Approdo a Recanati
Era un sabato mattina, mi ricordo bene, e c’era pure il sole; da un lato vedevo i monti, foderati appena da un velo di foschia, dall’altro il mare. Cominciava l’estate e io sudavo da tutte le parti. Mi ero lasciato l’inverno argentino alle spalle con una maglia e una giacca che ora portavo addosso, perché uno non ci crede mai che dall’altro lato del mondo possa accoglierti, come un miracolo, una temperatura sopra i trenta. Ma mi andava bene tutto, anche se a Recanati quel sabato c’era il mercato e i bancarellari sbraitavano e io non capivo una parola. Mio padre mi aveva anticipato, prima della partenza, che mi avrebbe dato volentieri i suoi occhi, se avesse potuto, per vedere come era la sua Recanati quaranta anni fa. Mi parlava spesso di un cortile, che non ho mai trovato, con una finestra dalla quale si affacciava una donna, diceva lui, che assomigliava a un carcerato con i baffi. Quando ero arrivato a Roma avevo dormito una notte in un albergo che si chiamava Roma, vicino alla stazione Termini. Avevo appena 250.000 mila lire in tasca, senz’altro mi dovevano bastare fino a quando non avrei trovato un lavoro. In quei giorni avevo imparato a centellinare tutto. Da Roma, il giorno dopo, avevo preso un treno per Ancona e, da Ancona, la corriera per Recanati. Mentre facevo la curva del Colle dell’infinito ho pensato che sarebbe stato bello avere gli occhi di mio padre per vedere le cose di quaranta anni fa. Quando scesi a Porta Cerasa, l’autista aprì il baule della corriera e prese le mie cose: una valigia nera e una borsa azzurra con cui andavo a campeggio e che ora era piena di regali. Non mi rendevo conto di quanto poteva essere grande questa città, e cercare l’indirizzo dei miei zii, che mi aspettavano da un giorno all’altro, mi sembrava un’impresa impossibile; non solo per il peso della valigia e della borsa, quanto perché non sapevo da che parte andare. Comunque, trovai un tassì proprio lì, a Porta Cerasa. Una macchina nuova di zecca con una bambola appesa allo specchietto retrovisore. “Dove devi andare?” mi chiese il tassista aprendomi lo sportello della macchina. Senza dire niente gli allungai il biglietto con la via. “Che sei il nipote di Bravi, quello che c’ha l’alimentare?” “Credo che sì,” risposi. “Embè, prendi il tassì?” “Ha otra soluzione?” “No, è meglio se prendi il tassì”. Il tassista caricò i miei bagagli nel baule, rifeci di nuovo la curva del Colle dell’infinito e dopo un centinaio di metri si fermò davanti a una casa con le finestre aperte. “Ehi, Bravi,” urlò dal finestrino, il tassista, “è arrivato un nipote dall’America”. “Oh per dio,” disse mio zio mentre correva a braccia aperte verso di me. Il tassista rimase a guardarci un po’, poi tirò fuori i bagagli dal baule e disse che doveva andare. “Quanto es?” gli chiesi. “Facciamo dieci, dai”. Poi salutò a mio zio e se ne andò in retromarcia.
Uscito nella rivista “Nostro lunedì”