Vorrei iniziare il mio discorso col raccontarvi un po' di me. Io sono nato in Congo e sono venuto in Italia all'età di quattro anni e ho vissuto in un istituto a Imola. Poi ho fatto l'asilo, le scuole elementari, le medie e le superiori come un italiano. Praticamente, per forza di cose, mi sono sempre sentito un italiano. Ho cominciato a sentirmi diverso, straniero, quando avvenivano episodi che mi ricordavano che non appartenevo totalmente a questa cultura, considerando che, da ragazzino, non mi sono mai posto la domanda: 'Dove sono, chi sono e da dove arrivò. Ho semplicemente vissuto come fanno tutti i ragazzi, da italiano. Frequentavo amici italiani, perché, in Italia - vi parlo tipo dieci anni fa, quando avevo diciotto anni, o quindici o sedici - se ne vedevano pochi di stranieri, soprattutto in un paesino come Imola. E la gente che frequentavo io erano italiani, per cui sono cresciuto in una cultura italiana, sin dall'inizio e, non avendo la famiglia alle spalle, non ho neanche potuto assorbire la cultura originaria. Quindi, la mia cultura, già dai quattro anni, si è smaltita immediatamente ed è subentrata quella italiana, che ho appreso prima di tutto. Tant'è che io, a scuola, in francese, che dovrebbe essere la mia madre lingua, avevo cinque. E tutti mi prendevano in giro per questo. Ho cominciato a dubitare della mia identità quando, nell'orfanotrofio e nel collegio in cui vivevo, durante i Mondiali - lì, c'erano molti stranieri e molti africani - mi sentivo di dover tifare, per forza, per una squadra africana, perché ero nero e sentivo anche la pressione degli altri stranieri che, appena mi vedevano esultare per la squadra italiana ci rimanevano male. Dicevano: "Ma come è possibile? Tu sei nero…devi tifare per una squadra africana!" E io, nel mio profondo, nel mio intimo, tifavo per l'Italia perché, comunque, ero cresciuto in Italia…Era l'unica cultura che conoscevo, che conosco tuttora e non potevo esprimere questo lato di me. E anche a scuola, quando i miei compagni di classe si accingevano a compiere diciotto anni e dovevano votare, già cominciavano a parlare di politica, di come avrebbero votato. E questa era una discussione a cui non potevo partecipare, non potendo votare in quanto straniero. Non capivo più a quale cultura appartenevo perché, in Italia, burocraticamente, non ero accettato come un italiano, però i miei compagni, i miei amici, si stupivano che io non potessi accedere al voto come facevano loro. E, secondo me, non avere un'identità ben definita, è quasi un pregio, e io lo sento come un privilegio, perché mi dà la possibilità di vivere in una terra di nessuno, in un non luogo, e di riuscire a vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a chi è coinvolto in un mondo. Per cui, diciamo che è matematico che una persona inizi a scrivere perché vuole cercare la sua dimensione. O lo si fa attraverso la musica o attraverso, non so, la scrittura o con altre forme di arte. E penso principalmente che sia questa forma di alienazione a portare le persone a cercare un punto di riferimento solido. Penso che sia così anche per moltissimi italiani che si sentono stranieri nella loro nazione. Immagino che Tondelli o Andrea Pazienza fossero stranieri nel loro paese ed è quello che, secondo me, li ha portati a creare qualcosa di nuovo, ad avere uno sguardo e un punto di vista diversi rispetto ad altri autori.
Dal Secondo Convegno Nazionale-Culture della migrazione - scrittori, poeti eartisti migranti - Ferrara 10 - 11 - 12 - aprile 2003
in www.comune.fe.it/vocidalsilenzio