Il testo presentato da Wakkas al primo concorso, al quale si assegna un premio speciale della giuria: Io marokkino con due kappa, per molteplici ragioni è straordinario. La prima, certamente la maggiore, è data dalla struttura e dalla tecnica usata. Il racconto è circolare, diviso, come è solito fare l’autore in tre parti, di cui ciascuna può essere l’inizio o la fine del racconto. La circolarità in fondo è la rappresentazione della circolarità della vita perché da qualunque parte si comincia si ritorna sempre ad un punto di partenza e questo in generale per la stragrande maggioranza degli uomini. Gli altri sono “dei”. C’è una forte omologia fra struttura narrativa e tema di fondo.
L’altro aspetto sorprendente è la raffinatezza del linguaggio. Wakkas oltre a proporre immagini, che sono sempre di stupenda profondità, si diverte ad usare le tecniche più raffinate del monologo interiore. Senza farlo vedere, perché usando la punteggiatura non toglie nulla al fatto che i vari concetti che si succedono sembrano pullulare spontaneamente senza connessione logica.
Per rimanere nell’ambito delle immagini che scrive: “Un proverbio orientale dice che Dio quando creò l’universo, volle che tutti gli essere viventi fossero piccoli in principio, per crescere armonicamente con la natura; solo i dolori li ha creati grandi e immensi, e poi ha creato il tempo per non farci accorgere di quel suo effetto insopportabile: dove c’è il dolore la memoria è più fertile, ma
siccome la tragedia perde la coscienza di sé e si trasforma in un’analogia di orizzonti costante e melanconica, ciò ci permette di staccarci dalla realtà e far fare un bel tuffo al di fuori della nostra memoria stagnata”.
In queste poche righe c’è l’essenza della vita umana. Non si sa se la citazione riportata comprenda totalmente il proverbio orientale, che pare che sia solo la prima parte, il resto sembra essere solo un’espansione di Wakkas. Ne vengono fuori considerazione elevatissime: la tragedia e l’immensità del dolore dell’uomo, la costanza del dolore dell’uomo che diventa quasi monotonia, quasi un non ricordarsi più, tanto è continuo e assillante. In queste poche righe c’è il rovesciamento della convinzione umana. Un uomo non è grande perché è in armonia con la natura o perché possiede tanto: è grande, immenso solo perché soffre.
Si osservi ancora quest’altra immagine: “Malgrado le frontiere abbiano un’età minore rispetto alla presenza dell’uomo sulla terra, sono entrate ben presto nel suo destino come un oggetto che fa paura e che si fa rispettare, come se al posto dell’agente di frontiera ci fossero centinaia di statue di quella donna ignota che teneva nelle mani una bilancia con la spada, dopo che qualcuno le ha bendato gli occhi”.
La frontiera qui diventa un archetipo di giustizia e ingiustizia, quasi che “l’essere nel giusto” e nella legalità sia superare o meno le frontiere che stanno entrando nell’immaginario collettivo dello straniero in modo straziante.
La tecnica di scrittura di Wakkas riesce ad essere elevata quando descrive alcuni disagi umani e sensazioni fisiche.
“Il freddo era più che un problema: ci portava all’insonnia, ma come un nemico ci attendeva ogni sera. All’inizio si insinuava piano piano dalle fessure della macchina, e dopo un po’ di tempo, lo trovavamo accanto a noi sotto i brandelli delle coperte e dei vestiti vecchi accumulati sotto i nostri corpi. Il suo alito colpiva i nostri visi come frammenti di ghiaccio, poi continuava il suo percorso finché arrivava alle punte dei piedi. Allora cominciavamo a girarci da un lato all’altro, le molle delle sedie giocavano il loro ruolo in questa occasione, si sentiva come se entrassero lentamente nelle nostre ossa”.
Tutta la prima parte di questo racconto è solo un monologo interiore.
È sorprendente anche la tematica che esprime il coinvolgimento dei personaggi.
Se può essere scontata l’acredine che si avverte per lo sfruttamento e la strumentalizzazione a cui è sottoposto il protagonista, un algerino, meno scontato è il rapporto di reciproco danneggiamento che si stabilisce fra gli stranieri: un polacco prende i soldi per il passaggio della frontiera e imbroglia
il protagonista perché lo abbandona prima del confine; un algerino e un complice di non precisa nazionalità dopo aver tentato di derubare l’uomo riescono a vendergli un pasto alla mensa della Caritas per 50 franchi; due marocchini e un senegalese vogliono assumerlo in società per l’acquisto di un posteggio di un semaforo.
Si scopre che il mondo degli stranieri è un mondo di traffici, raggiri, intrighi, che non risparmiano nessuno. È una guerra tra poveri ove la solidarietà non è forse un istinto comportamentale fra gli emarginati, ma una conquista civile che si indossa quando non si ha bisogno né di dare, né di ricevere solidarietà.