Purtroppo non posso ballare il tango
Conosco una coppia che due o tre sere la settimana va a ballare il tango in un teatrino di periferia adibito a balera. Lui porta i baffi a manubrio, le cravatte a pois e le scarpe a punta tirate a lucido; lei invece usa tacchi alti, minigonna e calze a rete. Abitano nel mio stesso palazzo e io li guardo sempre quando escono di casa per andare a ballare il tango. Credo siano alle prime armi, il che rende la cosa ancora più eccitante. A volte, durante la notte, mi sembra di sentire il fruscio delle sue calze a rete quando lei improvvisa un cruce di gambe, oppure immagino lui che insegue quella geometria neurotica che gira e rigira su se stessa. E allora provo una certa invidia per questo baffone che scimmiotta quelle smorfie da porteño innamorato, un po’ misogino. Anche a me, lo confesso, piacerebbe andare in uno di quei posti, impomatarmi i capelli, ingiacchettarmi per bene e inseguire a passo di danza un pensiero triste che si balla, come dice Enrique Santos Discépolo in quei suoi famosi versi - che poi non sono versi, è solo una definizione, ma a me piace immaginali così. Darei di tutto per avere una donna come la mia vicina che mi insegua per portarla a spasso di qua e di là, indicarle un incrocio di gambe con un gesto appena. I suoi movimenti, insomma, dovrebbero essere la prosecuzione dei miei pensieri, ma purtroppo sono paraguaiano, e per un paraguaiano, nonostante il Paraguay sia un paese confinante con l’Argentina, il tango è ancora più estraneo di quanto lo possa risultare per uno del Kazakistan.
Oltre a questo, che già di per sé potrebbe bastare per escludermi dalla cerchia raffinata dei porteños, ho un tic nervoso abbastanza visibile che mi costringe a chiudere l’occhio destro e a stringere con un colpetto secco metà guancia verso un lato, con un’intermittenza che oscilla tra i quattro e gli otto secondi. Non è un bello spettacolo da vedere, l’ammetto. In compenso, però, parlo quattro lingue abbastanza bene: lo spagnolo, il francese, l’italiano e il guaranì; inoltre, come buona parte dei paraguaiani sparsi per il mondo, cerco di fare il meno possibile per campare. Nella prossima vita vorrei essere argentino, non avere nessun tic nervoso e ballare il tango. La prima volta che ho visto ballare il tango avevo poco più di venti anni. Abitavo dalle parti di Macerata e un’amica mi aveva costretto ad andare a ballare perché, secondo lei, io, essendo sudamericano, avrei dovuto impararlo subito, ‘sto tango.
“Si dà il caso,” le ho detto, “che dalle mie parti il tango non si balli affatto. Per caso conosci qualche calabrese che balli la zarzuela?”
Non mi ha risposto. Tuttavia, siccome certi capricci vanno senz’altro assecondati, ci sono andato lo stesso, anche se, pur amando il tango, non avevo nessuna voglia. Il maestro di tango era uno spilungone molte attraente, anche lui maceratese come la mia amica, con una pettinatura alla Humphrey Bogart. La sua compagna, invece, nonché istruttrice rinomata dalle parti di Macerata, era un’argentina tutto tette e culo all’insù. La prima volta che mi ha visto ha chiuso l’occhio anche lei, poi ha capito che era un tic nervoso e non lo ha chiuso più. Nella lezione introduttiva il maestro tanghero ci ha insegnato la salida: gambe unite, mento alzato, schiena diritta. In pratica, consisteva nello spostare una gamba verso un fianco, poi rincalzare con l’altra davanti e così via. La mia amica era felicissima, le piaceva tanto la salida. Quando il maestro mi ha chiesto di dove ero gli ho detto subito, senza tergiversare, che ero paraguaiano. Non ha detto, ad esempio:
“Allora dovresti sapere ballare il tango”.
Ha detto solo: “Di quale città sei?”
“Di General Romero,” ho risposto.
“Ah,” ha detto il maestro ed è andato a cercare subito l’argentina.
“Di quale città sei, scusa?” mi ha chiesto lei avvicinandosi con quell’aria un po’ esistenzialista che hanno le ballerine di tango.
“Di General Romero,” ho risposto.
“Ah,” ha detto anche lei.
Io sono orgoglioso di essere nato a General Romero: un paese di ottocento anime circa, comprese quelle dei morti, che confina con la Bolivia. Non c’è niente in questo paese, solo vegetazione, zanzare e piccoli fiumi che si intrecciano dappertutto. La gente di General Romero non balla mai e a me, da piccolo, mi chiamavano occhietto, per via del tic, cosa che mi faceva uscire dai gangheri. Una volta, quando sono tornato in Paraguay, uno del mio paese ha detto:
“È tornato occhietto”.
La sera gli ho spezzato un dito, così impara a chiamare per nome. Quel giorno a Macerata, sia il maestro di tango che la sua compagna istruttrice sembravano chiedersi cosa stessi facendo io in quel posto, con quel tic nervoso e quell’accento mezzo guaranì. In effetti, nulla giustificava la mia presenza. Forse che il tango mi stava rifiutando? Forse che voleva salvaguardare la sua peculiarità europea dall’intrusione amazzonica? Se quella sera, tornando a casa, avessi trovato un argentino per strada giuro che gli avrei fatto inghiottire tutta la carne schifosa che fanno laggiù e di cui vanno tanto fieri. Dopo quella sera non ci sono andato più a lezione di tango, e sono certo che nessuno mi ha rimpianto. La mia amica maceratese, invece, ha continuato ad andarci per un po’ di tempo, ma poi ha smesso anche lei. Ha fatto bene, era uno disastro a ballare. Invece, i miei vicini di casa, che due o tre sere la settimana vanno a ballare il tango in un teatrino di periferia, lui incravattato fino al mento e lei minigonnata sopra le ginocchia, secondo me, ballano benissimo, anche se sono alle prime armi. Quelli che sono alle prime armi amano il tango in un modo spropositato e pensano che gli argentini siano tutti rosa in bocca e casquè, invece non sanno che sono degli stronzi megalomani. Io odio gli argentini, eppure, nella prossima vita vorrei nascere a Buenos Aires e non avere nessun tic nervoso. Se tu non hai nessun tic nervoso e nasci a Buenos Aires il tango viene da sé, anche se sei un disastro, come la mia amica maceratese. Che poi, a me, questi italiani, partigiani del tempo libero, che si riuniscono per ballare il tango, mi danno un po’ sui nervi. Li capisco, ma allo stesso tempo no. Se io non avessi questo tic nervoso ignobile forse imparerei anche io a ballare, in fondo è una stronzata.
“Non è così semplice come pensi tu,” mi ha detto una volta un argentino che andava in giro a vendere prodotti tipici nelle erboristerie. Lì per lì ho pensato che noi paraguaiani non abbiamo mica tutti questi prodotti tipici da proporre alle erboristerie.
“E com’è?” gli ho chiesto.
“È come un pensiero triste che si balla”.
Be’, questo lo sapevo già.
Uscito nella rivista L’accalappiacani