La straordinaria grandezza di Italo Svevo fu quella di mettere a fuoco in maniera inequivocabile che l’uomo in tutti i tempi è stato ed è un “malato”. Malattia che risiede nel suo essere uomo, nella sua dimensione di esistenza più intima. Malattia che acquista un carattere universale al di fuori dello spazio e del tempo. Questa malattia è la nevrosi, che si traduce in infinite sfumature; essa risale fin al momento del concepimento quando milioni di spermatozoi lottano fra di loro per arrivare, uno e uno solo, a congiungersi con l’uovo femminile. Perché questa lotta con gli altri spermatozoi, questo voler primeggiare è già una nevrosi, come sottilmente lascia intendere Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, un suo scherzoso film. E poi tutti i momenti della nostra vita sono segnati da costanti e continui modulazioni della espressione di nevrosi. Svevo esemplifica la malattia con l’impossibilità di liberarsi dal fumo. Una dipendenza che lo pone allo stremo, lo infiacchisce, lo rende ridicolo.
Quando ho incominciato a leggere i testi di Adrian Bravi mi è venuto alla mente proprio Svevo. Non c’è nessuna relazione, né stilistica – salvo che per i momenti autoironici -, né temporale o geografica fra i due, sul piano del contenuto qualcosa di similare esiste. Tutte e due mettono a fuoco il problema di una malattia dell’uomo, che mentre in Svevo è più universale, anche perché meno accentuata, in Bravi è più insistita ed ossessiva. E’ una malattia psichica, che investe in maniere più o meno intense la totalità degli uomini. In società contadine, non raggiunte dalla modernità un rapporto simile dell’uomo con se stesso e la sua imperfezione non esiste, perché la tensione dell’uomo è rivolto altrove, alla necessità della sopravvivenza, alla necessità di procurasi i beni per vivere. Le classi sociali più elevate, se sono in qualche modo toccate da atteggiamenti similari a quelli descritti da Svevo o Adrian Bravi, sono non malate, ma melliflue, prive di nerbo. E’ l’avvento della borghesia che universalizza questo nuovo aspetto dell’uomo e lo svincola anche e necessariamente da ogni relazione di classe facendolo diventare quindi generale. La psicanalisi difficilmente sarebbe nata in una società feudale o aristocratica; è una scienza tipica della borghesia.
Lo scrittore italo-argentino configura i suoi personaggi con atteggiamenti di nevrosi ossessive tendenti alla psicosi e li svincola da elementi singolari perché essi acquistano la dimensione di generalità. L’uomo contemporaneo non è più un malato di sola nevrosi, ma è un malato di psicosi perché incomincia a spezzarsi il rapporto con gli altri, perché la sofferenza interiore si accentua. In La pelusa l’ossessione della pulizia e della polvere arriva al punto di rottura quando Anselmo ormai “sente” la polvere cadere. Si può sentire il silenzio, ma il cadere della polvere è qualcosa che esula dalle possibilità dell’uomo a meno che questi non sia pervaso da forti disturbi. La condizione postmoderna dell’uomo d’oggi, la solitudine in cui si è cacciato perché pensa di poter credere solo a se stesso, di poter fare a meno degli altri è l’humus in cui cresce ogni malattia e sofferenza mentale. L’uomo d’oggi è diventato meno politico, meno socievole. Non è più l’homo politicus aristotelico, la sua relazione si è dissolta nel momento in cui si è addensato nelle metropoli le quali lo hanno reso un’isola o un castello fortificato. L’uomo premoderno, l’aristocratico medioevale era bardato da una corazza che lo impacciava e lo rendeva persino ridicolo quando scendeva dal suo cavallo. L’uomo contemporaneo si è liberato dalle corazze, sembra vivere in una prossimità totale ed invece è bardato dalla corazza delle sue nevrosi così che la prossimità diventa la lontananza più abissale. Di questo risentono i personaggi di Adrian Bravi. Non si interessano di ciò che accade intorno a loro, non si relazionano o sono mal relazionati, ma sono tutti dentro le loro ossessioni. E’ il comportamento ormai generalizzato di chi cura il proprio corpo e profonde ricchezze e danaro per raggiungere un ideale di bellezza che si depaupera in pochissimo tempo; è il comportamento di chi passa il suo tempo fra uno shopping ed un altro; è il comportamento di chi è alla continua ricerca di un diversivo, di qualcosa che lo allontani dalla realtà.
Questo è l’aspetto dei suoi personaggi che Adrian Bravi vuol mettere a nudo come fatto di denuncia e di ironia sarcastica. Ma accanto a questo si accomuna un altro aspetto molto più umano e in controtendenza. E’ quella dell’anti eroe. I personaggi dello scrittore italo-argentino non solo non sono degli eroi, ma rifuggono ogni atteggiamento di eroismo. I personaggi dello scrittore italo-argentino non sono dei vinti, perché i vinti, come i personaggi delle opere di Verga o quelli descritti da Christiana De Caldas Brito in 500 temporali, sono comunque degli eroi che non raggiungono i loro scopi, perché segnati dal destino della povertà. I personaggi Braviani sono dei rinunciatari. In Sud 1982, Adorno continua ad avere sempre un atteggiamento di rinuncia, di incapace, di pauroso. Quando è di sentinella presso l’aeroporto delle Malvine, al suo compagno di guardia Huidobro dice:” Io, invece, posso fare solo due cose; Huidobro, o scappo via e mi nascondo da qualche parte o mi arrendo subito. Di sparare a bruciapelo contro un cristiano, non sono capace. Giuro.” E quando è respinto dalla madre di Francisca, la sua ragazza, e in fondo da lei stessa, perché appartiene a quell’insieme di soldati che sono stati sconfitti dagli inglesi, l’atteggiamento di Adorno è di chi si arrende senza combattere, senza lottare. “Francisca ha continuato a guardarmi senza dire niente e poi ha chiuso la porta. Ecco fatto! Ero di nuovo in mezzo alla strada. Ho fischiato un paio di volte per vedere se mi raggiungeva il cane, ma anche lui era sparito nella notte. Mi sono avviato in silenzio verso casa attraversando i coni dei lampioni sulle strade. Poi ho pensato alle Enneadi di Plotino, alle cose che aspirano all’unità compiuta e perfetta di Dio, all’irrealtà della vita e a tutte quelle cose profonde che non servono a niente quando qualcuno ti chiude la porta davanti agli occhi”. Il cane che lascia da solo Adorno, non simboleggia ancor più la solitudine di quest’ultimo, ma mette invece in risalto l’atteggiamento di sconfitta, di rinuncia, di vinto vigliacco del soldato sconfitto. Neanche un cane ti può stare vicino se sei un debole e un antieroe. La guerra, non combattuta, in cui non ha fatto nulla, continua ad essere un incubo come se fosse passato per le più straordinarie disavventure.
Ma anche il tema dell’antieroe trova un parallelismo ancora con Italo Svevo, di cui ci si ricorda il tema dell’inettitudine. L’indagine psicologica, narrativa, sull’inetto è compiuta da Svevo in maniera ineccepibile ed è la conseguenza della nevrosi di dipendenza. Nello scrittore triestino l’inettitudine trova la sua origine nella dipendenza, nella incapacità di assumere decisioni autonome. Zeno non riesce neppure a scegliere la moglie perché si trova a dover sposare Augusta senza neppure averlo voluto. La stessa cosa avviene per Emilio del romanzo Senilità. L’antieroe di Adrian Bravi non è in dipendenza con la nevrosi dei personaggi da lui creati. Ne ricaviamo una qualche relazione specialmente dalla stessa ammissione del narratore del libro il riporto in quelle note già riportate nelle analisi del testo; l’antieroe dei personaggi dello scrittore italo-argentino non ha la struttura dell’inetto, perché qualche decisione riesce pur sempre a prendere. Lo stesso suicidio di Anselmo in La pelusa, la decisione di Adorno in Sud 1982 trasferirsi dall’Argentina e venire in Italia rappresentano una reazione alla estrema inettitudine che si stava manifestando in lui. “Se fossi andato a sinistra, per esempio non sarei potuto andare a destra e, se fossi andato a destra, non sarei potuto andare a sinistra. Dunque era meglio aspettare e tirare dritto”. Ma “se non si riesce a fare il punto della situazione in loco, la cosa migliore da fare è viaggiare e andare in giro per il mondo”. Non è neppure somigliante ad un altro antieroe della Letteratura italiana, Mattia Pascal, perchè questi decide di rientrare nel consorzio civile, nella sua identità nel momento in cui si accorge di non poter essere in qualche modo un eroe finge il suicidio per ritornare nella sua identità e seppure in maniera attenuata, essere comunque un eroe.
L’antieroe di Adrian Bravi è un personaggio che suscita però simpatia, perché intanto è contro qualsiasi violenza, contro la guerra, è il tipo di persona che non farebbe male ad alcuno. La cultura occidentale imbevuta del mito di eroi come Achille, Ettore, Ulisse difficilmente accetta chi non mostra decisione, capacità di opporsi, di lottare, chi preferisce arrendersi piuttosto che ferire o colpire l’avversario. Eppure inconsciamente avvertiamo che l’eroe da noi tanto declamato è quello che ci ha portato alla guerra, è quello che ci porta allo scontro quotidiano, è quello che impedisce di gestire con serenità le situazioni. In fondo la cultura occidentale ha continuato a osannare la figura dell’eroe anche rifiutando in fondo una acquisizione di Gesù Cristo come antieroe, che sa perdonare il nemico e porgere l’altra guancia. Anche Gesù Cristo viene acquisito come eroe e non come antieroe mantenendosi così fedeli alla tradizione greca e biblica. La stessa figura del Cristo che viene fuori dal film di Mel Gibson è in stretta coerenza con l’idea di eroe greco che lotta fino alla fine e sopporta ogni cosa per la sua idea. La accettazione della sua sofferenza fino allo strazio è un atto di estremo eroismo. Anche Ettore sa di essere in partenza uno sconfitto ed accetta il destino di combattere contro Achille. La santità per la Chiesa consiste nel vivere “eroicamente” le virtù. Ma ogni eroismo è sempre un atto di guerra e violenza. Anche scrittori come Camus o Dostoevskij, non riescono a fare a meno della tradizione dell’eroe greco. La santità laica promulgata dal Camus ha ancora qualcosa di eroico, e così pure la figura dell’”idiota” del grande romanziere russo mantiene sempre questo alone di eroismo, incompreso, ma eroismo, di cui non ci si può ridere o sorridere. I personaggi di Adrian Bravi perdono la caratteristica dell’eroismo perché su di loro ci si può scherzare, perché fanno sorridere, ma tuttavia si avverte che solo quell’antieroismo può portare ad una umanità più rispettosa, tollerante.
I personaggi di Bravi mostrano qualche atteggiamento di eroismo lo con le donne, le mogli, le suocere. Ciò avviene in La Pelusa e in Il riporto, non in Sud 1982. In fondo è l’insofferenza con le strutture sociali leganti l’individuo che lo costringerebbero a comportarsi da eroe, ad avere fermezze e consapevolezze.
Anche i personaggi dei racconti sono degli antieroi, nonostante che le storie raccontate avrebbero potuto renderli dei miti, invece risultano sempre non solo perdenti, ma nulli. Si pensi al personaggio Franco del racconto Dopo la linea dell’equatore, personaggio che compie due viaggi per l’Argentina, un viaggio di ritorno per incontrare una morte senza testimoni. Oppure quello di Non c’ho avuto tempo. Nei racconti ritornano personaggi con i tic, quindi segnati da quella malattia di cui abbiamo parlato nella prima parte di questa analisi.
C’è un solo racconto che si distingue ed assume caratteristiche diverse anche perché il tema sembra essere il diverso, che questa volta viene riscattato. E’ il racconto pubblicato su el-ghibli al numero 25 intitolato “L’albino e il tumuto”. Il personaggio di questo racconto, emarginato perché diverso (bianco) in una comunità tutta di neri, continuamente poco stimato e poco sopportato alla fine viene associato al colore della luna e quindi riscattato anche perché era stato determinante nello sconfiggere una tribù nemica. Ma questa diversità deriva con tutta probabilità dalla assimilazione dell’autore-narratore al personaggio, perché simbolicamente l’albino rappresenta la condizione di emarginazione dei migranti, del migrante, che ha bisogno di essere riscattato anche attraverso la letteratura.
Un’ultima considerazione riguarda la modalità di scrittura utilizzate da Adrian Bravi. Gli viene riconosciuta una buona padronanza linguistica, che è innegabile; quello che è in qualche modo più significativo è l’andamento strutturale dei suoi scritti. I romanzi sembrano sempre dei lunghi racconti più che dei romanzi che per essere tali necessitano che si espandono e si dipanano nel rappresentare e delineare molteplici personaggi , così come è tipico del romanzo europeo. In Bravi si tratteggia solitamente un unico personaggio, gli altri sono abbozzati e servono da bordone al personaggio principale. Se i suoi romanzi non sono solo dei lunghi racconti ciò deriva dal fatto che la struttura fondamentale non è epica come è propria dei racconti, ma il personaggio proposto è in divenire, non è fissato ed epicizzato. Anche i racconti risentono di una struttura minimalista; è dominante nella creazione artistica di Adrian Bravi il racconto breve, tipico della letteratura novecentesca e specialmente del continente americano (USA, Sud America).