mai saputo niente di lui, né che ora, nel 1946, stava andando in Argentina con un figlio di quattro mesi e sua moglie né che, dieci anni dopo, sarebbe morto da solo, chiuso in una capanna in un quartiere malfamato di Buenos Aires, consumato dall’alcol.
La nave sulla quale viaggiavano aveva attraversato da poco la linea dell’equatore ed erano finite le scorte di acqua potabile. Tutti i passeggeri erano in preda al panico. Franco non mollava mai il capezzolo della madre, forse aveva paura anche lui, lo teneva stretto tra le gengive. Nel capezzolo libero si erano attaccati altri bambini. Si bagnavano le labbra con quel poco di latte che riuscivano a succhiare. Le madri imploravano Maria di aiutare i loro figli. Maria faceva quel che poteva col suo latte. I bambini che non sopravvivevano li avvolgevano in un lenzuolo bianco e li buttavano a mare. La madre di Franco ne aveva contati cinque e quel numero se l’era portato dentro come una colpa per il resto della vita.
“Cinque bambini che non sono riuscita a sfamare,” diceva.
In quel periodo a nessuno veniva in mente di respingere una nave carica d’immigranti, anzi, il governo di Perón incoraggiava l’immigrazione; era considerata una risorsa; tedeschi, ebrei, italiani, turchi, spagnoli, francesi, arrivavano da tutto il mondo. Approdavano a Buenos Aires e poi si sperdevano per il paese.
Quella nave però stava arrivando a stento, stremata dalla sete e dalla fame. Scivolava lenta su un mare tranquillo e piatto; la burrasca era lì sopra, sul ponte, e la gente pregava e cercava con lo sguardo una sporgenza sulla linea diritta dell’orizzonte.
Dopo l’arrivo al porto di Buenos Aires, gli Jarkiewicz erano rimasti una settimana a dormire in un deposito bagagli insieme con altre famiglie, un piccolo capannone accanto all’ufficio della prefettura. Poi Jósef aveva trovato lavoro come facchino in un quartiere fuori Buenos Aires, a Rincón de Milberg, dalle parti del delta. Erano andati a vivere in una casa di lamiera tirata su in fretta, vicino a un fiume. Né Maria né Jósef avevano mai visto tante zanzare insieme e tanti rospi che saltellavano intorno alla casa. Comunque, si erano abituati a tutto, anche alle inondazioni. La domenica Jósef tirava su i muri della casa con dei mattoni (il tetto, però, era rimasto per sempre in lamiera). Ogni giorno, prima di tornare dal lavoro si fermava a bere un cicchetto di ginebra al bar, poi continuava a bere a casa. Franco cresceva tra il fango e le zanzare, un ragazzo non robustissimo ma abbastanza in salute. Aveva imparato a giocare a calcio con un pallone di stoffa e la sera, prima di coricarsi, andava a prendere l’acqua con una damigiana da un rubinetto comunitario che si trovava a un centinaio di metri dalla casa. Sua madre, invece, anche se non lo ammetteva, si era pentita di essere andata in Argentina, a vivere in quel posto che bastava un po’ di pioggia per allagarlo; ma ormai la sorte aveva deciso e non poteva più tirarsi indietro.

Nel 2001, cinquantacinque anni dopo quella traversata atlantica, Franco Jarkiewicz aveva perso il lavoro. Le banche avevano chiuso i battenti senza restituire i soldi ai risparmiatori. Il presidente Fernando de la Rúa, eletto due anni prima, aveva lasciato in elicottero la Casa Rosada ed era fuggito alla svelta prima che lo prendessero a bastonate sulla testa. Il paese era devastato dalla crisi economica. La gente usciva sulle strade con le pentole in mano a protestare contro il governo, le banche e ogni sorta d’autorità civile. Erano giorni di repressione, di saccheggi ai supermercati e di morti. La famiglia di Franco, un figlio, la moglie e la madre Maria ormai anziana, tirava avanti con un piccolo risparmio in dollari che Maria stessa aveva nascosto per anni in un barattolo di biscotti. Durante la crisi, il figlio di Franco aveva abbandonato gli studi ed era andato a lavorare in un cantiere navale. Si alzava alle cinque del mattino e tornava alle sette di sera. Anche Franco faceva di tutto per sbarcare il lunario, muratore benzinaio venditore porta a porta eccetera. Per quelli della sua età diventava sempre più difficile guadagnarsi da vivere.
“E perché non vai in Italia? In fondo sei italiano pure tu. Là lo trovi di sicuro il lavoro,” gli aveva detto Maria.
“Sì, certo, e come ci arrivo, in Italia?”
“Te li do i soldi”.
“Tu per andare in Italia?”
“Sì io per andare in Italia”.
“E da dove li tiri fuori?”
“Tu non ti preoccupare, io ti pago il viaggio, trovati un lavoro e quando ti sei sistemato, veniamo anche noi”.
Non c’erano molte alternative in quel periodo giù in Argentina; e così Franco, per quanto non avesse alcuna voglia di andare in Italia, aveva comunque raccattato altri soldi in prestito e un mese dopo era partito a cercare fortuna. Mentre attraversava in aereo l’Atlantico, si era ricordato di quello che gli aveva raccontato la madre del viaggio in nave con lui attaccato al seno: “Cinque bambini morti buttati in mare”. Questa era una frase che aveva sentito sin da piccolo, una frase che era un colpo allo stomaco ogni volta che la ascoltava. Adesso lui invertiva la rotta, a cinquantacinque anni, quasi cinquantasei. Non sapeva l’italiano, nessuno glielo avevo insegnato, e soffriva di cuore. I primi giorni dopo l’arrivo era andato a dormire a casa di un parente, dopo era andato a vivere in un appartamento che divideva con altri due stranieri. Aveva trovato lavoro in una fabbrica d’elettrodomestici. Quattro mesi dopo però lo avevano licenziato. Era rimasto un mese senza lavoro, poi ne aveva trovato un altro in una fabbrica d’infissi e il fine settimana andava a raccogliere le patate o i pomodori. Un giorno, all’improvviso, era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale per un infarto. “Per poco non mi muoio,” aveva scritto in una lettera. Quando lo avevano dimesso si era trovato di nuovo sul lastrico. Cominciava a rendersi conto che, per come andavano le cose, era impossibile chiamare la famiglia. “Per la seconda volta l’Italia mi sta mandando via,” pensava. Un giorno, visto che la situazione in Argentina pareva cambiare in meglio, aveva deciso di tornare giù:
“Basta, yo vuelvo e che Dio me la mandi buona”.
Aveva chiesto ad amici e parenti soldi in prestito che sapeva già di non poter restituire, ma lui aveva promesso che li avrebbe restituiti lo stesso: “Aunque mi costi la vita, li riavrete quei soldi,” diceva. Aveva pensato di andare a Varsavia per sapere qualcosa dei suoi nonni o dei suoi parenti, ma non aveva né i soldi sufficienti né la forza di spostarsi ancora. “Un giorno ci andrò, certo che ci andrò,” si ripeteva fra sé e sé. E poi a Varsavia non sapeva dove andare, visto che il padre non gli aveva mai parlato della sua famiglia. Per Franco il padre era un uomo senza passato. Era venuto al mondo il giorno in cui si era presentato con quell’accento polacco a casa di Maria ed era morto di cirrosi quando Franco aveva dieci anni. Tutto quello che lui sapeva di suo padre si racchiudeva lì, in quel pugno di anni. No, non poteva andare a Varsavia adesso, anche se, pensava, non voleva morire con l’incognita di sapere chi fosse quel soldato polacco.
Un ex compagno di lavoro gli aveva consigliato di imbarcarsi in una nave da trasporto per tornare in Argentina: “Ci mette parecchi giorni ma costa molto di meno,” gli aveva detto, “e poi, non sei costretto a fare un biglietto di andata e ritorno”.
Gli dispiaceva partire di nuovo per l’Argentina: “Tornerò, certo che tornerò, che l’Italia è bellissima,” diceva ai parenti che erano andati a salutarlo per la partenza, “ma la prossima volta vengo su con mamma, che muore dalla voglia di rivedere la campagna”.
Si era imbarcato a Genova in una nave mercantile. Dopo le pratiche d’imbarco era salito attraverso una lunga scala. Sembrava che nessuno si accorgesse della sua presenza. Tutti andavano di gran fretta e non avevano tempo da perdere. C’erano quelli che badavano a caricare la merce, quelli che controllavano la manutenzione, l’approvvigionamento, eccetera. C’erano pochi passeggeri come lui, sei o sette, non di più, parlavano tutti inglese e lui quella lingua non la sapeva. La sua cabina era abbastanza spaziosa, ma senza oblò, come tutte le cabine economiche. Un letto a castello, un armadio, un tavolino e una sedia. Dopo che la nave aveva lasciato il porto con un paio di colpi di sirena si era addentrata in mare ed era tornata la calma. I giorni passavano a rilento, continuava ad avere l’impressione che l’equipaggio, sempre taciturno, non si accorgesse che lui era lì, in quella cabina, da solo. Si adeguava al ritmo dell’equipaggio per i pasti, ma il resto della giornata la passava sopra il ponte a guardare il mare, il mutare dei colori, le nuvole, lo spruzzo delle onde. Gli piace l’idea di viaggiare fuori da ogni frontiera, in mezzo all’oceano; l’unico posto dove riusciva a non sentirsi straniero.
Quando la nave aveva attraversato la linea dell’equatore Franco era andato in cabina a sdraiarsi sul letto. Sentiva un dolore fitto sul petto che gli andava su per il collo e le braccia. Aveva anche la nausea e sudava da tutte le parti. Non si sa cosa gli sia passato per la testa in quel momento, né perché non abbia chiesto aiuto. Forse aveva pensato al viaggio che aveva fatto tanti anni fa, o forse aveva capito che da allora gli era rimasto un conto in sospeso, chissà.
La mattina dopo, un marinaio che era entrato in cabina per le pulizie aveva trovato Franco morto sul letto, con una mano sopra il petto e l’altra che pendeva di fuori, quasi a toccare per terra. Non c’era nessun medico a bordo, ma bastava poco per capire che era morto d’infarto. Il giorno dopo ancora, di mattino presto, i marinai lo avevano avvolto in un lenzuolo bianco e, in presenza di tutto l’equipaggio, lo avevano buttato in mare.

Dopo la linea dell'equatore è tra i vincitori del premio Premio Jerry Masslo (Premio Nazionale Biennale Jerry Essan Masslo) 2010.

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(ISSN 1824-6648)

Adrian Bravi: l'antieroe

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 8, Numero 32
June 2011

 

 

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