Anche in questo racconto emergono particolarità significative e l’autore rivela una abilità narrativa e una padronanza linguistica di notevole spessore ed insolita per uno straniero. Le immagini che percorrono tutto il tessuto narrativo denotano un meticciato culturale ricco e fecondo fra cultura araba medio-orientale e quella occidentale. Il racconto intitolato la via delle stelle gioca su due piani che sono distinti anche graficamente nel senso che vi sono parti stampate con caratteri diversi, ad indicare chiaramente situazioni diverse.
La storia, non semplice sul piano della trama, perché i tempi, i richiami, i fatti vanno sempre ricomposti e ricollocati, si snoda nella struttura grafica a corpo più grande. La parte stampata a carattere più piccolo rappresenta momenti di ricordo, di sogno, che assumono l’aspetto del mitico, perché diventano strumenti e mezzi per riscaldare e dare significato alla propria esistenza. È la
vicenda di una famiglia girovaga, di zingari di etnia composita, la cui purezza etnica è già contaminata.
Uno turco e un arabo vivono di spostamenti e di espedienti che vanno dalla mercificazione del corpo, fino all’arte divinatoria, all’interpretazione del segno degli astri. Il fatto determinante è il preannuncio e la morte di Maddalena giovane donna, morta di tumore, che per la sua gaiezza, la sua
capacità di amare era diventata la rappresentazione della vita stessa, per il suo ragazzo. Storia scarna, ma densa di immagini in cui, oltre alle considerazioni sulla costante condizione di emarginazione e di miseria dei diseredati, si allude sempre a fatti sociali del nostro vissuto:
l’espansione urbanistica che non tiene in considerazione nulla e che diventa brutale quando scaccia i diseredati che hanno trovato la loro sopravvivenza in baracche o che hanno un’unica possibilità di vita nella tutela sociale.
È una storia fatta di spezzoni che vanno ricomposti. Ciò che più emerge è la maestria nell’uso della lingua e la sua capacità contaminatrice. Si osservi l’attacco del racconto: “In un tempo dell’esistenza, Dio appariva spesso nel cielo azzurro del Sahara occidentale”. È la sostituzione al nostro “C’era una volta”.
Ma la citazione di Dio non è il richiamo o l’invocazione della divinità come lo era negli scritti medioevali della civiltà occidentale o come accade nei testi di cultura islamica, ma è il riportare il tempo alla dimensione segreta della sua esistenza, all’eternità, alla separazione fra Dio e l’uomo perché immediatamente aggiunge che questi “non si chiede il perché delle cose, per cui i fenomeni
passano inosservati”.
Le immagini che Wakkas di tanto in tanto offre sono eleganti, ma sempre penetranti quando vogliono rappresentare la sofferenza dell’umanità.
Si prendano ad esempio queste: " da tempo cercano di convincerci che la miseria è un vizio e che prima di profferire desideri dobbiamo stare attenti, perché certe invocazioni mistiche sono considerate come giochi assurdi inventati per impiegare l'ozio delle persone solitarie" ed ancora "perfino quando beviamo per renderci più allegri ci mettiamo a litigare; poi per esorcizzare la rabbia degli anni, lasciamo un mucchio di lacrime sui marciapiedi".
In queste poche righe c’è la storia di ogni uomo, la sua fatica di vivere, come la maggior parte di noi, che per superare molte volte l’amarezza della vita affonda la sua sofferenza in un bicchiere di vino, illudendosi così di nasconderla, di rimuoverla. Non, non di ogni uomo, ma della maggior parte degli uomini cioè di quelli che sono condannati a vivere nella miseria, la quale è un "vizio", e i quali non devono neppure sognare, avere desideri, che è il fatto più umano e libero che possa esserci, perché il desiderare porta all'ozio.
Nell’uomo, sembra voglia dire Wakkas, c’è sempre tanta umanità anche quando si impara a fare il cattivo. Afferma “non avevo smesso di ricercare sentimenti che sanno dell’odore di pioggia, passioni folgoranti e qualsiasi cosa capace di alleviare il vuoto di una vita priva di sogni”.