El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Il segreto di Omdurmann

shirin fazel ramzanali

Era il giorno del mio matrimonio e la casa era piena di ospiti. C'era musica, le donne più anziane suonavano e cantavano mentre le più giovani ballavano. Io ero seduta in mezzo a loro con indosso il mio luccicante abito lungo. Le mie mani erano decorate con disegni in hennè e le braccia colme di braccialetti d'oro. Portavo degli orecchini d'oro massiccio lavorati a mano in filigrana. Erano un modello unico, fatto fare da un valente orafo indiano apposta per me. Perfino alle dita dei piedi portavo anelli d'oro. Il mio corpo fu lavato con sapone di sandalo ed unto di olii profumati. Nella stanza dal braciere saliva un intenso profumo di mirra.
Dodici agnelli ed un cammello erano stati sgozzati in onore del mio matrimonio. Tutti dovevano mangiare a sazietà, compresi i poveri del quartiere, così da ricordare sempre questo giorno !
Avevo paura. Era la prima volta che lasciavo la casa di mio padre. Fino a diciassette anni avevo vissuto felice in quella grande casa.
Sono stata sempre coccolata da mio padre e dai miei fratelli più grandi. Mia madre era morta quando avevo tre anni. Ho dei vaghi ricordi di lei, ma non ho dimenticato il suo sorriso e le sue mani che mi imboccavano il dolce di cocco che era brava a preparare. Tutti coloro che l'hanno conosciuta mi dicono che le assomiglio moltissimo e penso che sia per questo motivo che mio padre abbia in seguito sposato la sorella di mia madre. In questo modo faceva sì che nessuna altra donna ci potesse maltrattare.
Mia zia non era una bella donna, ma era l'essere più buono e dolce che Allah avesse messo su questa terra. Era riconoscente a mio padre di averla tolta dalla condizione di zitella ed ha sempre accudito noi e la casa con tanto amore e devozione. Con gli anni anche mio padre le si affezzionò e le fu grato per averci allevato con tanta cura malgrado non avesse avuto con lei nessun figlio.
Mai come questa notte ho desiderato avere mia madre accanto. Almeno lei mi avrebbe spiegato come comportarmi in quella camera da letto. Mia zia si era limitata a stringermi forte e gurdandomi negli occhi mi disse:
"Fai tutto quello che ti dice di fare tuo marito"
Quella notte il mio corpo aveva solo sentito male, forse per la fretta di mio marito di possedermi e di appurare la mia verginità. So che quel lenzuolo sporco di sangue fu mostrato a tutti e mio padre ne fu molto orgoglioso.
Le notti che seguirono il mio corpo imparò a cedere piano piano a quelle mani e a quella bocca che scoprivano centimetro per centimetro parti di me che nemmeno io conoscevo. A lui piaceva possedermi con una luce soffusa così poteva guardarmi, ed io lentamente imparai a non vergognarmi più e a guardarlo negli occhi. Quella luce particolare nei suoi occhi nerissimi che brillavano così intensamente solo nei nostri momenti più intimi, perchè durante il giorno parlava poco e sembrava che mi sfuggisse.
Presto rimasi incinta e ne fui felice come una bambina. Mi divertivo a guardare nello specchio il mio pancione che cresceva e i miei seni che si riempivano. Anche mio marito era felice. Il giorno che dovevo partorire tutto era pronto per celebrare il grande evento, ma nacque una bambina così non ci fu nessuna festa. Mio marito era deluso, ma diede a nostra figlia il nome Fatima, in onore della figlia del Profeta.
Dopo Fatima nacquero Aisha, Nabila e Najma. Tutte femmine, ed ero incinta per la quinta volta. Questa volta avevo paura, ma non del parto. Ero pronta a sopportare qualunque dolore pur di dare a mio marito un figlio maschio. Tutti aspettavano i monsoni che rinfrescassero un po' l'aria, così in una notte calda e afosa nacquero Zeinab e Zuleika.
Le gemelline vennero al mondo senza urlare tanto erano fragili ed avevo paura che non potessero farcela. Le attaccai al seno e pregai tanto per loro. Anche se erano solo due femmine io le amavo. Loro padre non venne neanche a guardarle e partì per un lungo viaggio.
Il mio cuore si faceva sempre più forte, continuavo a mandare avanti la famiglia e volevo che mio marito fosse orgoglioso delle sue figlie.
Fin dalla più tenera età le avevo abituate a difendersi da sole visto che non avevano un fratello che potesse venire in loro aiuto. Alla scuola coranica i maschietti le temevano perchè erano capaci di tirare pugni e calci meglio di loro, anche se poi in casa si comportavano da vere damigelle.
Le vestivo con molta cura. Avevo imparato ad usare la macchina da cucire, così con quegli abitini sembravano delle bamboline. Mi piaceva stare con loro raccontando delle favole o leggendo loro le poesie.
Aisha, la mia secondogenita, era così brava ad inventarsi delle favole che passavamo intere serate sul terrazzo di casa ad ascoltarla, mentre le altre si limitavano a ridere. Mi diceva che da grande sarebbe diventata una scrittrice.
Fatima invece non aveva dubbi, voleva diventare medico. Sin da quando aveva cinque anni continuava a ripeterlo. Quel medico straniero dagli occhi azzurri come il mare l'aveva di certo influenzata. Infatti non ha mai pianto in sua presenza, come invece facevano le sue sorelle, neppure quando doveva farle delle iniezioni. E quando lui, dopo l'iniezione, le porgeva il lecca-lecca, lo prendeva con un sorriso guardandolo dritto negli occhi, come se volesse tuffarsi in quell'oceano.
Erano passati tre mesi da quando mio marito era partito per lo Yemen. Era un commerciante ed aveva in quel paese degli affari da concludere, però sapevamo anche di alcuni suoi lontani parenti che vivevano a San'a.
Al suo ritorno non venne solo, ma con la sua nuova giovane moglie. Quella notizia mi paralizzò. Non volevo più vivere. Non riuscivo ad allattare le gemelline, ma per fortura erano già più grandi e quindi si abituarono presto al latte di mucca.
Mio marito chiese perdono a mio padre dicendogli che la famiglia l'aveva obbligato a prendere in moglie questa sua lontana cugina orfana, facendo così un'opera meritoria che Allah l'avrebbe ricompensato con dei figli maschi.
Io ero mussulmana e sin dalla più tenera età ho giocato con bambini che avevano lo stesso padre ma madri diverse. Per me era un fatto naturale, anche se mio padre non ha mai preso una seconda moglie quando mia madre era ancora viva.
Avevo delle amiche i cui mariti avevano una seconda moglie, ma non avevo mai pensato che a me personalmente potesse accadere la stessa cosa. Non mi ero mai preparata a questa eventualità.
Vivevo nel mio mondo, felice come una regina delle favole. La mia vita era rallegrata dalle risa delle mie principessine e da mio marito che tutte le sere giaceva al mio fianco. Di colpo tutto questo svaniva alla luce della nuova realtà. Mi sembrava d'impazzire. Volevo andare via da quella casa, tornare bambina tra le braccia di mio padre. Desideravo divorziare, ma mio marito non era d'accordo. Provenivo da una famiglia ricca, non ero analfabeta e mio marito non voleva perdermi. Inoltre per la legge islamica l'arrivo di una seconda moglie non era una buona ragione per divorziare.
Mio padre cercò di persuadermi con buone parole ed infine quando si stancò m'impose di rimanere con la mia famiglia. Cosa avrei fatto con sei bambine ? Chi mi avrebbe sposato ? Anche se non avevamo problemi economici mio padre preferiva che io fossi rimasta sposata piuttosto che divorziata. Nella società sarei stata più rispettata e poi ero pur sempre la prima moglie, quindi godevo di tutti quei privilegi che derivavano da questa mia posizione, almeno fino a quando l'altra non avesse messo al mondo il fatidico figlio maschio. Quando noi donne ci riunivamo per il thè o per qualche altra occasione, molte di loro ridevano, mi accarezzavano il viso dicendo che era il nostro destino di donne e che eravamo nate per questo.
Il mondo maschile era crudele, ma finchè il mio corpo era ancora giovane dovevo cercare di prendere mio marito e dargli quel figlio maschio che tanto desiderava. Alcune donne mi prendevano in giro dicendomi che ero capace solo di mettere al mondo figlie femmine. Quelle parole mi ferivano, pensavo che mi avrebbero capito ma mi sbagliavo. Loro erano ancora più crudeli dei maschi.
Caddi in uno stato di profonda depressione che mi annebbiava il cervello. Facevo tutto meccanicamente. La casa era perfetta, le mie figle idem, anche se a loro non riuscivo più a dare quel calore materno e alla notte non riuscivo a dormire.
Le notti erano lunghissime. Odiavo quel suo russare a cui prima non avevo mai fatto caso. Non mi facevo più toccare da mio marito, così lui incominciò a passare le sue notti nella casa dell'altra moglie. Veniva da noi solamente per salutare le bambine.
Najma aveva un anno e mezzo, adorava suo padre e quando veniva non si stancava mai di stargli in braccio. Nabila, da brava attrice, riusciva a stregarlo con tutte le moine che era capace di fargli. Aisha era la sua prediletta, così vivace e intelligente sapeva recitare le poesie alla perfezione. Fatima parlava poco, ma bastava che lo guardasse con quegli occhioni neri e lui vedeva se stesso da bambino. Il tempo passava ed io non riuscivo ancora a perdonarlo. Intanto le gemelline crescevano ma temevano il padre. Infatti lo vedevano poco, e quando veniva si nascondevano dietro il mio vestito.
La gente come al solito si divertiva a fare pettegolezzi. D'altronde spettegolare era l'unico divertimento in quella tranquilla città così sonnacchiosa. Le giornate scorrevano lente e le recenti piogge avevano rinfrescato l'aria. Alla mattina presto passava la donna del latte che portava anche le uova fresche di giornata. Verso metà mattina era il turno del carrettino della verdura. Quel vecchio aveva una voce sgradevole, ma le sue angurie erano dolcissime, le melanzane lucide e sode ed i pomodori maturi al punto giusto.
Le persone cominciavano a chiedersi come mai la giovane sposa venuta da lontano non incominciasse a mettere al mondo dei figli.
Non provavo alcun sentimento nei confronti della mia rivale, il mio rancore era rivolto tutto verso mio marito, finchè un giorno, al funerale di mia suocera la vidi per la prima volta. Lei non mi guardò negli occhi anche se poi sapevo benissimo che avrebbe seguito ogni mio movimento.
Era più giovane di me. Alta, con i fianchi stretti e il collo lungo come un cigno. I seni si notavano poco dal vestito, chiaramente ancora acerbi e sodi. Le labbra erano carnose e un arco di folte sopracciglie sovrastava due occhi piccoli e sfuggenti.
In quel momento realizzai che era lei la causa di tutto e allora incominciai ad odiarla profondamente. Approfittando delle urla e dei pianti urlai anch'io con tutta me stessa unendomi al coro delle donne che piangevano e si lamentavano per mia suocera.
Erano lacrime di vero dolore. Pensavo di non essere più capace a piangere. La gente sapeva che ero la nuora preferita così giustificarono il mio stato isterico.
Tornando a casa mi sentivo liberata. La mia casa con le sue grida di bambini mi mancava e tutto ricominciava a prendere forma e colore.
Notai subito in giardino il profumo dei frangipani e l'odore di menta. L'albero di buganvillee aveva un colore che da rosa diventava fucsia. Più in là c'erano gli alberi già carichi di papaye mature e la nostra gatta tigrata stava pigramente sdraiata con gli occhi socchiusi. Andai subito in bagno. Avevo bisogno di sentire l'acqua fresca sul mio corpo.
Volevo togliermi di dosso quella cappa di dolore, così mi insaponai e rimasi a lungo sotto il forte getto d'acqua. Fu allora che notai il mio ventre piatto. Improvvisamente sentii dentro me un imperioso desiderio di maternità. Far nascere bambini, sentire una nuova vita formarsi nel grembo, per nove mesi cibarsi e respirare anche per lui erano sensazioni indescrivibili che sentivo il bisogno di provare nuovamente.
Non mi fu difficile riconquistare mio marito anche se lo facevo solo per rimanere incinta. Quando si coricava con me spegnevo la luce così non dovevo guardarlo, ma sentivo su di me il suo corpo sempre forte e virile. Mi prendeva con la veemenza e il desiderio della prima notte.
Dopo che rimanevo incinta non mi facevo toccare. Fu così che nacquero Mariam, Samira, Latifa, Tahira e Zuhair. Il mio utero non faceva più fatica e i miei parti erano dolci come il carattere delle mie bambine.
In tutti questi anni l'altra moglie di mio marito non ebbe figli. Era irrimediabilmente sterile, così nè dottori, nè intrugli di erbe preparate da vecchie praticone servirono. Le bene informate malelingue dicevano che era anche ricorsa alla magia nera.
La casa era in festa, colma di parenti e amici. Il profumo del cibo preparato da mani esperte che sapevano dosare le spezie senza usare la bilancia si spandeva nell'aria. L'aroma dei chiodi di garofano, zenzero, cannella e del cardamomo si mescolava al caratteristico odore del riso cucinato con la carne d'agnello. Le caraffe erano colme yoghurt mescolato al latte e al miele. Gli uomini erano riuniti in un'altra ala della casa. Mio marito era seduto di fronte al suo futuro genero. Era il fidanzamento di Fatima con un ragazzo di buona famiglia che a giorni doveva partire per gli Stati Uniti e laurearsi in ingegneria.
Il nostro paese aveva bisogno di laureati e si era deciso che anche Fatima si sarebbe laureata in medicina.
Per me era un giorno ricco di emozioni, mi ero stancata molto e fu allora che sentii la prima fitta. Non ci feci caso, solo dopo un po' quando le contrazioni si fecero più violente capii che era una cosa seria. Non volevo rovinare quel giorno, così mi avvicinai a Hababa Barka, la mia vecchia levatrice, che mi accompagnò nella mia camera. Il dolore si faceva sempre più forte e sudavo copiosamente. Cercavo di non urlare ma ero conscia che questa volta il parto non sarebbe stato dolce come le altre volte. Sentivo che la testa del nascituro non usciva, il cuore mi batteva all'impazzata e la levatrice spingeva forte sul mio ventre. Finalmente riuscii a partorire e sentii la vecchia Hababa gridare con tutte le sue forze:
"E' un maschio! E' un maschio!"
Io alzai gli occhi e vidi quel bambino dai genitali sproporzionati che urlava. Ebbi paura. Era la prima volta che mi capitava di mettere al mondo un bambino così prepotentemente. Mi addormentai subito, ero stremata.
Sognai di essere in un bellissimo giardino ed i fiori avevano il volto delle mie bambine. Di fronte a me, in ginocchio, c'era un giovane bello come i principi delle Mille ed una Notte che presomi la mano se la portò al volto. Mi chiese perdono per tutto il male che gli uomini facevano su questa terra e quando ritirai la mano, era bagnata di lacrime.

Questo testo è stato pubblicato su Studi d'Italianistica nell'Africa Australe - Vol. 8 No. 2

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A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 5, Numero 23
March 2009

 

 

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