L'ultimo tuo romanzo è totalmente diverso dal precedente "Rometta e Giulieo" e sembra avere una connotazione più marcatamente autobiografica. Pensi che l'autobiografia sia un genere letterario che appaga di più il pubblico e/o anche l'autore stesso?
Non ne ho la più pallida idea. La ragione per cui ho scritto Due Volte è legata a una esigenza di chiudere con una storia che mi assilla, cioè il mio trascorso, che praticamente è sparso in tutti i miei romanzi. Con Due volte è iniziato un percorso verso l’estinzione di tutto questo, cioè, tralasciare per un alcuni anni la fantasia è usare il materiale della vita reale. Diciamo una sorta di terapia dopo la quale spero di non dover più servirmi dell’autobiografico ma di tornare a lavorare sulla finzione. Il romanzo a cui sto lavorando ora è persino più autobiografico di Due Volte e la cosa curiosa è notare quanto la realtà superi di gran lunga la fantasia.
Parecchie tue opere sembrano sperimentali e a volte persino surreali. Che cosa ti spinge a questo genere di composizioni?
Mi sa che è una semplice questione di indole. Sperimentavo anche quando facevo musica, mi piace l’atto della ricerca e dell’indagine anche nella vita che in parte premia e in parte massacra.
Ti senti riconosciuto come scrittore?
Quando uscirono verso la fine del 1900 la Notte Bakonga e Rometta e Giulieo direi di no, non solo a causa delle vendite, alquanto scarse, ma anche perché ero più ingenuo. Con l’uscita di Due Volte invece, durante la stesura e inseguito leggendo le recensioni della stampa, ho come preso coscienza di essere uno scrittore.
Il nome che porti, il colore della tua pelle ha condizionato in Italia la pubblicazione dei tuoi scritti?
Non saprei risponderti con certezza, ma non credo. Voglio dire, ci sono varie persone nere con nomi esotici che tentano di pubblicare e lo trovano difficile nello stesso modo in cui lo trova difficile un bianco signor Rossi. Ai tempi di verso la notte Bakonga le case editrici manco erano attenti al fenomeno dei ‘migrant writers’ il quale per fortuna ai tempi non era un fenomeno, L’editore di Verso la notte Bakonga, per esempio, mi disse "penseranno che ti ho pubblicato solo perché se un ragazzino ma non è vero, lo pubblico perché è un bel libro". E lo stesso pensava la ex vicedirettrice della Feltrinelli di Rometta e Giuleio, quando la incontrai mi recitava a memoria alcuni passaggi, sembrava un bimba da quanto era entusiasta. Boh, la cosa ridicola in tutto questo è che si tende con troppa facilità a dare i meriti della pubblicazione alle origini e alle caratteristiche fisiche dell’autore quando è nero e al contenuto quando è bianco. Voglio dire, se leggi un bel libro di un autore bianco non ti verrebbe mai da chiedere se è stato pubblicato per il colore della pelle o per il suo nome. Fanno bene i Wu Ming. Nella prossima vita se rinasco nero scrittore in Italia mi faccio chiamare Mammolo e rimango in incognito a vedere se si screma un po’ di futilità.
In Italia e non solo è nata questa nicchia della letteratura della migrazione; in
Inghilterra ci sono i Black Writers. Ritieni che sia un fatto positivo che si sia creata un po' di attenzione su questo fenomeno? E' corretto, a tuo parere, parlare della Letteratura della migrazione? E' corretto parlare per quanto riguarda gli scrittori di origine stranieri di prima e seconda generazione?
Che considerazione hanno in Italia gli scrittori di origine straniera?
Ci vorrebbe una tesi per rispondere a questa domanda. So che è inevitabile, e che essendo un fenomeno nuovo richiede un nome per poter essere contraddistinto da altri generi e so che effettivamente esiste un gruppo di scrittori che hanno scelto di scrivere in una lingua che non è la loro e che esistono scrittori di origine straniera di prima generazione e di seconda, il problema è che ci saranno poi quelli di terza generazione, quelli di quarta, di quinta e finirà come i Black Writer che nonostante i secoli trascorsi nel Regno Unito non vengono ancora chiamati Inglish Writer. Odio le categorie. Cosa hanno in comune, in termini di produzione, un nero del Senegal, un nero italiano e un nero dei Carabi al di là del colore della pelle? Non posso farci niente, mi disturba, lo trovo grossolano e riduttivo finire in una categoria. A parte il fatto che taglia fuori molti lettori, penso inoltre che la main-stream venga creata con la creazione dei gruppi minori. Non è di sicuro questa la via dell’integrazione, e quella che rafforza la separazione, diciamo che si congelano le parti in modo tale che salvo qualche camera di comunicazione tra i vari mondi ognuno sente di dover proteggere il mondo che gli è stato creato attorno. Le forza delle parole consiste nella capacità di determinare le situazioni. Voglio dire, bisognerebbe cominciare ad avere uno sguardo più globale verso le cose, non sempre diviso in microcosmi, in tal modo, chiaro che ci si allontana sempre di più dal centro e si creano periferie su periferie. Prova a immaginare dei bambini che entrano in una conferenza chiamata ‘stranieri che scrivono in italiano’ e vedono dei neri su un palco, chiaro che li considerano distanti da loro e appartenenti a un altro mondo. Se invece li fai entrare in un posto che riporta ‘italiani che scrivono in italiano.’ e vedono gli stessi neri sul palco è probabile che comincino ad elaborare il fatto che nonostante le differenze siamo tutti sulla stessa barca. Purtroppo non so neanche se vale la pena dire che la strada è lunga perché mi sa che qui è semplicemente stata presa la strada sbagliata nonostante le esperienze degli autori inglesi neri e degli afro americani che dovrebbero esserci serviti da esempio.
Conosci la rivista el-ghibli? Se la conosci pensi sinceramente che stia svolgendo un lavoro utile?
Certo, è un lavoro utile.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Vivi in Italia o permanentemente a Londra?
Per il momento sto a Londra. Sto scrivendo il nuovo romanzo in inglese, poi vediamo che succede.